22 Novembre 2023

La legge dell’amore e l’insensatezza della vita. Quando Tolstoj si credeva Siddharta

Il fascino dell’ultimo Tolstoj risiede nella violenta distanza – sorta di biforcuto bivio, di labirinto al veleno – tra l’uomo pubblico e quello privato. In pubblico, Tolstoj si presenta come un guru, il paladino del pacifismo e dell’amore per il prossimo, fautore di una filosofia propria – il tolstoismo – e di un cristianesimo depurato da paramenti ecclesiastici e riti a suo dire irrilevanti (il 24 febbraio 1901 la chiesa di Russia scomunica il “nuovo falso dottore, conte Tolstoj” che “vittima del suo spirito d’orgoglio, si è levato contro Dio, contro Cristo, contro il Suo santo retaggio”). Allo stesso tempo, Tolstoj era ieratico – secondo l’icona pittorica che di lui ci consegna, proprio nel 1901, Il’ja Repin: barba lunga, bianca, vesti semplici, alla contadina, le mani nella cinta nera, i piedi nudi, sulla terra che s’impenna nel bosco – e cesareo – secondo l’icona scultorea forgiata da Paolo Trubetskoj: il muso della bestia ha la stessa fermezza di quello dello scrittore, autentico zar del proprio tempo. I “sermoni” di Tolstoj venivano tradotti in ogni angolo del globo; la sua morale – benché stucchevole, di ricorsiva ovvietà – animava i popoli.

In privato, tuttavia, lo scrittore anelava all’annientamento, alla fuga, alla fine. “Ho voglia di scappare, di scomparire per sempre”, scrive nel suo diario, è il 1906. Lo scrittore di Guerra e pace e di Anna Karenina, il più grande romanziere di ogni tempo, da tempo ha deposto la scure della letteratura: abita la feconda inquietudine. Lo sforzo d’onnipotenza del sommo compilatore, autentico dio della morale letteraria – con La via della vita e Il ciclo di letture intende fondare “un canone tolstoiano della letteratura mondiale, non una scelta ma la scelta di tutto ciò che in tutti i più grandi autori poteva servire come salutare esercizio spirituale e ‘via di autoperfezionamento’ per lettori di tutte le età”, così Igor Sibaldi – cela l’intento di disintegrare alle radici la letteratura. L’ossessione per i decaloghi, i rotoli della legge, i manuali morali testimoniano la volontà di superare ogni norma per penetrare nel niente.

Da qui, l’autentico cristianesimo che affascinava Tolstoj: non quello del “discorso della montagna” e dell’amore verso il prossimo, ma l’agonia, l’incomprensione, il tradimento, il cupo errare, l’idea del dio che si fa ammazzare, il chiodo e il sepolcro vuoto, pozzo d’ogni menzogna. Nessuna resurrezione è concessa nella visione di Tolstoj. Allo stesso modo, della vicenda di Siddharta Gautama – insieme alla Bibbia e al pensiero di Schopenhauer, tra i suoi antichi fari, fin dalla scrittura del pamphlet al vetriolo Confessione (1882) – lo conquista l’assassinio del sé, l’epica della fuga dal mondo. “Quando mi chiedo: che cosa mi occorre? Andarmene da tutto. Dove? Da Dio, morire. Desidero colpevolmente la morte”, scrive lo scrittore nel 1908. Per lui, Dio coincideva ormai da tempo con la morte.

Tra il 1904 e il 1908 Tolstoj riscrive la storia di Siddharta per Il ciclo di letture. Siamo lontani dagli aforistici ardori di Hermann Hesse: qui la scrittura è piana, ha il tono della fiaba – “In India, 2400 anni fa, viveva il re Suddhodana. Aveva due mogli, che gli erano sorelle, ma figli non ne aveva né dall’una né dall’altra…” – è piena di pie norme – “abbi cura della vita, di tutto ciò che è vivo” – che nascondono la serpe del disinganno, la provincia del disastro. Il racconto, che ha il nitore della parabola, è semplice e molto bello, s’intitola Buddha (l’editore De Piante lo ha raccolto insieme ai “racconti orientali” di Tolstoj e alla “corrispondenza con Gandhi”, a testimoniare i legami profondi tra il sommo scrittore russo e l’Oriente). “Ricordate che il corporeo si distrugge sempre, mentre la verità è indistruttibile ed eterna”, dice Siddharta in punto di morte ai suoi discepoli. Tolstoj, che per verificare la sua verità – un credo che sfocia nel caos – scelse di distruggere se stesso, in punto di morte, dopo una fuga romanzesca e grottesca, ordita da un dio ardito nei colpi di scena, era il novembre del 1910, sussurrò “la verità… io amo tanto…”, oppure, secondo altre fonti, “lasciatemi in pace”. Forse è lo stesso. La verità: un amore senza lascito, lasciare tutto.

Nella Lettera a un cinese (1906) – di mefistofelica ‘attualità’; è riprodotta nel volume De Piante insieme alla Lettera a un indù – Tolstoj dimostra destrezza nella letteratura d’Oriente: amava “i libri di Confucio, di Mencio, Lao-tze e i loro commentatori” (indizi raccolti pochi anni dopo da un altro sinologo per diletto, d’altra verve: Ezra Pound). Nel suo proclama, la prassi non violenta si lega, per così dire, a una ‘cristianizzazione’ del pensiero cinese:

“Basterebbe che i cinesi continuassero a vivere come prima la loro vita pacifica, laboriosa, contadina, conformando il loro modo d’agire ai fondamenti delle loro tre religioni, il confucianesimo, il taoismo, il buddismo, le quali concorrono, tutte e tre, nei loro principi fondamentali, alla liberazione da qualsiasi potere umano (il confucianesimo), al non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te (il taoismo), all’abnegazione, alla mitezza e all’amore per tutti gli uomini e per tutti gli esseri (il buddismo). In questo modo, scomparirebbero di per sé tutte le calamità sofferte dai cinesi, e nessuna forza potrebbe più vincerli”.

La lettera, scritta in reazione alla guerra russo-giapponese del 1904-05, era inviata a Gu Hongming, diplomatico e scrittore, traduttore di Confucio in inglese, accademico in Cina e in Giappone, amico, tra gli altri, di Tagore e di Ryunosuke Akutagawa. Fu subito tradotta in inglese, francese, tedesco.

Nella più articolata Lettera a un indù (1908), Tolstoj tenta una sintesi tra il Vangelo e i Veda, impalca una potente accusa contro l’assolutismo della “scienza”:

“La parola “scientifico” assolve alla stessa funzione che aveva la parola “religioso”. Come tutto ciò che veniva chiamato religioso doveva essere considerato assolutamente vero per il fatto stesso di essere chiamato religione, così tutto ciò che viene chiamato scientifico viene considerato assolutamente vero per il semplice fatto di essere chiamato scienza”.

In una sorta di ebbrezza dell’intelletto, al termine della lettera, Tolstoj auspica una “liberazione” dalle “sedicenti leggi scientifiche cui l’umanità dovrebbe essere soggetta (leggi storiche ed economiche, le leggi della lotta e della sopravvivenza…)”, dalle “varie dottrine scientifiche su atomi e molecole infinitamente piccoli e su mondi infinitamente grandi e infinitamente remoti” come “dalla credenza nei vari Ormuzd, Brahma, Sabaoth e nelle loro incarnazioni nei Krishna e nei Cristi, dalla credenza nel paradiso e nell’inferno, negli angeli e nei demoni… liberandosi soprattutto dal riconoscimento dell’infallibilità dei vari Veda, Bibbie, Vangeli, Tripitaka, Corani etc.”; a suo dire, soltanto la “legge dell’amore” – bella quanto vaga – è necessaria a dissipare violenze e crudeltà.

Gandhi – che prima di diventare “Mahatma” era una fervente tolstoiano – introdusse la Lettera a un indù, pur con qualche esplicita critica (“non è necessario accettare tutto ciò che Tolstoj dice”), di cui fece cronaca, in privato, a Tolstoj, nell’ottobre del 1909. Intuiva che la liberazione professata da Tolstoj, che fa di tutti le fedi un falò e di ogni singolare cultura un solo rogo, era una capriola nel nulla. In particolare, gli scrisse in merito della “reincarnazione o trasmigrazione: non so (se non è irrispettoso da parte mia) se voi abbiate studiato tale questione”. Gandhi ricorda a Lev che per alcuni quella visione “è materia di esperienza e non più soltanto di adesione accademica”. Credeva che Tolstoj fosse “uno dei pensatori più lucidi del mondo occidentale”; non credo sia un complimento per il più vasto scrittore del mondo.

Ad ogni modo, quell’anno, Tolstoj era impegnato nella sua costante, corrosiva lotta contro Dio – “Se mi domandano: c’è Dio in se stesso? io devo rispondere e rispondo: sì, probabilmente; ma io di lui, di questo Dio in se stesso, non so niente”, scrive nel suo diario. Si sentiva bene per essere un uomo di ottant’anni, faceva lunghe passeggiate a cavallo. Gli piacevano ancora le donne. Eppure, lo pugnalava ai fianchi quella cosa senza volto che chiamava “insensatezza della vita”. Ne morì.

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Per concessione dell’editore De Piante si pubblica parte della lettera inviata da Lev Tolstoj a Gandhi il 20 settembre del 1910.  

Lev Tolstoj a Gandhi, Kočety, 20 settembre 1910

Ho ricevuto la vostra rivista “Indian Opinion” e mi sono rallegrato nell’apprendere tutte le informazioni che vi si danno a proposito dei non-resistenti. E volevo esprimervi i pensieri che questa lettura mi ha suscitato. Più vivo, e specialmente ora che sento vivamente l’approssimarsi della morte, più desidero dire agli altri ciò che sento intensamente e ciò che – a mio modo di vedere – ha un’enorme importanza; desidero soprattutto parlare di quel che si chiama non-resistenza e che in sostanza altro non è che l’insegnamento dell’amore, non deformato da false interpretazioni. Che l’amore – cioè la tensione delle anime umane all’unione e all’attività che ne deriva – sia la legge suprema e unica della vita umana, questo nel profondo dell’anima lo sente e lo sa ogni uomo (lo vediamo con la massima chiarezza nei bambini): lo sa, finché non viene confuso dai falsi insegnamenti del mondo. Questa legge fu proclamata da tutti i saggi dell’umanità, tanto indiani, quanto cinesi, ebrei, greci, romani. Penso che con la massima chiarezza fu espressa da Cristo, che disse anche espressamente che in questo solo stanno tutta la legge e i profeti.

Non solo: prevedendo la deformazione alla quale questa legge è soggetta e che essa può subire, additò esplicitamente il pericolo di questa deformazione, caratteristica delle persone dedite a interessi mondani; additò soprattutto il pericolo consistente nel giustificare la difesa di questi interessi con la forza, cioè, come egli diceva, di rispondere colpo su colpo, di riprendere con la forza quanto ci è stato tolto, ecc. Egli sapeva, come non può non sapere ogni uomo ragionevole, che l’uso della violenza è incompatibile con l’amore come legge fondamentale della vita; che, non appena si ammette la violenza, in qualsivoglia caso, si ammette l’insufficienza della legge dell’amore e perciò si rigetta la legge stessa. Tutta la civiltà cristiana, per quanto esteriormente brillante, è cresciuta sulla base di questi fraintendimenti e di queste contraddizioni, evidenti, strane, talvolta consapevoli, il più delle volte inconsapevoli.

In sostanza, non appena accanto all’amore fu ammessa la resistenza, allora non ci fu più, né poteva esservi, l’amore come legge della vita; non vi fu più la legge dell’amore, anzi non vi fu più legge alcuna, se non quella della violenza, cioè del potere del più forte. Così per diciannove secoli ha vissuto l’umanità cristiana. In verità, gli uomini di tutti i tempi si fecero guidare dalla sola violenza nell’organizzare la propria vita. La differenza tra la vita dei popoli cristiani e quella di tutti gli altri sta solo nel fatto che nel mondo cristiano la legge dell’amore fu espressa con una chiarezza e una precisione quali non si trovano in nessun altro insegnamento religioso, e nel fatto che gli uomini del mondo cristiano hanno accolto solennemente questa legge e contemporaneamente hanno ammesso la violenza e sulla violenza hanno costruito la propria vita. E perciò tutta la vita dei popoli cristiani è una netta contraddizione tra ciò che essi professano e ciò su cui costruiscono la propria vita: contraddizione tra l’amore riconosciuto come legge della vita e la violenza, accettata e perfino lodata come necessaria in varie forme, come il potere dei governanti, dei tribunali e dell’esercito.

Tutta questa contraddizione è cresciuta di pari passo con lo sviluppo dell’umanità appartenente al mondo cristiano e ultimamente ha raggiunto il suo grado più alto. Il problema è ora evidentemente questo: o riconoscere che non accettiamo alcun insegnamento etico-religioso e siamo guidati nell’organizzazione della nostra vita dal solo potere del più forte, oppure che tutte le nostre tasse, raccolte con la violenza, tutte le nostre istituzioni giudiziarie e di polizia e, soprattutto, l’esercito debbono essere aboliti.

Gruppo MAGOG