29 Febbraio 2020

“Piango perché non fa notizia l’effimero…”. In ricordo di Kikí Dimulà, “piccola oscillante ombra”, grande poetessa greca

Lo scorso 22 febbraio si è spenta ad Atene una delle più grandi poetesse greche: Kikí Dimulà. Esponente di quella “generazione perduta” di poeti del dopoguerra che appuntarono come fiore all’occhiello della propria produzione una sorta di minimalismo cosiddetto “antieroico”, apparentemente disimpegnato, proiettato nella cosalità quotidiana del sentire e dell’esperire, Dimulà spicca con la sua parola estiva, colpo d’ombra sulla luce meridiana.

Al di là di ogni interpretazione critica, lontana dal traghettarmi verso i confini di ciò che altri hanno detto di lei, rileggo Dimulà nel solco di quelle suggestioni che solo i poeti greci riescono a costruire, con la caparbietà di un sonoro sentire che non cessa di emettere i suoi significati, a distanza di tempo, come se un ventaglio di sistemi simbolici li aprisse a una lettura perpetua.

*

Kikí Dimulà, la poetessa dei fotogrammi, delle cose immobili che si arrestano nella dolcezza di un fondo corroso dalla lentezza. La poetessa del passato che rinasce nel modello di un archeologico mito, altisonante nel cuore penetrato dalla spina della nostalgia. Nella sua poesia femminile e maschile, nel dominio netto della sua parola che raccoglie in sé tutti i generi delle cose e il neutro dello stato della felicità assoluta, vibra il giorno ascendente della memoria, alla vetta della lacrima. Perché Dimulà è poetessa della lacrima che, sul punto di cadere, si arresta e cristallizza nella grandezza di ogni invocazione. Da La “o” disgiuntiva:

Rimango asciutta tra
due possibilità: pioggia o lacrime,
e tra tante ambigue realtà:
pioggia o lacrime,
amore o modo di crescere,
tu o piccola oscillante ombra
dell’ultima foglia che saluta.
Ogni ultima cosa,
la chiamo ultima senza riserve… 

*

Cosa ha senso nella poesia di Dimulà (perlomeno in quella rintracciabile in Italia nella magnifica veste de L’adolescenza dell’oblio edita da Crocetti)? L’essere passati. Un infinito della anteriorità in cui ciò che si innalza è la perpetua estasi del ricordo, assurto a forma, confine, egida dell’esistenza. La vita stessa diventa archetipo di un divenire a ritroso, dove le candele spente del già vissuto delimitano su una soglia lo smarrimento per l’assenza e il dramma della caducità. A dialogare con la poetessa sono pure le sagome quotidiane di una realtà minuscola, che passa per le vie ordinarie del domestico, una miniatura di sguardo sull’assetto immobile di una estetica familiare.

*

Da Cravatta nera:

Scrivi che piango per uno specchio.
Un tempo oggetto ornamentale,
oggi oracolo.
Per la brusca buonanotte
che danno le poche possibilità
e si dileguano.
Scrivi che piango per la tua finestra,
chiusa e senza saluti,
melanconica per nascita.
Per gli uccelli dell’ultimo decennio.
Il loro terrore delle antenne televisive…

E ancora:

Piango perché va sprecata
la notizia che mi hai dato
della prima farfalla vista ieri.
Piango perché non fa notizia l’effimero…

*

Oppure, da Polvere:

Mi fanno pena le massaie
la loro sterile fatica.
Non se ne va la polvere, non si inaridisce.
Ogni volta che il tempo incontra il tempo
nasce un nuovo accordo sulla polvere.

*

E poi l’estate. La stagione dei poeti greci e del mediterraneo. Personificazione di donna che raccoglie i semi del sole nero dei pomeriggi controversi alla controra. In Dimulà è quasi un’ospite, che nessuno attendeva più e che turba, rimesta la realtà. Da Estate:

Quest’estate
non l’aspettava nessuno;
è venuta come qualcuno dato per morto.
E ha portato di nuovo imbarazzo,
una tensione dimenticata
e un’insonnia
per cose date anch’esse
per morte…

*

Dimulà è la poetessa dei fotogrammi. La poetessa che scandaglia a fondo le particolari effrazioni di una foto, su cui, a stare attenti, evade sempre un non so cosa di insoluto.

Se il tempo macina le passioni, le enumera nel calcolo passivo di un decalogo dei ricordi, è pur vero che qualcosa sfugge all’elegiaco dolore e può trasformarsi in certezza o perlomeno ipotesi di verità. Da Fotografia 1948:

Tu non appari.
Ma se c’è una forra nel paesaggio
se mi sono fermata sul suo bordo
tenendo un fiore in mano
e sorridendo,
significa che fra un po’ verrai.
Sembra che nella mia vita
sia passata la vita, una volta.

*

Poesie spesso autobiografiche, eppure non rivolte soltanto a se stessa. Un autobiografismo invece generoso, che taglia in due lo spazio aperto della sfiducia e chiede che l’altro avanzi, si incammini, condivida con l’autrice ogni pianto, ogni sorriso. Un io ossessionato dall’idea della perdita, eppure profondamente devoto ad essa.

Ciò che perdiamo nella vita è affermazione di esistenza. Ciò per cui sorridiamo è accentuazione di vita. Il pianto che versiamo è conferma all’avere tentato, l’esserci stati, l’avere amato.

Lo sfondo è sempre lei: Atene. Città, paese, vita?

Salii sul primo camion pianto
che passava e nacqui: ad Atene.

Da Inserto biografico.

Carla Saracino

Gruppo MAGOG