23 Giugno 2018

“Per vivere dobbiamo subire lo schianto del caos”: dialogo con Roberto Mercadini, il cabalista dell’aggettivo

Faceva l’informatico, ricordo, ma, ricordo, ha sempre avuto quella faccia da chassidim, da rabbino in estasi, che di notte danza con falangi d’angeli. In effetti. Lui è alto, tonante, simpatico, qualcosa tra Mangiafuoco di Pinocchio, l’Hagrid di Harry Potter e il GGG di Roald Dahl; io, invece, sono altrettanto alto, secco, ho i capelli bianchi, sono così buono da sembrare cattivo, sono come la fiocina affilata da Achab e brandita da Queequeg, tanto la Balena Bianca resta benedetta. Eppure. Dateci una lettera dell’alfabeto ebraico, una lamed qualsiasi, il salvagente di una mem, e io e Roberto Mercadini potremo imbastire giorni di conversazioni bibliche, in bilico sul delirio. Roberto Mercadini – rigorosamente senza frequentarci – lo conosco da una vita. Da quando ha scritto quel libro di versi ipnotici e barbarici, Madrigali per surfisti estatici (era il 2011), e alternava il teatro al lavoro, come altri fanno l’alternanza scuola-lavoro e altri ancora sono tutto casa&chiesa. Lui, presumo, in chiesa non ci entra. Ma s’è inventato “un viaggio nella Bibbia ebraica”, Fuoco nero su fuoco bianco, di ustionante meraviglia. Di spettacoli verbali, Mercadini, l’esempio vivente che quando l’arte chiama e il talento esiste puoi mandare al macero tutto il resto, ne ha inventato tanti, uno dei più belli è dedicato a Moby Dick, la Balena Bianca, poi c’è quello su Mazzini, quello “sull’origine della filosofia”, su Leonardo da Vinci. Uno di questi monologhi – perché Mercadini, in fondo, fa in modo originale, cioè alieno alle mode, una cosa molto antica: il cantastorie – s’intitola Se fossi la tua ombra mi allungherei a mezzogiorno ed è diventato un libro, appena stampato da Rizzoli, Storia perfetta dell’errore, di candida bellezza, dove ci sono, per dire, Michelangelo, l’arte marziale, la Luna, la nascita della vita sulla Terra, il Devoniano, il Cantico dei Cantici, e tanto amore per gli uomini e le parole. Così, vedete, mi lascio ghermire dalla nostalgia, da reietto mi getto nell’entusiasmo, e afferro Mercadini per i suoi capelli da Sansone, risalendoli a contrario, come si fila l’alba fino all’ultimo giorno.

…ma che fai, ora ti dai al romanzo? Perché hai scritto questo libro, dove t’è venuta l’idea, ti è cascata in crapa come la mela di Newton?

Più che altro m’è cascato in crapa un contratto con Rizzoli. Ho cominciato a scrivere un libro che, all’inizio, non doveva essere un romanzo; né nelle mie intenzioni, né in quelle della mia editor (per lo meno non in quelle dichiarate). All’inizio era una raccolta di narrazioni diverse, ma collegate fra di loro: alcune evolutive (ossia che trattassero della comparsa e dell’evoluzione della vita sulla terra), altre bibliche, altre ancora incentrate su un personaggio storico. Ogni volta una analogia legava la narrazione evoutiva a quella biblica, e quella biblica a quella storica. In pratica doveva essere una estensione, un potenziamento del mio monologo intitolato Se fossi la tua ombra, mi allungherei a mezzogiorno. Per me sarebbe bastato quello. Mi sembrava sufficientemente ambizioso e cervellotico. Poi la mia editor mi ha sfidato ad andare oltre: vorresti provare a costruire una cornice che inglobi tutte queste narrazioni? Così non saresti tu, Roberto Mercadini, a raccontare queste storie direttamente al lettore. Ma ci sarebbe un personaggio (da inventare) che racconta ad un altro personaggio (da inventare) per un motivo preciso (da inventare). Ho accettato; un po’ perché tento sempre di essere collaborativo con le persone che mi stanno intorno, un po’ perché mi piace mettermi nei guai. Per diversi mesi sono rimasto bloccato. Era come risolvere un rompicapo. Facevo e scartavo ipotesi. Quale vicenda e quali personaggi possono rendere necessario, realistico, plausibile che un tizio racconti ad un altro tizio storie strane e complesse come quelle che avevo scelto (l’estinzione dei dinosauri, Michelangelo che scolpisce il David, Giona inghiottito dal pesce)? Sono stato più volte sul punto di rinunciare. Ho pensato seriamente di scrivere una lettera a Rizzoli: ‘Scusate, ci rinuncio. Vi restituisco i soldi dell’anticipo. E pago la penale, se c’è una penale da pagare. Addio’. Poi, finalmente, ho trovato il modo di far combaciare tutti i pezzi del puzzle. Erano nati i protagonisti del romanzo e la loro vicenda.

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Roberto Mercadini vi dice, leggete questo! Il suo libro, edito da Rizzoli, si intitola “Storia perfetta dell’errore”

Dedichi il libro a ciechi e analfabeti, che forse sono i lettori veri, oggi. Domanda seria: cosa leggi, tu, ondivago teatrante? Su chi ti sei ‘formato’?

Mah, non so se posso dire di essere formato. Cerco di continuare a imparare, di lenire la mia ignoranza. Vivo provando un senso di colpa inestinguibile: non conoscere tutte le cose che varrebbe la pena conoscere. Cosa leggo? Mi verrebbe da risponderti che non leggo mai niente. Perché non bisogna leggere niente. Mai. Non a caso nel mio romanzo ho inserito un capitolo che si intitola Asino chi legge. Mi spiego meglio, provocazioni a parte. Credo che ci si debba avvicinare ai libri con il desiderio di esserne cambiati, di evolvere, di capire e non con la richiesta di esserne intrattenuti, di ammazzare il tempo. Per cui associo ai libri più il verbo ‘studiare’ che il verbo ‘leggere’. Mi suona sempre un po’ strano quando sento qualcuno dire: ‘Ho finito di leggere X’. Ma in che senso ha finito? Cosa ha finito? Non si dice, per esempio: ‘Ho finito di ascoltare la Quinta di Beethoven’. Si dà per scontato che valga la pena riascoltarla. Per me gli unici libri che valga la pena leggere sono quelli che meritano di essere ri-letti una seconda e una terza volta. In questo senso sento lontana anche l’ossessione moderna per il cosiddetto ‘spoiler’, cioè l’anticipazione che rovinerebbe la visione di un film o la fruizione di un libro. Quel terrore di sapere ‘come va a finire’. Quasi tutto si limitasse a questo; come se parlassimo di barzellette, di indovinelli, di gialli. Per risponderti seriamente: che libri leggo? Leggo soprattutto saggi scientifici e poesia. Cioè libri che prevedono uno studio, una frequentazione a più riprese, una meditazione. Non mi pare che si dica neppure: ‘Ho finito di leggere le Elegie Duinesi’.

…ma… ti piace, t’interessa la narrativa italiana contemporanea? Che scrittori leggi? Cosa ti turba?

Confesso con vergogna che conosco pochissimo dei miei ‘colleghi’ scrittori contemporanei e connazionali. Così come conosco pochissimo dei miei colleghi teatranti. La scusa che, fra spettacoli da portare in scena e cose nuove da scrivere, non ho il tempo di guardarmi attorno e conoscere i miei compagni di viaggio regge fino ad un certo punto. Forse mi piace l’idea di stare facendo un viaggio tutto mio, per vie traverse e diverse; di essermi creato una specie di ‘mondo parallelo’. Questa anomalia è anche la mia fortuna: a teatro vengono a vedermi molte persone che, diversamente, non si sognerebbero di mettere piede in un teatro. È anche per questo, credo, che, almeno in Romagna, riesco ad avere un pubblico così numeroso. Allo stesso modo, fra i miei lettori ci sono molte persone che non leggono libri. Un signore mi ha scritto di recente: ‘Mi è piaciuto molto il tuo libro. L’ultima cosa che avevo letto era un numero del mensile In Moto del 2015’. Mi ha fatto sorridere. Ma mi ha anche fatto capire il privilegio di cui godo.

L’errore, dicono i nipponici, è la via prediletta per fare la cosa giusta. Che idea regge il tuo libro?

Tutto il libro insiste su questa provocazione: ci sono inciampi che ci insegnano a volare, ostacoli che ci aiutano, cadute che ci innalzano, perdite che ci arricchiscono, sciabolate che ci risanano, tempeste che ci tengono a galla, errori che si rivelano una forma più alta di perfezione. Da un lato potrebbe sembrare una prospettiva rassicurante: non tutto il male viene per nuocere. Ma dall’altro è e vuole essere inquietante: significa anche che, perché le cose vadano per il meglio, non devono andare come prevediamo e come speriamo. Significa che dobbiamo subire l’urto dell’imprevisto, lo schianto del caos. Sono convinto che, per diventare davvero ciò che si è, occorre uscire da quelli che riteniamo essere i nostri limiti. Come Abramo che, già anziano, deve abbandonare la propria casa compiere il suo destino, trasformandosi da Abram ad Abraham, da anonimo pastore a gigantesco patriarca di patriarchi.

Ricordo il tuo fenomenale monologo sulla Bibbia. Cosa c’è di bello in quel libro così comicamente violento? 

Domanda impegnativa! La Bibbia è un testo poliedrico, tentacolare, multiforme. La tradizione ebraica invita ad attraversare molteplici livelli di interpretazione; considerando il singolo episodio, la singola frase, la singola parola, persino la singola lettera. Quindi qualsiasi riposta è disperatamente riduttiva e semplicistica. Comunque sia, dovendo prendere in considerazione un aspetto singolo, dico così: la Bibbia è meravigliosamente sconcertante perché Dio fa scelte che sono diametralmente opposte a quelle del buon senso umano. Scegli Abramo e Sarah, quindi una coppia sterile di anziani per fondare un nuovo popolo; sceglie Mosé, che è balbuziente, per fargli da profeta; fa sì che il piccolo Davide sconfigga il gigantesco Golia; potrei andare avanti per ore. C’è una specie di effetto comico, di ironia, che scaturisce da questo: la distanza, la sproporzione fra Dio e l’uomo. Ci sono pagine così provocatorie che, leggendo, non si crede ai propri occhi. Come nel primo libro di Samuele, quando i filistei rubano agli israeliti l’Arca dell’Alleanza. Vengono vessati dalla punizione divina. Molti muoiono, altri soffrono atrocemente di emorroidi. Perché la maledizione cessi, devono restituire l’Arca. Ma, come gesto riparatore, devono anche offrire a Dio – udite, udite! – delle sculture in oro raffiguranti le loro emorroidi. Quando ho letto il passo, non ci potevo credere. E non è che un esempio.

Ma… tu pratichi la cabbala? Sei l’Abulafia dell’aggettivo, evocatore di Golem verbali?

Ma no, io non sono niente. Per carità! Ci sono persone che si dedicano allo studio della Bibbia e della Tradizione tutti i giorni, per tutto il giorno. Io, fossi onesto, dovrei dire che, da giovane ‘ho saputo l’ebraico antico’; lo studiavo e mi ci esercitavo quotidianamente, con una certa costanza. Poi mi sono interessato a molte altre cose, vuoi per interesse personale, vuoi per le commissioni ricevute da artista/artigiano del teatro (mi fregio di lavorare spesso su commissione, come nei tempi antichi). Per cui, quel poco di conoscenza che avevo racimolato si è molto degradata. Eppure la Bibbia e la sua lingua mi hanno scavato dentro. Dopo avere finito il libro, mi è tornato il desiderio di rimettermi a studiare seriamente il Libro.

Nel tuo fare teatro ‘di parola’, o meglio, nel tuo portare la parola a teatro c’entra qualcosa la tua ‘romagnolità’ o i dettagli territoriali li lasciamo ai posteri?

Sono molto legato alla Romagna, come (quasi) tutti i romagnoli. Non conosco un letterato romagnolo che non affianchi alla sua attività letteraria o accademica un interesse di studio per il dialetto, il folklore, la storia locale e via dicendo. Io mi sento tutto intriso di ‘romagnolità’, anche se non saprei indicare da dove questa esattamente traspiri quando sono sul palco (dizione imperfetta a parte). Mettiamola così. Cito questi due elementi. I romagnoli sono stati capaci di fare tantissimo partendo da zero. Pensiamo all’industria del turismo. Per decenni è stata la più florida d’Italia. Eppure la riviera adriatica ha un mare assai meno invitante di quello della Liguria, delle Marche, della Sicilia, della Sardegna ecc. Molti albergatori da noi hanno cominciato a fare gli albergatori senza neanche avere un albergo: tutta la famiglia si trasferiva per qualche mese a dormire in garage e affittava le camere da letto ai turisti. Ecco, io nel mio piccolo, ho cominciato a fare con niente. Ho fatto teatro senza avere una compagnia, senza un agente che mi procurasse le date, senza essere nel circuito ufficiale, senza finanziamenti, senza scenografie, senza costumi, senza cambi luce, senza oggetti di scena, senza un regista che mi guidasse. Insomma, senza niente di niente. Solo il mio corpo e la mia voce. Ho fatto lavorando, più che potevo, meglio che potevo. Fine. In questo mi sento molto romagnolo. Il secondo fatto è legato al Rinascimento. Ezra Pound sosteneva che la Romagna è il luogo dove è nato il Rinascimento, dove è avventa la sua alba, dove ha scaturito il primo, timido, bagliore. Ecco io mi sento un po’ ‘rinascimentale’ perché, come detto, lavoro su commissione, come un artista/artigiano del XV secolo. E perché tento di partire sempre dalla cultura, e di mescolare la cultura scientifica con quella umanistica.

Che libro avresti voluto scrivere? Su che libro vorresti lavorare? Che libro stai scrivendo?

Eh, sono molte le opere che invidio ai loro autori. Per esempio mi sarebbe piaciuto scrivere un bestiario. Uno di quei libri che andavano tanto di moda nel medioevo. E in cui ad ogni animale (reale o fantastico) è associato un significato, una virtù o un vizio umano. Nel mio lavoro uso spesso procedimenti simili. Prendo un personaggio o un episodio e ne faccio un simbolo un’allegoria; serve a rendere una storia singola universale; ed è un procedimento affascinante che trasforma il mondo in un libro sterminato. Quello che è stato fatto con gli animali, si può fare con i vegetali o con i minerali. Per un certo periodo accarezzai l’idea di scrivere un libro dove ci fosse uno scritto per ognuno degli elementi chimici. Ma l’ha già scritto Primo Levi! Si intitola Il sistema periodico. Un altro dei libri che invidio. Se mi è concesso sognare ad occhi aperti, forse un giorno scriverò un romanzo di fantascienza: in una età futura, le ideologie e le religioni sono state tutte abbandonate perché troppo inclini alle diverse interpretazioni, troppo facilmente malleabili (nel cristianesimo ci sta San Francesco, ma anche Torquemada; nel comunismo Gramsci, ma anche Stalin). A tutto questo sono stati sostituiti gli insetti: infatti è oggettivo e inoppugnabile cosa sia un imenottero e quali siano i valori morali e intellettuali da esso simboleggaiti. Così nascono diverse fazioni in lotta fra loro: gli imenotteisti, i lepidotteristi, i ditteristi, gli odonatisti etc. Ma sto delirando. Stando più con i piedi per terra, il prossimo libro probabilmente sarà su Leonardo da Vinci. Su Leonardo sto scrivendo anche un nuovo monologo teatrale, che sarà prodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo. Forse la mia solitudine sta per infrangersi e il mio percorso alternativo è destinato a confluire in una qualche ufficialità. Chissà? Vedremo.

Ultima (va da sé): cosa c’è dopo la morte?

Non ho il dono della fede; quindi, per tagliare corto, ti dovrei dire che per me non c’è assolutamente nulla. Per essere un po’ meno secco, ti do due risposte: una biblica e una ‘platonica’. Quella biblica cita un testo dell’Antico Testamento, il Qohelet, in cui è scritto, come saprai: “I vivi sanno che moriranno. I morti non sanno niente”. La risposta ‘platonica’, se me la consenti, è che ognuno di noi rimarrà per sempre nel luogo metafisico in cui è ora e in cui già stava prima della nascita. La nostra particolare configurazione mentale, la nostra singola, irripetibile struttura sentimentale e di pensiero sono ciò che sono eternamente, come una forma geometrica. Così come la forma di una sfera, con tutte le equazioni matematiche che la descrivono, rimarrà per sempre immutata, anche qualora fossero distrutti tutti gli oggetti di forma sferica del mondo. Allo stesso modo, ‘metafisicamente’, tu, io, chi legge queste righe, tutti noi esseri umani, restiamo ciò che siamo stati in eterno, nello spazio logico, anche dopo essere spariti dalla faccia della terra.

Gruppo MAGOG