19 Maggio 2020

Jacobsen possedeva i baffi più belli della letteratura di ogni tempo e “Niels Lynhe”, il non eroe marchiato dalla malinconia, è il suo capolavoro. “Gli uomini lo interessano, ma non gli importa niente che si interessino a lui”

Stare lì a guardare la vita che ti passa accanto. Cercare continuamente di prenderla, ma lei è inafferrabile. Sembra fatta di una materia vischiosa che si sfarina in mano ogni volta che uno cerca di afferrarla, per poi ricompattarsi come per magia e scorrere via. Prova e riprova, ma non c’è niente da fare. Inutile girarci in giro. Il dolore di vivere è la malattia nella quale si dibatte e si logora l’uomo moderno, perennemente dissociato da se stesso. Ce lo dice tutta la letteratura più grande del Novecento da Kafka alla Woolf, da Proust a Musil e, per restare a casa nostra, da Svevo a Pirandello, da Tozzi a Borgese fino a Buzzati e Berto. Prima di loro ci sono stati L’educazione sentimentale di Flaubert, il capolavoro della disillusione, Le memorie dal sottosuolo di Dostoevskij e l’Oblomov di Goncarov.

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Non sto dicendo niente di nuovo, però c’è un altro grande cantore dell’incapacità di vivere che nel cuor mi sta e del quale non parla mai nessuno. Mi riferisco a Jens Peter Jacobsen (1847-1885), danese, titolare a mio insindacabile giudizio dei più bei baffi della letteratura di ogni tempo, ma soprattutto autore di Niels Lynhe, il suo capolavoro pubblicato nel 1880 e in Italia edito da Iperborea. Il protagonista, che dà anche il nome al romanzo, è a tutti gli effetti uno dei primi eroi-non eroi di quella malinconia che nasce dalla perdita del senso della vita. Insomma, un capostipite della nobile famiglia degli inetti, destinata a essere al centro di tutti i grandi romanzi scritti dagli autori che ho citato in precedenza. Sono quegli individui condannati all’incomunicabilità e alla solitudine, perennemente frenati da una ipersensibilità che li rende inadeguati a un’esistenza piena e destinati a essere sconfitti dalla realtà quotidiana.

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Il romanzo di Jacobsen è la storia della vita di Nils Lynhe, dall’infanzia sino alla morte. Fin da bambino si accorge di non essere come gli altri, di non riuscire a partecipare alla vita. Il suo dramma è quello di una ferita precoce, di una frattura insanabile. In questo distacco finisce per diventare estraneo a se stesso e il suo io va in frantumi, si divide. È afflitto da quella che un secolo più tardi il grande psichiatra inglese Ronald D. Laing nel suo imprescindibile L’io diviso chiamerà “insicurezza ontologica primaria”. Non vive, si guarda vivere.

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Vi era in Niels Lynhe una sorta di paralizzante cautela, che derivava da un’istintiva ripugnanza a osare, a sua volta originata da un’oscura sensazione di mancare di personalità e contro questa sua cautela egli era in lotta continua, talvolta ingiuriandola per spingersi a reagire, talvolta invece cercando di presentarsela come una virtù inerente alla sua stessa natura, anzi come il vero segno distintivo della propria individualità e delle proprie attitudini”.

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Attenzione a non confondere Jacobsen con un languoroso esteta decadente. La sua formazione è scientifica. Studioso e traduttore di Charles Darwin, ha scritto diversi trattati di botanica ed è a pieno titolo un figlio del Positivismo ottocentesco, ma proprio in quanto tale arriva alla consapevolezza che il sapere scientifico e il rifiuto di Dio non sono sufficienti a dare un senso alla vita e, razionalmente, ne trae le tragiche conseguenze. È una coscienza inconsolabile che sa di non potere trovare pace nella ragione.

In alcuni dei passaggi più belli del libro che non mi stanco mai di leggere e rileggere, Jacobsen si sofferma su alcuni fenomeni naturali come lo sbocciare di un fiore, il volo di una farfalla, le foglie accese dalla luce di un tramonto, che per qualche istante fanno intravedere a Niels la possibilità di aprire quella porta sempre chiusa che lo introdurrebbe a un’esistenza piena e autentica. Vorrebbe congelare quei momenti magici, ma come la vita gli si sbriciolano tra le mani e a lui rimane solo la nostalgia di qualcosa che non c’è più, svanito in un batter di ciglio e per sempre. Spero di non scandalizzare nessuno se dico che ogni volta che torno a quelle righe mi vengono alla mente le “intermittenze del cuore” di Proust.

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Potesse questo istante della vita richiudersi su se stesso come è richiusa una gemma, e la primavera non venire mai”.

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Nel romanzo ci sono le ambizioni poetiche del protagonista, rigogliose nelle sue eterne fantasticherie ma mai approdate a nulla e le sue passioni amorose, all’inizio così intense e ricche di passionalità e poi inesorabilmente destinate a inaridirsi, sconfitte dagli implacabili ingranaggi della quotidianità. L’esistenza di Niels Lynhe è un’interminabile attesa di qualcosa che non arriverà mai. Ogni riferimento a Dino Buzzati non è affatto casuale. Sente di avere le forze per scavalcare le montagne più alte e raggiungere le mete più lontane, ma non ha mai la volontà di partire e di mettersi in viaggio. Gli restano soltanto la malinconia, la delusione e la consapevolezza di non avere realizzato le proprie aspettative. Tutto gli appare vuoto, senza senso e inutile.

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Vive molto in mezzo alla gente, ma non vive con la gente: gli uomini lo interessano, ma non gli importa niente che si interessino a lui; sente sempre più scemare dentro di sé quella forza che avrebbe dovuto spingerlo ad agire, con gli altri o contro di loro”.

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Niels Lynhe è condannato a restare imprigionato nel vuoto incolmabile che si è aperto tra la vita e l’io, due fortezze solitarie inaccessibili l’uno all’altra. Il cuore pesante come fosse un macigno di piombo lo ha reso emotivamente paralizzato, quasi catatonico. Il dolore di vivere ha ormai un controllo pieno e assoluto su di lui. Il libro termina così: “E finalmente morì la sua morte, la difficile morte”.

Un finale che apre spazi oceanici sul prima e sul dopo. Da solo vale un romanzo intero e andrebbe conservato nello scrigno segreto dove teniamo le cose che ci sono più care. Io l’ho fatto e ogni volta che lo apro non posso fare a meno di pensare che forse Niels Lynhe negli ultimi istanti della sua vita ha sentito in lontananza l’eco delle parole di Osvald quando, nella scena finale degli Spettri di Ibsen, pronuncia la famosa battuta: «Mamma, dammi il sole». E noi con lui.

Silvano Calzini

*In copertina: Jens Peter Jacobsen (1847-1885) pubblicò “Niels Lyhne” nel 1880

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