Nell’ultima edizione è stato dimenticato – è ancora tabù, e titillare la morte non è un esercizio conveniente.
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Per noi il suicidio ha qualcosa a che fare con Romeo e Giulietta o con I dolori del giovane Werther: è lecito uccidersi per amore. Ci si toglie di mezzo per sancire l’eternità di un amore – dacché l’amore è eterno finché non è consumato, è virgineo nella crudeltà.
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La vera colpa è dire che il suicida si uccide semplicemente perché non ne può più della vita, perché è disperato – una colpa al cubo, allora, è quella di chi si suicida dopo aver tracannato il nulla, per gioco, per svago, perché la vita lo annoia. Travolto dall’inquietudine, l’uomo ridicolo di Dostoevskij è certo di uccidersi: la sera è livida di pioggia, incontra una bimba stracciona, in lacrime, la caccia, la pistola è pronta, sale in casa, cade addormentato; poi il sogno, e nel sogno l’uomo ridicolo – cioè, l’uomo che sperimenta la ridicolaggine della vita – si vede come il peccatore più grande, la tenia, il virus, la malattia che conduce una civiltà felice, dell’oro, nella mestizia del pensiero, del possesso, del dolore; al risveglio, il suicidio si disfa in conversione, e l’uomo ridicolo – ancora dileggiato dal resto dell’umanità, ad ogni modo, perché gli estremi si toccano, nell’inaccettabile – si converte, vagabonda ad annunciare il Vangelo.
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Ci vuole davvero poco, è la distanza di un fiato – di una parola, di uno stormire di palpebre – quella che divide il suicidio dal rilancio, la morte dalla conversione. Per questo chi resta ha in eredità l’aureola della colpa.
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Seneca – che il paradosso eretico vorrebbe a braccio con San Paolo – discute del suicidio come del vino con cui pasteggiare, a cena. “Non è importante morire prima o dopo, ma lo è morire bene o male; morire bene è fuggire il rischio di vivere male”, scrive al pupillo, Lucilio, con ginnica sapienza (“nello stesso modo in cui sceglierei una nave… e la casa… così sceglierò la morte quando starò per abbandonare la vita”: cito dalla sgargiante traduzione di Silvia Stucchi).
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Dopo aver scritto un rapido articolo sul suicidio, su chi custodisce la morte del suicida – su cui grava, sempre, un turbato eccesso di memoria – ho ricevuto diverse testimonianze di vicinanza. Alcune particolarmente potenti. Chi ha vissuto la prossimità del suicidio – che sia un genitore, un fratello, un congiunto – ha il privilegio di mettere l’iride nel segreto, nella morte. Da decenni tentiamo di eliminare la morte, la rendiamo un oggetto solubile, invisibile: ma la morte ci bracca ovunque. Viverla da bambini, con stremata ferocia, è un vanto: permette di capire immediatamente cosa è importante e cosa no. Capisci, ad esempio, subito, che c’è solo un fatto davvero ineludibile, inevitabile. La morte. Ed è con la morte, per questo, che stringi patti ogni singolo giorno. A volte circuendola, altre volte lasciandotene sedurre.
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A una amica ho scritto che la morte di mio padre mi ha benedetto… ma come sempre faccio lo scrittore, il romantico, indosso la maschera. In realtà, mio padre mi ha lasciato, in dote, i suoi genitori, i miei nonni, ammorbati dalla demenza senile, senza parenti, di cui ho dovuto prendermi cura, da inabile e da incapace.
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Infine, non c’è eccezionalità. Ricordo un evento. Molti anni fa. Conobbi Roberta Castoldi, una poetessa di genio, in un borgo ligure. Suo padre s’era ucciso come il mio – dimostrò curiosità intorno al modo, alla forma del suicidio. Ne parlammo con attenta serenità. Questo mi colpì. Il suicidio non benedice nessuno, nessuno è eccezionale, nessuno può farsi vanto perché indossa il ‘marchio di Caino’. Che mio padre si sia ucciso è un accidente: avvilirei il suo gesto se pensassi di averne parte. Chi ama il defunto ne rifila la vita, senza rifiutarla, senza correggerla, incaricandosi dei suoi sviluppi, semmai. Esaurire la vita di chi si è esaurito vivendola.
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L’edizione Einaudi di Rashomon, dicevo, dimentica il racconto più bello, definitivo di Ryunosuke Akutagawa. Forse perché, nella sua candida delicatezza, turba. Il gesto di Yukio Mishima, per dire, ha il fato orientale dell’epica. “Prima di uscire dallo studio, lascia sulla scrivania un appunto: La vita umana è breve, ma io voglio vivere per sempre. Frase caratteristica di tutti gli esseri tanto ardenti da essere insaziabili. A pensarvi bene, non c’è contraddizione fra il fatto che quelle parole siano state scritte all’alba e il fatto che l’uomo che le ha scritte sarà morto prima della fine della mattinata”. L’esegesi di Marguerite Yourcenar, Mishima o La visione del vuoto, è di tellurica bellezza. Il gesto di Mishima è come quello di Lucio Fontana: aggiunge una nuova dimensione all’arte letteraria, squarciandosi, squarcia il velo, sfonda le consuetudini, sfida l’umanità. In modo più pudico, un anno e mezzo dopo la morte di Mishima, nel 1972, si uccide il maestro della letteratura giapponese contemporanea – amico di Mishima, Premio Nobel per la letteratura nel 1968 – Yasunari Kawabata. Al gesto clamoroso, però, è sostituito l’atto solitario, privato.
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Akutagawa è il grande precursore: innova la letteratura scassando la tradizione nipponica da dentro. Si uccide nel 1927. L’ultimo racconto, glauco e ‘maledetto’, Memorandum per un vecchio amico, è scritto pochi giorni prima di uccidersi, con una consapevolezza che sfida la pazzia (“Nessun aspirante suicida ha prima d’ora descritto fedelmente le proprie condizioni psichiche. Forse per orgoglio, o per difetto di interesse per la proprio psiche”). Akutagawa, tra i grandi eroi del racconto breve, compie una riflessione lancinante sulle ragioni del suicidio (“Tutti i suicidi attuano il loro gesto quando lo giudicano inevitabile. Colui che si dà la morte prima del manifestarsi di una tale ineluttabilità, è necessariamente un coraggioso”), giungendo a una confortante considerazione. “So soltanto che la natura non mi è mai apparsa così bella. Riderai di questa contraddizione tra amore per la bellezza della natura e desiderio di morte. Ma la natura mi appare così splendida proprio perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo”. Solo sul ciglio della morte sei consapevole della bellezza della vita. Ci si uccide per eccesso di vita, perché non la si può contenere tutta.
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Sporgendo sulla metafora. Lo scrittore vive nella morte – l’incapacità creativa, la parola al posto dell’atto – e per questo dona la vita, la crea. Solo dall’alveo della morte la vita è possibile. Solo se guardi le cose, scrivendole, con “gli estremi sguardi”, riesci a dar loro vita. Solo se gli sguardi sono estremi, ultimi, le cose hanno un’amorevolezza compiuta – ci portano all’amore, e l’amare è una frazione dell’oro. Ma a volte l’amore è così forte, così bianco, che per difetto ci uccidiamo. (d.b.)