Si sono scritte oramai migliaia di pagine, centinaia di libri, su quel che di eterno ci ha lasciato Charles Baudelaire, sulle sue poesie, che son state il crocevia della lirica moderna, poesie ancor oggi oltre e fuori dal tempo, sul suo essere modello insuperabile anche in prosa. Si sono scritte migliaia di pagine, centinaia di libri (anche) sull’interrogarsi su quali inferi abbiano dato vita a tale e spaventosa bellezza.
Eppure, se non la spiegazione, forse impossibile da dare, almeno l’eco di un diapason la si può trovare nella tenerezza e nel furore delle lettere, quelle che Charles scriveva alla madre. Lettere nelle quali il poeta si mostra nudo, nudo nell’umiliarsi, nel mendicare attenzioni, amore e denaro.
Già, denaro. Incapace di gestirlo, capace di sperperare tutto e di indebitarsi con chiunque, spesso ridotto a non aver gli spicci non solo per cibarsi ma nemmeno per potersi permettere un francobollo. E a chi chiedere aiuto? Se non all’unica persona che il poeta abbia davvero amato?
“Fammi il piacere, ti supplico, di grazia, mandami un po’ di soldi, 30 se puoi, meno se vuoi, o ancora meno. Sono in una tale affaccendamento di correzioni, di annunci e di pozze, che non mi è possibile muovermi e uscire in cerca di denaro. Se avessi potuto, infatti, sarei venuto immediatamente da te”.
Le richieste son insistenti, disperate, reiterate. Baudelaire non ha vergogna di palesare l’umiliazione, la sua umiliazione. Non abbiamo, maledetta sfortuna, le lettere di mamma Caroline, ma si immagina siano intrise sì di amore, sì anche di preoccupazioni e risentimento. E Charles accusa i rimproveri e si difende, ergendosi a vittima e chiedendo di non esserlo, vittima, almeno al suo cospetto:
“Mia cara madre, vi prego di non rispondermi con una lettera come quella che mi avete scritto ultimamente. In questi tempi troppo dolori ho sopportato, troppe umiliazioni, ed anche dispiaceri, perché veniate ad aggiungervi la vostra parte. Alcuni giorni fa ho avuto voglia di scrivervi per pregarvi di mandarmi un po’ di denaro, non importa quanto, che mi permettesse di lasciare Parigi, di divertirmi, di ammazzare il tempo, ma sarebbe stato necessario darvi una spiegazione”.
Baudelaire, oramai uomo, quando verga ogni singola sillaba da indirizzare al rifugio materno, si riduce a infante, i suoi pianti son infantili, sofferti e sofferenti:
“Non inviarmi uno di quei torrenti di rimproveri che mi fanno male, a me che tu credi insensibile, e poi non voglio che tu soffra di mal di stomaco o insonnia. (…) Mi metto a tremare a volte per il timore dei tuoi rimproveri, a volte per paura di apprendere tristi notizie sulla tua salute, non oso aprire le tue lettere. Davanti ad una lettera io non sono coraggioso”.
Ma non c’è solo il vil denaro di cui Charles abbisogna. È un uomo, un figlio, un bambino che ha bisogno di amore. Che vive nei ricordi di quell’amore:
“Ti rivedo nella tua camera o in salotto mentre lavori, attiva, in movimento e brontoli, rimproverandomi da lontano. E poi rivedo tutta la mia infanzia trascorsa accanto a te. Ricordo le lunghe passeggiate e le perenni tenerezze materne. Forse quel tempo – bello per me – fu brutto per te. Te ne chiedo scusa. Ma io vivevo in te, tu appartenevi soltanto a me. Ti stupirai che ricordi un tempo così remoto ma come sai, all’approssimarsi della morte, i fatti antichi si dipingono più vividi nell’anima”.
Il ricordo di un porto sicuro, di calore che lo difenda dal freddo, di calore che non lo lasci poi al gelo:
“Mia cara madre, se possiedi veramente il genio materno e non sei ancora stanca, vieni a Parigi, vieni a vedermi, ed anche a cercarmi. Darei non so cosa per passare qualche giorno accanto a te, tu, l’unico essere a cui la mia vita è sospesa, otto giorni, tre giorni, qualche ora”.
Charles sentiva la morte vicina, forse sempre sua compagna. L’ultima lettera a sua madre a noi pervenuta è del 30 marzo del 1866, la notte successiva Baudelaire viene colto da ictus. Resterà segnato, nel fisico oltre che nell’animo. Morirà un anno e qualche mese dopo, il 31 agosto del 1867, a soli 46 anni.
L’opera di un poeta non risiede solo nelle sue opere, l’opera di un poeta si ritrova anche nelle sue viscere, nei suoi segreti. La fortuna di possedere questo carteggio ci regala uno squarcio proprio di quelle viscere, proprio nei suoi segreti. Le sue lettere non toccheranno mai le cime tempestose dei suoi versi, ma toccano, toccano nel profondo e ce lo fanno amare forse di più ancora.