31 Maggio 2018

“Odio gli addii, come il giovane Holden”: Matteo Fais dialoga con Lorenzo Lombardi, leader dei Kaufman, il gruppo che ha rilanciato il postmoderno nella musica italiana

Ci sono band che non scrivono canzoni, ma incantesimi che stregano. Assorbono la nostra attenzione con la stessa intrigante pervasività di un’ossessione, contro cui la razionalità non può niente. Come il singolo Macchine Volanti, tratto da Belmondo, l’ultimo album dei Kaufman. Questo perfetto esempio di indie pop all’italiana vi prenderà alla stregua di una droga che provoca immediata dipendenza. Ma, anche dopo che l’avrete ascoltata a ripetizione in una sorta di stato di sospensione, non potrete evitare di notare che non sopraggiunge alcun tipo di assuefazione. Con ciò che è bello è sempre così: non ci si accontenta mai. Eppure è una ballata dolorosa, che a tratti lascia trasparire una straziata e commovente sensibilità. Ma, del resto, proprio come sosteneva Leopardi, le opere di genio, anche quando rappresentano l’annichilimento e la fine di tutte le illusioni, risultano sempre di consolazione.

E non è solo per il racconto dei travagli e del dolore di questo nostro tempo liquido che spicca il talento compositivo di Lorenzo Lombardi, leader di questa interessantissima band. Questo giovane autore, dalle varie e profonde letture, ha rilanciato nella scrittura cantautorale la grande lezione della letteratura postmoderna.

Certi del fatto che il quartetto bresciano lascerà un segno nella storia della canzone italiana, abbiamo voluto cogliere al volo l’occasione per discutere con il loro cantante riservandogli un trattamento degno di un vero poeta.

KaufmanLorenzo Lombardi, i tuoi testi hanno una cifra peculiare per cui risultano immediatamente identificabili: il legame con la cultura postmoderna. Parlo, per intenderci, del citazionismo, che a suo tempo fu trasposto dalla letteratura in ambito musicale da Franco Battiato. Basti ricordare la famosissima canzone Cucurrucucú, in cui il cantautore siciliano assembla ex novo un brano partendo da singoli versi di altri pezzi famosi estrapolati dal loro contesto originario. Certo voi non siete così estremi, ma seminate comunque diversi riferimenti. Tanto per citarne alcuni in ordine sparso: “Le mie labbra continua a spedirle a questo indirizzo, se ti va” in cui è chiaro il rimando a Rimmel di De Gregori con “Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo”; la canzone intitolata Ragazzi di vita che richiama il titolo del famoso romanzo di Pasolini; per non parlare di “È venerdì/ Mi sono innamorato come Robert Smith” che ci riporta subito alla più conosciuta delle canzoni dei The Cure, Friday, I’m in love. Potrei continuare, ma ti risparmio l’analisi del testo stile manuale del liceo. Volevo sapere se questo approccio alla composizione sia stato determinato da una qualche influenza che il postmodernismo letterario ha avuto su di te, oppure se si tratta di una soluzione stilistica a cui sei giunto in piena autonomia?

Credo che si possa parlare di una compresenza di entrambe le istanze da te prospettate. Sono un lettore accanito e, in particolare, adoro il postmodernismo, soprattutto americano: Thomas Pynchon, David Foster Wallace, Dave Eggers (probabilmente il mio preferito); ma anche quello italiano, Calvino e Giorgio Manganelli su tutti. Nello stesso tempo, tuttavia, questo modo di usare le citazioni, visto all’interno del contesto della canzone pop, nasce da un processo personale e da un motivo molto pratico: definire un linguaggio comune tra ascoltatore e autore. Mi spiego meglio. Il pop attraversa più generazioni e più mondi, spesso molto diversi. La citazione costruisce un’immagine, uno sfondo, una sorta di alfabeto base che è comprensibile a tutti. Su questo poi si va ad aggiungere una storia personale. Ad esempio, nella canzone Senza fiato richiamo ripetutamente e univocamente la Nouvelle Vague, in particolare Fino all’ultimo respiro: “la maglietta a righe”, “il segno sulle labbra”, eccetera. Partendo da qui racconto la mia storia ma, in questo modo, ho l’impressione che l’ascoltatore la veda in bianco e nero, con le facce di Belmondo e della Seberg. La citazione va a costituire, insomma, il background da cui prendere le mosse per narrare il resto.

Un’altra delle caratteristiche salienti dei tuoi testi, che sempre ci riporta alla cultura postmoderna, è la compresenza nei versi di vertici di lirismo che vanno a mescolarsi a riferimenti espliciti a vari oggetti e situazioni della quotidianità. Per esempio in Macchine Volanti, l’io narrante, moralmente prostrato dalla fine di un amore, si risolve a cercare consolazione in un porno e a tentare di lenire il dolore guardando in successione gli episodi della serie televisiva di Breaking Bad. Uno dei problemi della poesia italiana attuale, a mio avviso, sta proprio nel non riuscire a raccontare la convivenza di prosastico e spirituale nel nostro tempo. Dal tuo punto di vista, questa incapacità riguarda anche il cantautorato?

Non saprei analizzare questo aspetto per quel che concerne la scena nazionale dei cantautori. Posso solo dire che, certamente, nella canzone italiana tradizionale è assente del tutto l’elemento prosastico. Nell’indie contemporaneo, questo si mostra con maggiore frequenza. Io, personalmente, adoro la tendenza ad associare immagini spirituali a scene di estrema concretezza quotidiana. Del resto, un’altra delle mie letture ossessive in passato è stata quella di Bukowski che in questo era un autentico maestro. Vuoi mettere la potenza che ha parlare di un amore eterno, se lo fai dal bagno?

Lorenzo, quali sono i riferimenti letterari che hanno segnato la tua esistenza e influenzato il tuo modo di scrivere? Mi piacerebbe che ce ne parlassi e ci spiegassi anche, nel particolare, quali aspetti di questi autori sono stati maggiormente significativi per te.

Farei molta fatica a sintetizzare tutto in pochi nomi. Sono sempre stato un lettore onnivoro e assiduo. Ho una cultura classica. Mia madre era professoressa di Italiano e Latino, quindi ho letto fin da giovanissimo. Per intenderci, a quindici anni, sotto l’ombrellone, a Riccione, divoravo i testi dei naturalisti francesi. Che poi, in adolescenza, su una spiaggia, se ci pensi, quella può essere l’esperienza erotica per eccellenza.

Tu suoni, canti e scrivi per esprimere la tua gioia nello stare al mondo, oppure perché la vita non ti basta e il fare arte è l’unica possibilità per darle un senso?

Propenderei per la seconda ipotesi, ma penso valga per qualsiasi artista. La vita non basta mai. Scriverla, raccontarla, deformarla, mescolandola all’arte e al pensiero di chi è venuto prima di noi – salire sulle spalle dei giganti, no? –, trasfigurarla insomma, la rende molto ma molto più interessante.

Come componi una canzone? Scrivi prima la musica, le parole, oppure ti vengono in simultanea?

Non ho una regola fissa. Cerco un “gancio”, che può trovarsi in una frase, oppure in una cellula melodica. Da lì, poi, costruisco la canzone muovendomi contemporaneamente tra melodia e testo. Quando uno prevale sull’altro, lavoro di lima e correggo. Se invece tutto fila liscio da subito, forse siamo al cospetto di una canzone con la C maiuscola.

Dei tuoi colleghi italiani, quali sono quelli che apprezzi maggiormente e per quale motivo?

La scena italiana cantautorale, oggi, è molto ricca. Stiamo vivendo una piccola età dell’oro. Pensa a Calcutta, Motta, i Thegiornalisti, gli Ex-otago, Galeffi, Carl Brave. Si fatica a farseli venire tutti in mente da quanti sono. E poi ci sono i mostri del passato che continuano ancora oggi a sfornare dischi. Uno su tutti, Luca Carboni. Ecco un autore che scrive, come dicevamo prima, mescolando grandi sentimenti a situazioni di quotidianità spiccia.

La mia impressione è che, quando scrivi i tuoi testi, non ti voglia limitare a esprimere te stesso, ma stia in fondo parlando di un qualcosa che travalica l’idiosincrasia del tuo sentire. Insomma, che stia cercando anche di raccontare il nostro tempo. A tal proposito direi che il tema dell’amore, a cui dedichi ampio spazio nell’album Belmondo, viene inteso come estremamente problematico da vivere oggigiorno, financo quando felice. Per dirla con alcuni tuoi versi: “Ho capito che la vita sociale che ci siamo creati/ Non è perché siamo inadeguati/ E non uscire di casa/ A volte è solo una scusa/ Perché la nostra favola non diventi banale/ Sporcandosi col mondo reale”. Mi sto forse sbagliando nella mia interpretazione?

Hai assolutamente ragione, l’interpretazione è corretta. Si torna a quanto dicevo prima. Attraverso le citazioni si trova un linguaggio comune, tra autore e ascoltatore, un ponte. Poi, percorrendo quel ponte, si manifesta l’urgenza di raccontare il nostro tempo partendo da noi stessi. La bellezza di un brano è questa ed è potentissima. Per mezzo della melodia, che si insinua dentro l’ascoltatore, ciascuno fa sue le parole e le sensazioni, e la canzone diviene uno sfogo collettivo. Te lo confesso, la cosa più bella di questa esperienza è quando, a un concerto, vedi le prime file che cantano. O quando qualcuno scrive le frasi di un tuo testo nei suoi post su Facebook. Quando capisci, insomma, che la canzone non è più tua, come un figlio che va via di casa. Allora non so se è l’emozione, o l’addio, ma mi commuovo sempre un po’. O forse perché, come Holden Caulfield, semplicemente odio gli addii.

Matteo Fais

*Per vedere il video di “Macchine volanti” cliccate qui

 

 

Gruppo MAGOG