Gli scrittori non sanno fare l’amore. Il romanzo “disumano” di Sarr, premio Goncourt
Libri
Linda Terziroli
Berlino Est, luglio 1986.
La scena si svolge all’interno di un appartamento all’ultimo piano, anticamera di un cielo senza angeli. Giacciono a terra, su un tappeto azzurro al centro della sala, arresi a una felicità inattesa e travolgente, a consumare il principio della morte di un futuro amore. I corpi che si sfiorano e poi si avvinghiano, predati da un desiderio nato per caso, sono già i sepolcri del disfacimento di due vite nel crepuscolo della Repubblica Democratica Tedesca.
L’amplesso, nei suoi gesti preparatori – lei toglie gli occhiali a lui, la sua spalla nuda si sagoma nella mano di lui, che dopo scende verso le minuscole natiche di lei, i baci vicendevoli, i piedi scalzi e le gambe intrecciate, e dappertutto i capelli di lei, che lo morde, forsennata, e nessuno si domanda quanti lembi di corpo ancora dovranno infiammarsi prima di arrivare all’unione nel grembo –, l’amplesso, dicevamo, si macera nella tragica solennità del Requiem di Mozart, che erompe, profetico, da un giaradischi. E allora il fraseggio dei corpi s’intercala con quello della musica, e ogni movimento dell’opera assurge a simbolo-presagio dell’andamento di un amore destinato al Dies Irae, o forse, semplicemente, a una lunga notte, impenetrabile, e senza salvezza. Non c’è Lux aeterna in quell’amore, non c’è redenzione, ma gli amanti non lo sanno ancora, ne vivono invece la prima morte, incoscienti, nella frenesia dell’estasi, mentre la puntina del giradischi continua a graffiare a vuoto.
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Ecco una delle prime scene con cui si apre Kairos, romanzo di Jenny Erpenbeck (berlinese di orgini russe e polacche) pubblicato quest’anno da Sellerio, con l’accurata traduzione di Ada Vigliani. Katharina, una studentessa diciannovenne, e il carismatico Hans, musicologo e scrittore ultracinquantenne, sposato e padre di un figlio, un giorno d’estate s’incontrano su un tram, per caso, anzi per un capriccio di Kairós, il dio calvo con una ciocca di capelli sulla fronte, che passa, agile e svelto, per farsi afferrare come un’occasione irripetibile, decisiva. Hans e Katharina s’incontrano in un’epifania di tempo, una coincidenza che diventa demiurgo dei loro destini, i quali, pagina dopo pagina, attraverso un continuo parallelismo allegorico, s’intrecciano con le sorti declinanti della Germania dell’Est.
La storia d’amore scorre principalmente sullo sfondo di una Berlino metallica, wenderiana, brucia in strade, piazze e stazioni – che portano nella memoria di Hans lo stigma del Terzo Reich, durante il quale egli ha vissuto la propria infanzia –, si tormenta in mansarde, in appartamenti, in teatri e in ristoranti polverosi dove, fra dialoghi elevati e silenzi angosciati o punitivi, si consumano spumante e caffè e si fuma ossessivamente. Si fuma e si ama ossessivamente, a dispetto di ogni vana cautela. Katharina accetta la dominazione intellettuale e psicologica che Hans mette in opera, se ne lascia ammaliare, e persino eccitare nel corpo. Ogni incontro erotico sembra però condurre verso la fine progressiva di quell’amore insondabile ed eslcusivo. Siamo al cospetto della petite mort diRoland Barthes (Le plaisir du texte, 1973), quell’annichilimento fatale che segue il godimento provocato dall’esperienza erotica e da quella estetica.
Hans e Katharina, sognano l’assoluto, il legame imperituro, progettano addirittura un figlio, ma infliggono al loro amore infinite piccole morti a ogni incontro, mentre l’ossessione vicendevole s’accresce, innescando dinamiche manipolatorie distruttive da parte di Hans. Perché Hans è ossessionato dall’idea di possedere completamente Katharina, e dunque la sottopone a perverse torture psicologiche, esigendo lealtà assoluta e mantenendo al contempo pressoché intatta la sua vita coniugale. Katharina, dal canto suo, fiancheggia la vita e le speranze della sua generazione, ma langue altresì nell’inferno di un’attrazione possente che non le permette di sfuggire alla sudditanza, accettando e, talora persino godendo, di pratiche erotiche punitive. L’erotismo, d’altronde, “è crudele, porta alla miseria, esige dispendi rovinosi” (Georges Batailles, L’erotsimo, 1957), e i due amanti ne sono espressione eloquente.
Così, mentre assistiamo al cannibalismo amoroso, alla Danse Macabre di Hans e Katharina, ai loro sotterfugi, ai tradimenti e ai ricatti, attraverso diari, lettere e nastri registrati, attraverso dialoghi e silenzi, anche le due anime della Germania – quella orientale, intrisa di controllo e conformismo, e quella occidentale, vocata al consumismo e alla libertà individuale – guerreggiano fra diffidenza e tensioni, anch’esse vittime di un rapporto di dominazione e sottomissione inframmezzato da aspri tentativi di dialogo.
Il parallelismo fra la Storia che accade, e la storia immaginaria che ci viene raccontata da Erpenbeck è di folgorante efficacia, grazie anche a una narrazione dal montaggio serrato che permette l’armonico intersecarsi di vicende politiche e umane, così come il sovrapporsi – in consonanza e dissonanza – dei pensieri dei due amanti. Due amanti che sono emblema di due generazioni: quella di Hans, ormai disillusa, e in fondo rabbiosa nei confronti di un sistema le cui grandi promesse sono fallite, e quella di Katharina, i cui sogni e le cui speranze affogano nei rigurgiti di amarezza di quell’altra generazione, irrimediabilmente sfinita, finita. Berlino, a sua volta, è un simbolo, un tempio che, sullo sfondo della Guerra fredda, progressivamente si disgrega, come l’amore clandestino di Hans e Katharina, che è costellato di separazioni e riavvicinamenti, di mute disperazioni – nessuna parola può spiegare un’ossessione amorosa – e di parossismi erotici in cui percepiamo sempre più intenso il lezzo putrescente dei fiori appassiti.
Fino alla deflagrazione, quando il Muro crolla. La fine del regime segna un punto di svolta, offre a Katharina la possibilità di emanciparsi. La trasformazione del contesto storico sembra suggerire a tutti, ma soprattutto a lei, una nuova libertà, ma non ne garantisce la conquista, poiché porta il segno delle piaghe profonde del passato.
La Storia, in questo romanzo, è un’ombra compatta, gravosa, che affianca i protagonisti, suggestionandone i comportamenti, le scelte, e finanche il destino. E quando pensiamo che il crollo sia la fine della vecchia Storia, e della loro storia, quando pensiamo di aver capito, quando pensiamo di poter condannare senza appello un amore che oggi ci si affretterebbe a etichettare come “tossico”, quando pensiamo che ogni storia d’amore, come la Storia, sconti la pena di un conflitto irresolubile a essa consustanziale, ci ritroviamo d’improvviso al cospetto di un’ultima epifania che forse ci condurrà se non alla comprensione, quanto meno alla sospensione del giudizio.
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Jenny Erpenbeck traccia due ritratti umani di un nitore violento – cui fanno da specchio i due volti della Germania divisa – e lo fa, paradossalmente, attraverso una narrazione sfuocata, non lineare, scompigliata, che simboleggia ed esalta la natura frammentaria delle esperienze e dei ricordi dei protagonisti. La prosa è densa, a tratti cruda, più raramente lirica, priva di segni d’interpunzione; i punti di vista s’alternano, attraverso un uso efficace del discorso indiretto libero, e i pensieri dei due amanti si mescolano a rimandi filosofici, a citazioni letterarie e musicali. L’intreccio, fra analessi ed ellissi, è un gomitolo inestricabile, come l’amore di cui si tenta di dare conto. Un amore, quello fra Hans e Katharina, che è un prisma attraverso cui la scrittrice indaga temi universali come il desiderio, la manipolazione distruttiva, e la ricerca di senso in un mondo in mutamento.
“Ogni cosa ha sempre due facce. Solo due? Colpa e merito s’incontrano sotto lo stesso nome più spesso di quanto si creda. Attenti a non accrescere o diminuire uno a spese dell’altro. Bisogna lasciarli in una reciproca dipendenza, perché è solo dal dislivello che forse un giorno nascerà il movimento. Così s’immagazzina energia, nella discrepanza, nella pendenza, nell’attesa, così nel silenzio crescono speranza e collera. Se si considerano le cose da questo punto di vista, accrescere l’insopportabile sarebbe dunque un atto rivoluzionario? Oppure una forma di opportunismo?”
Chi è vittima, chi carnefice? Erpenbeck, per fortuna, non ce lo dice.
Ci mostra invece i confini, in continuo spostamento, quelli geografici e politici, ma soprattutto quelli umani, e forse ci invita ad amare anche chi, abbandonando la prudenza e il dogma della conservazione a ogni costo, non sa fare a meno di amare e allo stesso tempo di uccidere l’amore.
Maura Baldini
*In copertina: amarsi a Berlino Est, negli anni Ottanta