Agnus Dei. Un racconto per Pier Paolo Pasolini
Letterature
Le ossessioni e gli spettri della mente: Poe nostro contemporaneo
Filosofia
Massimo Triolo
Leggere Ieri di Agota Kristof (pubblica Einaudi, traduce Marco Lodoli) è come attendere una tempesta estiva, crediamo che al sicuro nelle nostre case la furia del cielo non ci riguardi, ma la grandine spacca i vetri. Ieri è una pioggia di sassi. Un uomo racconta che il vento suona, che la musica nasce nel bosco, una tigre sta seduta in mezzo alla stanza e gli parla. Crediamo che tutto questo non ci riguardi, noi “sani” non vediamo nessuna tigre in mezzo alla sala che ci parla, per noi il vento non suona, ci infastidisce al massimo. Quando si inizia a leggere un testo di Agota Kristof entriamo necessariamente sulla difensiva, ciò che scrive non può riguardarci, noi siamo al sicuro fuori dalla pagina. Ma è davvero così?
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Se volete leggere Ieri di Agota Kristof dovete sapere che le parole sono spellate, restano come ossa confuse con la terra, sono da prendere e pulire, interpretarne i segni. “In genere mi accontento di scrivere nella testa. È più facile. Nella testa tutto si srotola senza difficoltà. Ma, una volta scritti, i pensieri si trasformano, si deformano, e tutto diventa falso. A causa delle parole”. La Kristof si può permettere di invertire le parole, di stravolgere l’ordine, è una donna che affonda talmente tanto dentro ogni singola parola, dentro ogni suono, che può concedersi di sceglierne poche, ripulirle da tutti i significati secondari. I libri della Kristof sono una pioggia di sassi, parole dure e precise come sfere di ghiaccio.
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Quest’uomo che sente la musica del vento e lavora tutti i giorni in fabbrica decide durante il turno di uscire dalla porta, farsi un giro e andare nel bosco. Lì non si sente bene e cade: “Presto il mio corpo s’è confuso con la terra”. Si risveglia in un ospedale psichiatrico. L’evasione dalle regole si paga a caro prezzo. Scopriamo in questo modo che lui attende una donna di nome Line, è sicuro che questa donna che non conosce è venuta al mondo solo per amarlo, solo per farsi amare da lui. La Kristof ci sbatte in faccia l’illusa speranza da favola che per tutti noi esista una Line, nata per amarci, da qualche parte nel mondo. L’attesa vale più del tentativo di amare qualcuno nella realtà. E infatti quest’uomo ha però Yolande, non osa chiamarla fidanzata – per carità, una donna reale che gli vuole bene, con cui passa del tempo. Perché di questo si tratta: sopravvivere a sé stessi facendo passare il tempo in compagnia, spingere gli anni nella ruota della routine, conservare la tigre mummificata nello sgabuzzino delle scope.
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“Sono nato in un villaggio senza nome, in una nazione senza importanza. (…) Posso persino dire d’aver avuto un’infanzia felice perché non sapevo esistessero altre infanzie”. Siamo noi l’uomo con la tigre nel soggiorno, siamo noi nati in un villaggio senza nome, possiamo togliere il nome della nostra città, siamo anonimi e non siamo indispensabili a nessuno. Ma soprattutto la felicità è un concetto spietato: “Vai in città. Là c’è ancora un po’ di luce. Una luce che renderà pallido il tuo viso, una luce che somiglia alla morte. Vai là dove le persone sono felici perché non conoscono l’amore. Sono così soddisfatte che non hanno più bisogno l’una dell’altra, né di Dio. La sera, chiudono le loro porte a doppia mandata e attendono pazientemente che la vita passi”. E spietata è la Kristof, con le parole non risparmia niente e nessuno. Ci inchioda al gelo di questa frase. Leggevo questa frase a una persona, mi ha detto che era un ossimoro. Ho risposto che per me non era così, che questa frase è semplicemente una falce, taglia tutto ciò che sta sopra una certa soglia, e la felicità fa lo stesso, sceglie ed esclude senza pietà. Se sei fuori dal cerchio puoi però conoscere l’alfabeto del vento, coccolarti la tigre delle tue passioni comodamente in salotto, saltare un turno in fabbrica. Forse anche amare qualcuno di reale.
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“Perché è diventando assolutamente niente che si può diventare uno scrittore. D’altronde le cose si sono presentate così e non in un altro modo”. Un altro sasso di ghiaccio. Agota Kristof ci sta dicendo che per scrivere bisogna spolpare tutte le parole, togliere la carne dall’osso, tenerle così nella loro bianca nudità.
*In copertina: John Constable, “Studio di paesaggio marino con nuvole e pioggia”, 1824-1828