05 Aprile 2021

"La paternità generatrice non può perdere mai del tutto, neppure nel vincolo matrimoniale, la sua natura del tutto puramente fittizia". Quando Graves lesse Bachofen e reinventò il matriarcato

Negli anni Quaranta del secolo scorso Robert Graves, che si è letto il suo Ramo d’oro di Frazer e ha sbirciato nel Matriarcato di Bachofen, incomincia a elaborare la dottrina poetica della ‘dea bianca’ che oggi ci sembra tanto corretta da darla per scontata: la poesia nasce come elogio per la donna che ha creato tutto. È la Musa e la Madre e questo può succedere nella storia perché la religione greca nasce in un contesto matriarcale.

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Il ramo d’oro di Frazer pervade l’Europa come una corrente sotterranea dal 1894: sono diverse edizioni e riscritture che comunque portano l’opera a installarsi tra i dati di fatto dell’opinione, del senso comune colto: Mann giovane gira l’Italia tenendoselo sotto braccio quando visita le cascate di Tivoli e cerca di seguire gli itinerari nei boschi sacri del grande scettico Frazer che illustrava i passaggi del culto antico col distacco di un pastore anglicano, saggio ma illuminato da rari colpi di pazzia. Mann non è isolato: tutto il mondo anglofono lo conosce. Frazer è una corrente che crea coincidenze: e quando incrocia Graves i pezzi si intarsiano da soli.

Quanto a Bachofen e al suo libro sul Matriarcato, ci arriveremo a fine articolo. Anche questa è un’influenza decisiva su Graves, solo che è meno letteraria rispetto a Frazer.

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Le idee di Graves approdano alla composizione nel 1948 della Dea bianca. Grammatica storica del metodo poetico. Due anni prima Graves si era divertito a comporre King Jesus (tradotto in italiano solo nel 1986, per dire) dove racconta la storia di Gesù scorticandola.

Nella sua storia, basata su fonti certe ma alternative alla stretta tradizione cristiana, troviamo notizie curiose (l’episodio del Buon samaritano e quello dell’adultera sono grossolane interpolazioni) insieme a un’ipotesi folgorante: che Gesù sia re, e ucciso come re, in quanto nipote di Erode e figlio di Antipatro. Per dirlo Graves ha la fonte autoritativa del Talmud (“Miriam frequentava falegnami e principi”). Non è entusiasmante pensare anche solo per un istante che la storia potrebbe essere andata proprio così?

Ancora nel primo secolo dopo Cristo il dotto Filone di Alessandria tenta di far convivere il dio creatore del Timeo di Platone con quello suo, personale e ebreo. Negli Stromata (Tappeti) Filone si scaglia contro il matriarcato. Dopo di lui, i vari Plotino e Proclo rimarranno affezionati a una visione interamente dedita al maschile e forse è anche per questo che il loro recupero da parte dei fiorentini fosse poi all’insegna dell’omosessualità (“la donna è un vaso” per Ficino).

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In realtà il discorso di Graves è più complesso, si lega a un’idea che stava germinando in lui in quegli anni. Alla fine del mondo antico stuoli di intellettuali neoplatonici convivevano nel mondo orientale col cristianesimo e soprattutto con la grande religione monoteista, l’ebraismo.

Mentre i neoplatonici aboliscono la distinzione tra religione e riflessione, la mente artefatta presenta agli ebrei il Dio unico e senza compagna che però, stranamente, è anche padre. Questo Dio calpesta le acque primordiali che risalgono dal basso: laddove la coscienza religiosa fino a prima di lui aveva rimesso tutto nelle mani della dea femminile che si è appropriata delle energie del profondo, del serpente, dell’istinto puro che striscia per terra.

In King Jesus Graves narra di Gesù ucciso in quanto re che cerca il contrasto con le Tre Marie: sua madre Miriam, Maddalena e il demonio. Gesù vuole distruggere il matriarcato, disobbedisce a sua madre, rifuta Maddalena e combatte col demonio (tradizionalmente femmina) nel deserto. Queste sono figure della dea bianca che era il denominatore comune di tutte le religioni prima che il monoteismo si perfezionasse tra gli ebrei in versione anti-gentile togliendo ogni lascito di culto della femminilità.

Non per caso, la cronologia delle opere romanzesche di Graves si intreccia con le elaborazioni dottrinali: ’46 King Jesus, ’48 La dea bianca e l’anno dopo Sette anni tra un millennio che è una distopia tipicamente inglese ma ambientata, non per caso, in quella Creta che era stata il luogo di elezione del matriarcato mediterraneo.

In effetti, il discorso di Graves è portentoso, non ha a che vedere con le ricostruzioni a coordinate iniziatiche.

Si esprime così in una lettera dell’agosto 43 a un amico negli anni dello studio fitto, serrato: “nelle scoperte che ho fatto scrivendo il romanzo sugli Argonauti, su Apollo e le Muse e la loro presa in affitto del Parnaso, la Musa è – be’, ha l’aspetto della luna, e comincia tutto qui, cioè con la Grande Medicina sotto la Luna del monte Parnaso nei giorni del matriarcato. La connessione non era mai schiocchiata sinora”.

O prendi l’intellettualismo maschile, o la poesia femminile. Allora i termini erano oppositivi, poi sono stati camuffati.

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Dopo la Dea bianca, Graves soprende tutti (o quasi) recuperando l’idea di Samuel Butler: l’Odissea è stata scritta da Nausicaa. E scrive il romanzo La figlia di Omero.

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Nelle note di diario Butler vecchio e rifiutato da tutti (ma non dai geni giovani: G.B. Shaw) aveva segnato due frasi micidiali:“Omero e i suoi commentatori. In realtà non era lui a essere cieco”.

La Grande Madre di Creta

Tutto questo suona remoto, distorto e fastidioso. La religione delle madri cos’ha a che vedere col femminismo, coi problemi del mondo d’oggi?

Ma il femminismo in confronto al matriarcato è acqua fresca.

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Fortunatamente l’opera di riferimento esiste in traduzione italiana: è di Bachofen e fu curata da quel genio funambolico di Furio Jesi.

Il Mutterrecht di Bachofen (1861), si legge sul risguardo dell’edizione Einaudi del 1988 riproposta nel 2016, ha influenzato tutta l’Europa che conta e che scrive: Broch Mann George Nietzsche Jung. Così, senza pretesa di ordine e di esaustività.

Estraggo un passaggio dal Preambolo e introduzione di Bachofen: “Negli stadi più profondi e oscuri dell’esistenza umana l’amore tra la madre e il nato dal suo corpo rappresenta il punto luminoso della vita, il solo chiarore nella tenebra morale, la sola beatitudine nella profonda miseria. Osservazioni compiute su popolazioni ancora viventi di altri continenti, mentre riportano questo fatto alla nostra coscienza, pongono anche in luce il significato delle tradizioni che menzionano per prime i philopatres e la loro importanza quale punto di svolta nell’incivilimento dell’umanità. L’intima relazione del figlio con il padre e il sacrificio del figlio per il genitore implicano un grado molto più alto di sviluppo morale che l’amore materno, forza piena di mistero che penetra ugualmente tutte le creature terrestri. Essa appare più tardi, e più tardi rivela la sua forza (…)

Nella cura per il frutto del proprio corpo, la donna impara prima dell’uomo a spingere la propria preoccupazione amorosa oltre i confini dell’io individuale, verso un altro essere, e a dedicare alla conservazione e all’abbellimento dell’altra esistenza tutte le capacità inventive dello spirito. Da essa allora procede ogni elevazione delle norme di vita, ogni benevolenza, ogni dedizione, ogni sollecitudine, ogni pietà verso i morti (…) Il legame della madre col bambino poggia su un rapporto materiale, è accessibile alla percezione dei sensi e resta una verità di natura; all’opposto la paternità generatrice presenta in tutti i suoi elementi caratteristiche diversissime, priva di qualsiasi rapporto visibile con il bambino essa non può perdere mai del tutto, neppure nel vincolo matrimoniale, la sua natura del tutto puramente fittizia”.

Mater Matuta, dea del mattino conservata agli Uffizi (400 a.C.)

Il matriarcato di Bachofen è un’opera mostruosa. Per Jesi è ‘opera dagli infiniti recessi’, a dire di una sua natura claustrofobica, da grembo, illuminata da luce oscura. Bachofen era giurista e conosceva bene il diritto antico: poi svoltò, lasciò l’accademia e si sposò dopo i cinquant’anni solo dopo che morì sua madre a cui dedicò Il matriarcato. Dice Jesi che “le proporzioni ipertrofiche, maniacali, raggiunte da alcuni temi, e il procedimento a spirale della ricerca di Bachofen, hanno in sé e per sé un’importanza capitale per chi voglia afferrare il significato e la temperie del lavoro. Vi è altrimenti, se ci si limita a spigolature curiose, il rischio preciso di incorrere in errori gravi di apprezzamento positivo o negativo, di vera e propria manipolazione o sfruttamento dell’opera”.

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Quali saranno mai le dimensioni del libro? Nei Classici Einaudi oltre milleducento pagine, in formato Millenni invece due mattoncini del consueto spessore. Vi si discute, per scaglioni geografici, di Licia e Creta, di Atene, Lemno e dell’Egitto. Si passa poi nel secondo volume a India, di nuovo Grecia, Italia meridionale e Cantabri.

Ma al di là di questo conta la tesi, solida, inebriante e quindi inabissata già allora insieme al suo autore: “oggi ci appare più come un testo classico dell’antropologia e della storia delle religioni anche se in passato ebbe in sorte di esser più citato che effettivamente letto” rimarca l’altro traduttore, Giulio Schiavoni.

“In un’epoca precedente alla società ellenica, la ginecocrazia e la presenza del diritto materno segnarono, a giudizio di Bachofen, una fase di elevazione morale della vita e del costume nella quale Walter Benjamin ritenne di poter scorgere ‘l’aurorale nucleo di un’eguaglianza originaria, l’idea di una società comunista all’alba della storia’ (…) La ginecocrazia pacifica era caratterizzata dal matrimonio monogamico e dal culto di Demetra, accompagnati dal dominio politico, sociale e religioso della donna all’insegna di stabilità, pace e sicurezza”.

Tempo circolare della casa e del fuoco contro il tempo schiacciato dall’uomo sulla linea del progresso.

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A poco valgono i recuperi di Lou Salomé, le escogitazioni di Rilke che chiude le Lettere a un giovane poeta (“Si stende forse su tutto una grande maternità quale aspirazione comune”).

Finisce nel vuoto, insieme alla Mittel-Europa, Edipo e la Sfinge di Hofmannstahl. Jung crea un mondo a sé e lì si estingue.

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Le religioni trascendenti alla fine del mondo antico hanno fatto di tutto per sradicare la forza tellurica dell’elemento femminile: “nell’anima c’è un’immagine mistica e impronunciabile degli dei (…) non cambiare i nomi barbari, essi contengono una potenza ineffabile. Hanno in ogni caso un significato per gli dei, un significato intuitivo e non pronunciabile, migliore e più semplice” dicono gli Oracoli caldaici. E nel frattempo la donna viene estromessa da giudei e cristiani.

Tra tempo circolare della donna e tempo lineare dell’uomo sappiamo quale dei due ha prevalso. Ma attenzione alla profezia di Graves, il matriarcato tornerà entro la fine del secolo. Tenetevi pronti.

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Come un uomo potrebbe sapere che cosa sia una donna? La vita della donna è totalmente differente da quella degli uomini. Dio ha fatto così. L’uomo è sempre lo stesso sin dalla sua circoncisione fino alla sua vecchiaia. Egli è il medesimo prima del suo primo incontro con una donna e dopo. Il giorno in cui una donna conosce per la prima volta l’amore, spezza la sua vita in due. Quel giorno, essa diventa un’altra. L’uomo, dopo il suo primo amore, rimane quello che era prima. La donna, dopo il giorno del suo primo amore, è un’altra. E così rimane per tutta la vita. L’uomo passa la notte insieme con una donna e passa via. La sua vita e il suo corpo restano sempre gli stessi. La donna concepisce. Quale madre, essa è un’altra che la donna senza figli. Essa, innanzi tutto, porta per nove mesi nel proprio corpo le conseguenze di quella notte. Nella sua vita cresce qualcosa che non ne scomparirà più. Essa, infatti, è madre. Essa è e rimane madre anche se suo figlio, anche se tutti i suoi figli muoiono. Perché essa ha portato il bambino sotto il cuore. Dopo però, quando il bambino è già nato, lo porta entro il cuore. E dal cuore egli non uscirà più. Nemmeno quando sarà morto. Tutto questo l’uomo non lo conosce; egli non ne sa niente.

Egli ignora la differenza che passa fra il tempo prima dell’amore e quello dopo l’amore, fra quello prima della maternità e quello dopo la maternità. Egli non può sapere niente. Soltanto una donna può sapere questo e parlare di questo. È perciò che noi non permettiamo nemmeno che i nostri mariti intervengano con le loro parole nelle nostre faccende. La donna può fare una sola cosa. Essa può stare attenta a sé. Essa può comportarsi decentemente. Essa deve essere sempre come è la sua natura. Essa deve sempre essere fanciulla o essere madre. Prima di ogni amore essa è fanciulla, dopo ogni amore essa è madre. Da questo puoi vedere se essa è una buona donna.

“Queste parole di una nobile donna abissina, riportate dal Frobenius in uno dei suoi più bei libri, Der Kopf als Schicksal, siano messe qui a titolo di motto”. (Jung – Kerény, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, tr. Angelo Brelich)

Andrea Bianchi

*in copertina scena tratta da Ipazia (2009)

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