Sembra perfino ovvio che Christine Angot non passi nel mercato editoriale italiano. Rompe le palle, mette il mignolo nell’ano delle cose indicibili, indecenti, crede, in fondo, che lo scrittore debba rovistare nella merda; è assai francese, in questo, ritiene l’abisso fecale, è della serie dei Pascal e dei Sade, celebra l’autobiografismo come Montaigne, vaga nel pervertito come Laclos, i suoi maestri sono Marguerite Duras, Marcel Proust, Céline (l’ordine è verticale a contrario) eppure “Non mi intimidiscono né la Duras né Proust né Céline”. Il problema di Christine Angot è che non è telegenica e piaciona come Emmanuel Carrére – la cui carriera è favorita da genitori d’elezione – e non è graziosa come Annie Ernaux. Nata il 7 febbraio del 1959, ha esordito nel ’90, con Vu du ciel, per Gallimard; ha sbalordito la roulette editoriale nel 1999, con L’Inceste, il racconto di una sua relazione omosessuale – e fin qui, nulla di strano – ma soprattutto del rapporto incestuoso con il padre. Riconosciuta dal signor Angot quando era adolescente, Christine inaugura una liaison potente, imbarazzante, voluttuosa. La grazia del libro è nella violenza cartesiana, cristallina, autocratica senza autocritica; infine la scrittrice trae dal torbido una ‘poetica’: “L’incesto è il libro in cui mi raffiguro davvero come una merda, una grande merda, tutti gli scrittori dovrebbero farlo, almeno una volta. O forse farlo più volte, farlo e basta. Scrivere forse non è che questo, mostrare la grossa merda che siamo. Ovviamente no. Sei pronto a credere a qualsiasi cosa. Ma la scrittura non è una cosa. Scrivere è tutto. Ai limiti. Continuamente. Della vita, di sé, dello stile, della taglia, del corpo”. In Italia fu tradotto quasi subito, nel 2000, da Einaudi, nella collana ‘Stile libero’; è scomparso.
Christine Angot non funziona in questo paese dai regimi letterari ombelicali, che si scandalizza per un fatto sociale, a patto che il privato non sia vilipeso, azzannato, sfondato. Guanda ha tradotto Una settimana di vacanza (2013) e Il mercato degli amanti (2010); poco, al cospetto di una scrittrice che ha pubblicato, in Francia, una ventina di romanzi, quasi tutti eletti a polemica. L’ultimo, Le Voyage dans l’Est (Flammarion, 2021) le ha consentito il Prix Médicis (andato, negli anni, a Claude Simon, Elie Wiesel, Georges Perec). La Angot è vigorosamente antipatica, per questo ci è simpatica: Tahar Ben Jelloun l’ha accusata di pornografia, e lei gli ha risposto per le rime (“Se Ben Jelloun pensa che questa sia pornografia, sono preoccupata per lui. La pornografia mira a provocare l’eccitazione sessuale… non si dica la descrizione di una fellatio è insostenibile: di scene come questa ce ne sono tante nel cinema e nella letteratura. Purtroppo, una relazione incestuosa è fatta di gesti di questo tipo”); gli fa schifo il libro di Michel Houellebecq, Soumission (“è un romanzo, un banale romanzo, ma sporca chi lo legge… non è un trattato, ma un graffito: merda a chi lo legge”; si noti la costanza della similitudine escrementizia), e rifiuta di incontrarlo in tivù. Ha una faccia da ragazzo, una somiglianza laterale con Charlotte Gainsbourg. La accusano di scrivere sempre lo stesso libro, sullo stesso tema, anatomizzato fino all’estinzione; ma la stessa cosa si potrebbe dire di Michel Leiris o di Jouhandeau o di Pierre Klossowski, scrittori nati per esplorare una singola ossessione, esasperandola. Lei, per così dire, se ne fotte.
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Ho conosciuto mio padre in un albergo, a Strasburgo, non ricordo quale. L’edificio era alto quattro piani. Davanti c’erano alcuni parcheggi. Siamo entrati da una porta a vetri. La reception era sulla sinistra. C’era un ascensore, al fondo. Una scala di legno, ricoperta da un tappeto, attutiva i passi. La facciata era piuttosto moderna. Pietra, bianca. Bassorilievi di forma geometrica. Almeno credo. Erano le vacanze estive. Avevo tredici anni. Mia madre aveva avuto l’idea di un viaggio nell’est della Francia. Abbiamo lasciato Châteauroux all’inizio di agosto. Ci siamo fermati a Reims, a Nancy, a Toul. Siamo arrivate a Strasburgo in un giorno feriale, verso la fine della mattina.
La mia stanza era al secondo piano, dava sulla strada. Quella di mia madre era al piano di sopra, nella parte interna. La mia doveva essere a est, o a sud-est. La luce era molto forte. La carta da parati era gialla. Avevo il bagno per me. Di solito, io e mia madre condividevamo la stessa stanza. Mio padre aveva prenotato e chiamato. Lei me l’aveva passato. Ho sentito la sua voce e sono scoppiata in lacrime.
Sto sul letto, ansiosa. Qualcuno bussa alla porta. Entra mia madre.
Mi ha appena chiamato. È uscito dall’ufficio. Arriverà tra venti minuti. Vuoi aspettarlo qui o all’ingresso?
Mi metto davanti alla finestra. Il cuore batte.
Che macchina ha?
Aveva un diesel, una volta. Forse l’ha cambiata.
Di che colore?
Quella… blu… credo.
Non me lo ricordavo. Non ho espresso il desiderio di incontrarlo. Quando mi chiedevano dove fosse, dicevo che era morto.
Non restare lì, Christine. Vieni. Vieni a sederti vicino a me.
Avevo visto una sua foto, prima della mia nascita. Indossava una camicia bianca, dentro i pantaloni, che avevano la cintura. Era magro. Capelli castani, occhiali. La figura maschile della mia infanzia è stata lo zio. Gli avevo fatto il regalo per la festa del papà. Una custodia per pettini che si infilava nella tasca della giacca. Gli piaceva profumarsi e vestirsi bene, non osavo mandarlo a mio padre. Prese il regalo, era imbarazzato. Non l’ha mai usato.
Il nonno veniva a Châteauroux una volta all’anno. Era un ebreo dell’Europa centrale, nato ad Alessandria, parlava dieci lingue. Il rapporto con mia madre era molto difficile per lui.
C’erano pochi uomini intorno a me. Relazioni distanti, conversazioni distinte, gentili. Commercianti. I padri delle mie amiche. Tutti i miei insegnanti erano donne. I padri aspettavano le figlie all’uscita da scuola, il sabato. Potevo vederli da lontano, seduti al volante della loro auto. Ne ho incrociato uno, in corridoio, nell’appartamento dove sono stata invitata per un compleanno.
Bussano alla porta. Mio padre. L’immagine che mi ero fatta, quella della fotografia, non corrispondeva alla realtà. Ho visto quel genere di uomini soltanto in televisione. Era elegante, senza cravatta, i capelli neri, lunghi, leggermente di lato. Mi sono gettata tra le sue braccia, piangendo, il respiro scosso dai singhiozzi.
Sono felice di conoscerti. Piango, ma è perché sono felice. Sono felice…
Anch’io, Christine.
Mi chiude tra le sue braccia. La mamma posa una mano sulla mia testa, sussurra parole rassicuranti. La stanza è piena di luce.
Aveva prenotato un tavolo in un ristorante vicino alla stazione. La guida Michelin raccontava di specialità alsaziane.
Ti piacciono i crauti?
Veramente, no.
Vedo che hai una certa personalità.
La mamma ha gli occhi che brillano, l’angolo della bocca si alza: Ha preso da te.
Lui sorride. Ha un sorriso speciale. Le labbra sono sottili, aggraziate, e lunghe.
Christine Angot