03 Luglio 2018

“Il potere pubblico è involgarito e supponente. Io scrivo per salvare le cose in via di estinzione”: dialogo con Alessandro Moscè

L’epigrafe sul sito personale di Alessandro Moscè detta: “La letteratura o è amore e combattimento o non è niente”. La letteratura, chissà, è quella lotta che si compie perché ancora sia possibile amare. E perdersi nell’amore. Storico della letteratura (ricordo Luoghi del Novecento, Marsilio, 2005), critico della letteratura presente (Lirici e visionari è una scansione dei “poeti italiani contemporanei”), romanziere (che bello Il talento della malattia, Avagliano, 2012), per lo più poeta, Moscè è uno scrittore totale, dalla bibliografia importante, senza sottrazioni (lo dimostra, per altro, il ciclo di puntate che su ‘Pangea’ ha dedicato al ‘caso Moro’). Il libro lirico miliare, ad oggi, è Hotel della notte, edito da Aragno nel 2013: “La vera cifra di questa poesia è, più che il tragico, la melanconia, una tonalità come di blues che può persino darsi nell’illusione della felicità. A questo richiamo dello smarrimento si oppongono, però, alcune forze cruciali: la grazia fragile e immensa delle donne; il sentimento creaturale, la pietà per i perdenti e gli inermi; la memoria, che sa custodire ‘i nomi e i muri’ del passato ritardando ‘il grande congedo’”, ha scritto Paolo Lagazzi, critico di disciplinata attenzione. Che tra le faglie liriche, mette in evidenza il valore ‘etico’ della poesia di Moscè, poesia che “non cerca risposte semplici, ma, mentre allude alle polveri sottili che rischiano di soffocare il nostro respiro, ci ricorda il valore della gentilezza, della leggerezza, della gratuità”. Ora Hotel della Notte, nella traduzione di Antonio Nazzaro, audace ‘operatore poetico’ in Latinoamerica, sbarca in Argentina, per le edizioni di Buenos Aires Poetry. Da qui, lo spunto per una chiacchierata con Moscè. Che non lesina critiche all’esibizionismo autoreferenziale di troppi poeti, oggi, alla cagnara dei social e alla patente idiozia della nostra classe politica.

HOTEL 1Hotel della notte: come nasce, da quali ispirazioni? E poi, in assoluto, la poesia in te è ispirazione, riflessione, rivelazione, cosa?

La raccolta poetica è stata pubblicata nel 2013 da Aragno. Nasce da una duplice visione del mondo, che è l’“ossessione felice” dalla quale scaturisce gran parte della mia scrittura. Il sentimento del luogo e di chi lo ha abitato nel passato, in un immaginifico dialogo tra i vivi e i morti, che finiscono addirittura per confondersi, e la verticalità della percezione umana in chiave esistenziale, sono i fils rouges. Finora non è stata elaborata un’attenta analisi della mia poetica: è ben evidente come non sia né contemplativo, né naturalistico, pur rimanendo un poeta di luoghi. Ma i miei luoghi sono urbani: vicoli, piazze, periferie, giardini, stanze domestiche. Alberto Bevilacqua, in un settimanale di grande tiratura, mi definì un poeta di affetti familiari. È vero, perché il luogo abitato è quello ricostruito dalla memoria, dalla presenza, ancora energica, della figura dei nonni, ai quali sono dedicati molti versi. La mia rivelazione, se così vogliamo definirla, è di un’infanzia infinita, di uno stupore che non ho mai abbandonato e con il quale guardo anche i personaggi emarginati, i folli, i malati della casa di riposo come Pierino, che è spesso diventato oggetto della mia scrittura sia poetica che narrativa. Il mattocchio ha caratterizzato la letteratura romagnola ed emiliana del Novecento e non quella della mia terra, le Marche. Penso a Fellini, Bevilacqua, Guerra, Baldini, Celati, Cornia. In un simbolico hotel incontro donne, fantasmi e perfino Dio. La notte è evocativa: un arco di tempo magico e limitato in cui la dotazione di mistero si àncora al passato e rianima le persone che non ci sono più. Il tempo viene così annullato e si instaura idealmente un ponte tra l’adesso e il contenitore inesausto della memoria: il presente fuggevole diventa assoluto. Pierino parlava con la madre pensando che la sua voce potesse attraversare le pareti della casa di riposo. In un pozzo al centro del chiostro, si convinceva che la Madonna salisse e la sua aurea magica lo proteggesse dai pericoli, dal male. Era un omino con un berretto di tela in testa, per tutte le stagioni, che definisco fellinesque, dotato di quel realismo magico che lo rendeva perfino epico. In Hotel della notte cerco di salvare, nella finzione, le cose in via d’estinzione: la scuola delle elementari, l’ultima cabina telefonica della città, un vecchio tavolo di formica su cui nonno Ernesto compilava i cruciverba e fumava le sue Muratti negli anni Settanta. Oggetti che conservano, malinconicamente, un’anima in sussulto.

Sei tradotto in spagnolo, all’altro capo del mondo, in Argentina. Come è nata questa traduzione, attraverso quali relazioni, perché?, ti emoziona?

Le relazioni interpersonali nascono spesso casualmente. Antonio Nazzaro, il mio traduttore, era rimasto favorevolmente colpito da alcuni testi che gli avevo inviato. Ero già stato tradotto in Spagna da Emilio Coco, ora in Argentina e in Messico, nel continente ispanoamericano. Da cosa nasce l’interesse dell’Argentina per la mia poesia, mi sono chiesto? Credo che l’elemento conflittuale con l’esistenza sia tipico di questa letteratura, che si riscontra anche nei miei testi. Una sorta di lotta con il destino, indipendentemente dai momenti storici. Difatti la mia poesia non è affatto di impronta civile, ma vive in una comunità reale e al tempo stesso immaginaria. In questo senso l’importanza dei morti dà alla costellazione poetica una formula magica che è peculiare proprio dei sudamericani, sospesi in una dimora che ha una collocazione geografica, ma che è attraversata specie dal sogno senza confini. La comparazione tra paesi manca quasi del tutto nello studio della poesia, che è innervata da conciliazioni e difformità sorprendenti. La nostra poesia ha meno affinità con quella dell’Europa occidentale e orientale. È proprio lo stile del metaracconto la norma consolidata, la cifra più somigliante dell’Italia con l’America del Sud. Mi emoziona l’idea che i confini possano essere spesso abbattuti attraverso il dono della parola scritta e che leggendo i versi si possa capire la gente di una nazione più che attraverso un trattato sociologico o un romanzo.

Atavica questione: come si concilia il dire del critico letterario con la qualità del poetare?

La poesia è un gesto primitivo, la critica letteraria si scrive in una condizione razionale, pianificata. Credo che nel 2018 sia profondamente sbagliato connaturare la poesia ad una visione ideologica della realtà. Sono per una riconnessione dinamica dell’esperienza: poesia, narrativa, scrittura saggistico-letteraria adunate ad un assetto. Un racconto sul racconto, insomma. Un buon poeta deve essere un lettore onnivoro. Non reputo che ci sia inconciliabilità tra scrittura creativa e “scrittura in seconda”, per così dire, di tipo critico, contenuta nelle stesse recensioni e non solo nei libri, che comprende il taglio breve e il taglio lungo. Il poeta sceglie ciò che gli piace e che sente profondamente suo. Vengo da una scuola melodica, lirica, lungo l’asse novecentesco che inizia con Saba e Montale e finisce con Scataglini, passando per Sereni, Gatto, Caproni e Raboni. Capire la poesia aiuta anche a scriverla, a sondare e a capire meglio il proprio sentire. La qualità del poeta la si avverte al primo tatto, diceva Caproni, come fosse una stoffa. Ma anche un critico ha i suoi limiti. Non saprei scrivere nulla sulla poesia sperimentale, avanguardista. Mi sembra un circuito gergale che non ha nulla di artistico, ma sprofonda in una suggestione che si spegne sul nascere. In Italia c’è una riscoperta del neo-lirismo tradizionale, ma mancano i critici che facciano un’opera di cernita storico-geografica. Carlo Dionisotti sembra dimenticato, ma è proprio nella dimensione spaziale che la poesia può trovare ancora una collocazione sistematica.

In che stato è, oggi, la poesia e la letteratura in genere in Italia? Che valore ha, ancora, fare poesia? E in quali spazi si trova vera poesia nel tempo sovrappopolato da poeti presunti?

Faccio una premessa: purtroppo oggi si è dentro un sistema che da gabbia si è rivestito da canile. Lo chiamano punching ball: qualcuno o qualcosa preso a pretesto per scatenare il conflitto. Il comportamento stereotipato della televisione degli anni Novanta si è trasferito su Facebook, Messanger, Instagram, Twitter. Chi più urla più pretende la ragione, a costo di mistificare la realtà. I talk show che finivano con un accavallamento di voci contrastanti, domina sul web. Le verità sono tutte singole e si possono alterare senza un nucleo antisofisticazioni che intervenga. Frustrati, prepotenti, volgari, depressi, egoisti colpiscono duro per un tornaconto: la visibilità personale. Il punching ball è la trasmissione del disagio e dello smarrimento. È ferocia sfuggente, flebile: la guerra per primeggiare, per un fasullo principio di supremazia nel dire prima di altri in un contesto confuso e pressappochista. Non c’è uno spazio canonico per la letteratura, ma nel tempo sovraffollato di pseudo poeti, la cernita va fatta attraverso letture continue di riviste di qualità (“Poesia”, “Nuovi Argomenti”, “Atelier”, “Semicerchio”, “Anterem”), non trascurando, ovviamente, le uscite degli editori più seri: Mondadori, Einaudi, Garzanti, Aragno, Donzelli, Marcos y Marcos, Sossella, Manni, Moretti&Vitali, Passigli, Effigie, Italic ecc. La poesia ha un valore, nella dissipazione culturale di oggi, come contro linguaggio anacronistico.

Che peso ha la parola poetica nella “politica”? Cioè: che rapporto c’è, nel tuo dire, tra arte e atto, tra estetica e politica?

Nessuna valenza, direi. I politici non sanno nulla di letteratura, tanto meno di poesia. Mario Luzi è un perfetto sconosciuto e Paolo Volponi è stato solo un senatore del Pci, per quei pochissimi che lo hanno sentito almeno nominare, ma non l’hanno letto. L’Aie, l’Associazione italiana editori, riferiva tempo fa che il 58,8% della popolazione nazionale, durante l’anno, non apre nemmeno un libro contro il 37,8% della Spagna e il 30% della Francia. E tra i laureati, il 25% dei neodottori italiani, ricevuta la pergamena, abbandona completamente la lettura per svago o nel tempo libero. Tuttavia, rispetto alla media, i peggiori sono gli eletti dai cittadini. Il 39,1% dei politici, infatti, non legge nemmeno un volume ogni dodici mesi. Il potere pubblico non ha cultura, è involgarito, supponente. Se la letteratura italiana sopravvive ancora è per l’impegno di chi contribuisce a farla respirare dotandosi di capacità organizzativa. È bene raggiungere un’utenza. Nascessero tanti festival come quello di Mantova, o iniziative emulative di ciò che viene realizzato a Pordenone, la poesia si salverebbe per sempre. I poeti, però, hanno un difetto costituzionale, l’autoreferenzialità. Se incominciassero a pensare al bene comune, al movimento di un pubblico come strumento cognitivo oltre l’attività della propria scrittura, le cose cambierebbero. È dai luoghi che bisognerebbe prendere il via per fare cultura, per il bisogno di scoprire un universo sepolto da Dante a Petrarca, da Tasso a Leopardi, a Montale, fino ai poeti del terzo millennio. Se così fosse, la politica potrebbe riscoprire il significato dell’estetica. Tornando a ciò che mi chiedevi, nella comunità non vedo un nesso tra arte e atto e tra estetica e politica. Oggi lo short message, il linguaggio ridotto in pillole ed estrapolato dal web, dall’Ipod e dal cellulare ha impoverito la forza dell’espressione testuale. È questo il male inguaribile di una civiltà sempre più tecnocratica. Tanto è vero che la comunicazione ha soppiantato la conoscenza. Il sapere è stato scavalcato da un asettico informare, da ciò che ha portato il Premio Nobel Mario Vargas Llosa a decretare provocatoriamente che la cultura è una tendenza pop. Lo scrittore ne è la prima vittima, visto che nell’ultimo decennio il calo dei lettori di libri è stato drastico. Il poeta è un reduce, di fronte all’avvento prima delle arti audio-visive e poi di Internet, questo enorme contenitore dove tutte le spezie hanno lo stesso sapore. Eppure se fosse utilizzato bene potrebbe offrire nuove opportunità. Alcune riviste passate dal cartaceo all’online sono fortunatamente sopravvissute.

*

Non ha mai avuto una donna
Pierino,
ma un’anima d’incenso
nei vicoli di Fabriano,
nei tramonti rosati a primavera,
fischiettati al nulla.
Non ha mai avuto un lavoro,
ma una grazia che scrutava,
e lo sapeva che un’altra vita
ripaga più di un adesso da signori,
più di una morte frettolosa.
È ancora davanti alla crudeltà
dei battiti che hanno smesso
di assisterlo
e di tradire il segreto
del suo rosario verde

*

Lieto e ignoto,
come l’uomo di Umberto Saba,
lungo fessure che si aprono
con le dita.
Risolvere il mondo
per sapere che uno spaesamento
è come un conversare,
anche da troppe distanze.
Tu hai scagionato la vita, la morte…

Alessandro Moscè

 

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