02 Maggio 2024

“Emula l’aquila delle rocce”. Elinor Wylie, poetessa sfrenata

La biografia, in questo caso, rischia di incancrenire il talento negli scabri dettami del pettegolezzo, di incenerire l’estro nello spot. Povera Elinor Wylie, donna d’aristocratica, vampira bellezza, reclusa nella gabbia del proprio lignaggio, allo status di ‘pecora nera’. Nata a Somerville, New Jersey, nel 1885, fu sollecita vestale della poesia, sacrificò, sempre, ogni ambizione per la fuga d’amore – eccelleva nella razzia dei cuori, preferiva che la rapissero, come si faceva ai vecchi tempi per far convolare a nozze i principi. La famiglia, nel giglio americano – il nonno governò il Pennsylvania, il papà fu Procuratore generale degli Stati Uniti –, non poteva capirla; quanto a lei, visse da spregiudicata, nel genio dei ‘ruggenti Venti’, degna eroina di un romanzo di Fitzgerald.

Ventenne, si unì al poeta in pectore, harvardiano, Philip Simmons Hichborn, a cui donò un figlio. Il tipo le parve, dopo un po’, pallido, pavido, inerme: lo lasciò per un avvocato, Horace Wylie, più grande di lei di diciassette anni, con moglie e tre figli a carico. La coppia, entro un tornado di pettegolezzi, mollò gli States, rifugiandosi, sotto falso nome – “Waring” – in Inghilterra. Il povero Philip, straziato dalla fuga della moglie, si ammazzò. Horace e Elinor riuscirono a sposarsi nel 1916, rientrarono negli Usa, dove la diva trovò spazio tra le fila di “Poetry”. Aveva pubblicato, a Londra, presso un tipografo, il primo libro in versi, Incidental Numbers, sotto la celata dall’anonimato; nel 1921, a New York, per Harcourt, Brace & Co. (l’editore che sarà di T.S. Eliot e di George Orwell) pubblica Nets Catch the Wind. È una piccola rivelazione: la poesia di Elinor Wylie – scoperta e tradotta per la prima volta in Italia da Annalisa Crea; vedi sotto – è tutta nella rapidità dell’intelligenza, nella razzia delle immagini, in stanze tra il metafisico e il brusco. Si apparenta a un filone la cui matriarca è Edna St. Vincent Millay, passa per i corrosivi toni di Dorothy Parker, sboccia in Anne Sexton. I suoi libri – Black Armour, 1923; Trivial Breath, 1928; Angels and Earthly Creatures, 1929 – spiazzano per l’audacia scontrosa, extraurbana, per l’eleganza tornita di falchi.

Del suo nuovo gruppo di amici faranno parte Edmund Wilson, John Dos Passos, Sinclair Lewis; lavorava per “Vanity Fair”. Amava Shelley, tra tutti, a cui dedicherà un romanzo, The Orphan Angel (1926; stampato da Knopf, uno dei grandi editori americani), in cui immagina “che il poeta non annega nel golfo di La Spezia, nel 1822, ma viene tratto in salvo, incominciando una nuova vita negli Stati Uniti”. La copertina, incisa da Leon Underwood, è di particolare bellezza.

Votata alla scrittura in versi e in prosa – tra i romanzi vanno citati Jennifer Lorn: A Sedate Extravaganza, del 1923, e Mr. Hodge & Mr. Hazard, del 1928 – Elinor non dimenticò di avvoltolarsi nelle estreme scelte. Annoiata dal nuovo marito, preda di perpetui scandali, si unì, nel 1923, a William Rose Benét. Poeta dal solido talento – vincerà un “Pulitzer for Poetry” nel 1942 –, graduato a Yale, direttore della “Saturday Review of Literature”, pareva l’opportuno partito per Elinor. In effetti, il marito la idolatrava e la aiutò a pubblicare a dovere; come lei, per altro, amava le scelte improvvise, gli amori improvvidi (riuscì a portare all’altare, oltre a Elinor, altre tre donne). Tuttavia – per rendere più ‘sportivi’ i giorni, diciamo così – Elinor si unì a un amico del marito, si chiamava Henry: trasvolò, ancora, in UK e gli dedicò una manciata di alchemici sonetti.  

Elinor Wylie morì pochi giorni prima del Natale del 1928, a New York, nella casa del marito, con cui era rimasta in buoni rapporti. Secondo la leggenda, Elinor chiese a Benét un bicchiere d’acqua; stava sfogliando John Donne; andò incontro al marito mormorando, “dunque, è tutto qui?”; stramazzò al suolo, rosa da un ictus. Non si sa se l’interrogativo, astrale, si riferisse alla poesia di Donne, alla poesia in generale o, genericamente, alla vita, troppo misera per contenere la sua vastità, il suo cuore capodoglio. Harriet Monroe, la mitica direttrice di “Poetry”, scrisse un ispirato necrologio:

“Elinor Wylie è morta. Una fiamma che spiccava alta si è spenta e il mondo sembra più freddo, ora. Il fuoco è svanito, ma coloro che ha acceso e quelli che ha bruciato sanno che era chiaro e potente, puro e spietato, proteso verso gli spazi di immortalità che attendono lo spirito che canta, librandosi. In un certo senso, il lavoro di Elinor Wylie era già compiuto, era giunto alla fine. Benché sia morta a quarantadue anni, è riuscita a perfezionare il suo stile, a trasmettere il suo messaggio. La morte ha semplicemente chiuso il cerchio, ha conferito alla sua opera la completezza, una sorta di simmetria, come quando un purosangue vince il trofeo, tagliando il traguardo nello stesso punto da cui è partito”.

(Poetry, Vol. 33, No. 5, Feb., 1929)

Benché la vita di Elinor possa apparire frivola, convolata alla falena, per compiacere il fato dei fuggiaschi, la sua poesia è a tratti ferina. La Monroe la vedeva come un purosangue; lei, nei suoi versi, scrive dell’aquila e del cerbiatto, indizio di una natura sdoppiata, che domina e anela alla vita aperta, che divora ed è divorata. In ogni caso, sono bestie che scattano, che esistono in picchiata – la corsa era la sua natura.

***

Bellezza

Non dire che è buona la Bellezza,
Non dirne alcunché che non sia “bella”,
O le sue ali scabre di gabbiano
Liscerai come penne di colomba.

Non dire che è malvagia; la parola
La sfregia come una maledizione;
Ma non amarla troppo, ché del pari
La smangia la smodata devozione.

Non è né buona né cattiva, lei,
Ma indocile e incolpevole!
Se la proteggi muore, lei che ha
Il cuore di pietra d’un bambino.

*

L’aquila e la talpa

Fuggi il fetido gregge,
Scansa le sordide mandrie,
Vivi da stoico, emula
L’aquila delle rocce.

Germina l’odio e alligna
Nel tepore del covile;
Lei s’erge sopra le nubi
Inviolata la sua rupe.

Quando il gregge si raduna
Al riparo del ricetto,
Lei s’invola sopra i lampi,
Gli occhi affissi dentro il sole.

Se il tuo nerbo non è atto
A solcare certe vette,
Fuggi il fiato degli armenti,
Chiusi al caldo delle stalle.

Se la tua anima vuoi serbare
Da ogni sguardo, da ogni voce,
Vivi come la serica talpa:
Scava un covo sottoterra.

E tieni il tuo commercio
Con pietre e acque sorgive,
Con tuberi e radici,
E scheletri scarniti.

*

Un tram affollato

Freddi gli argentei granelli di pioggia,
E aguzzi come sabbie d’oro,
Un trillo di campana, ondeggiano i viaggianti
Le mani chiuse a gancio.

Mani flessuose, o rigide e nodose,
Annaspano convulse, s’aggrappano tenaci;
Giallognolo è quel volto, come di colui
Che oscilla dal patibolo.

Smussi come sassi, puntuti come lame,
S’irradiano gli sguardi,
S’intrecciano le dita, mogli di Barbablù
Appese per le chiome.

Orto dai frutti bizzarri
Che pendono dai cieli;
Fratelli, ma pure bruti
Che temono gli occhi negli occhi.

Solo un uomo se ne sta dritto come se fosse libero
Come se integra avesse l’anima,
E temeraria; guarda la mano
A un legno inchiodata.

*

Che nessuna pietosa illusione

Che nessuna pietosa illusione
Offuschi la mia mente di visioni
Di aquila e di antilope:
La mia natura è un’altra.

Da umana, sono nata sola;
Da donna, sono dannata al tormento;
Vivo cavando da una pietra
La poca linfa che mi sostenta.

Ad uno ad uno sfilano gli anni
Con maschere austere o irriverenti;
Ma nessuno ha meritato il mio timore,
E nessuno è scampato al mio sorriso.

*

Creature a sangue freddo

L’uomo, egoista supremo
(la mela è caduta lontano dal ramo),
Immagina, con la sua mente distorta,
Di essere l’unico consapevole

Di quel fardello intollerabile
Che obera tutte le creature,
E non si china a compatire
Il muto lamento negli occhi del rospo.

Non chiede al serpente della sua sorte,
Né sonda le tenebre fosforescenti
In cui pallidi pesci privi di palpebre
Fissano, vigili, l’apocalisse.

*

Parole leggiadre

Il poeta vezzeggia le parole leggiadre:
Io amo le parole lisce come pesci d’oro smaltato
Che fluttuano nell’acqua con un fruscio di seta,
E amo quelle soffici, lanugine di passeri.
Parole trepidanti, cerbiatti maculati
Che cercano la mano e, se voglio, giocano,
Gattini persiani nutriti a cagliata
Che fanno le fusa su un piatto d’argento.
Amo le parole garrule di buon’ora;
Parole trillanti e fulgide financo nelle tenebre;
Parole calde e pigre, armenti sotto gli alberi.
Parole perlacee, fredde, opalescenti,
Falene di mezza estate, melate come api,
Ambrate e vischiose, con il pungiglione.

*

Poiché non possiamo fuggire

Poiché non possiamo fuggire
Sta’ ferma, e incassa il proietto
Nell’infausto fianco sinistro
E lascia che in te si annidi
E liscia le sue piume arruffate,
Finché non ritrova la pace.
Così sarà vana l’offesa
E serberai un soffio di vita.
Poiché non possiamo sottrarci
Inerpicandoci, rannicchiandoci,
Assumi una foggia diversa
E accogli la pioggia acuminata,
L’oltraggio della raffica di frecce
Che penetra e profana.
Sta’ cheta come un albero che placa
I venti che violano le foglie.

*

Povera Terra

Non è un paradiso: nelle viscere
Ha un seme amaro che lievita angoscia
È un astro infestato da draghi:
I demoni vi hanno dimora.

Il moto del cielo l’ha sformata;
Il sole l’ha agganciata alla sua ruota;
Il suo corso è sghembo per schivare
Trappole e gabbie di pietra e d’acciaio.

Sospesa nel vuoto, volteggia
Al laccio dello spazio trasparente;
Le perdono qualsiasi peccato;
Bacio gli sfregi sul suo viso.

Elinor Wylie

Traduzione e cura di Annalisa Crea

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