07 Luglio 2018

“Gesù Cristo fu un suicida. E io vorrei essere dimenticato”: le confessioni inedite di Jorge Luis Borges

Durante il momento più duro della storia del suo Paese, nell’insussistenza, accusata di essere una sovversiva, Liliana Heker, che ha esordito alla letteratura giovanissima, neanche ventenne, che ha fondato riviste, ha litigato con Julio Cortázar per ribadire la sua autonomia di artista, libera, senza bavaglio, durante l’orgia militare, che ha appena pubblicato un libro dal titolo abbagliante e paradossale (Un resplandor que se apagó en el mundo), va in giro, forsennata, a capire le ragioni della vita, quelle della morte. Nel 1979 Liliana Heker ha 36 anni e progetta quel libro, Diálogos sobre la vida y la muerte, che vedrà luce, finalmente, molti anni dopo, nel 2003. Nell’era dei militari, quando in Argentina si impartivano ordini e si obbediva agli ordini, una scrittrice decide di inaugurare il dialogo; nell’epoca in cui si moriva per nulla, una scrittrice esplora la morte come tema filosofico, centrale, decisivo, per trovarne la quintessenza di luce nell’orrore. Per fortuna, grazie anche all’attività di Pangea, si comincia in Italia a riconoscere l’opera di Liliana Heker, tra i grandi scrittori latinoamericani viventi, già nota nel mondo anglofono. Non smette di stupirmi l’audacia di questa scrittrice, la lucida determinazione, il pudore, passionale: quando la immagino vicina a Borges, mi sembra una indovina che, a contrario, interroghi la Sfinge. Dopo una prima anteprima su il Giornale, continuiamo a leggere l’intervista, davvero eccezionale, che la Heker ha fatto a Borges. L’incontro con Borges accade nel 1980, quando effettivamente il grande scrittore ha già pubblicato tutte le sue opere importanti. La Heker, con delicatezza, lo incalza, e le risposte di Borges hanno il sapore arcano della confessione. Ho chiesto a Liliana, che abita a Buenos Aires, di rievocare il contesto che l’ha portata a compiere quella intervista. “La prima versione dei miei Dialoghi, del 1980, frustrante sotto tanti aspetti, si giustifica soprattutto per avermi dato l’opportunità di dialogare con Abelardo Castillo, e per aver reso possibile, per me, quell’incontro con Borges nel suo appartamento in calle Maipú; un discorso traboccante di saggezza, di umorismo e di sorprese, che conservo come uno dei ricordi indimenticabili della mia vita”. Penetriamo, dunque, nell’indimenticabile. (d.b.)

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heker
Liliana Heker interroga Jorge Luis Borges nel 1980, durante l’era del regime militare in Argentina.

Scrissi la prima versione dei Dialoghi sulla vita e la morte nel 1979, durante la dittatura militare. Io, come altri intellettuali e artisti, ero stata cacciata dal mio lavoro con l’accusa di essere una sovversiva, il che mi impediva di svolgere qualsiasi lavoro formale. A quel tempo, un uomo sufficientemente folle decise di fondare una casa editrice che, a suo avviso, sarebbe stato più importante del Centro Editorial de América Latina. Eravamo diversi scrittori alla deriva e ci aggrappammo a questo progetto. In particolare, io proposi all’editore quel libro, Dialoghi sulla vita e la morte, per una collana che avevamo progettato per il futuro. Fu per quel libro che, oltre a intervistare un medico oncologo, un professore di religioni comparate e due psicologi, dialogai con Borges e con Abelardo Castillo. A proposito di quelle due interviste, ricalco ciò che ho scritto nel 1980, come prologo ai Dialoghi: ‘Jorge Luis Borges e Abelardo Castillo non solo rappresentano due diversi atteggiamenti nei confronti del mondo, ma anche due momenti diversi della loro vita. Sarei propensa a dire che le tappe della vita che uno e l’altro stanno attraversando permettono loro di parlare della morte con una certa ‘equanimità’. Borges perché, a ottant’anni, la morte ha smesso di pedinarlo come una minaccia. La attende senza allarme, come una certezza, come accade il sonno ogni notte. Castillo perché a 45 anni la morte non lo tenta più come una idea romantica, né è tuttavia una minaccia reale, imminente. Ciò dà l’impressione di essere nel momento esatto in cui si può riflettere sulla morte, considerandola, sostanzialmente, un problema filosofico. Al di là di questa ‘equanimità’, della mancanza di solennità e di una certa sana predisposizione all’eresia comune a entrambi, l’attitudine di Borges e di Castillo di fronte alla morte diverge in modo chiaro. La morte, per Borges, sembra essere un argomento come un altro, qualsiasi. Parla di Mark Twain, parla della teoria degli insiemi, parla di poesia inglese e parla di morte. È felice di parlare di questioni che lo ‘interessano’: l’idea della morte non lo disturba. Castillo, al contrario, non sembra accettare la morte: né la sua parola, né la sua azione. Mentre scrivo il reportage, costruisce una biblioteca. Martella, inchioda: questo è il suo modo di vincere la morte, ostacolarla con qualche scaffale vuoto’.

La prima edizione del libro non è mai circolata, perché l’editore, per debiti, presumo, è dovuto scappare e i libri sono stati confiscati. Solo nel 2003, in seguito a una proposta di Editorial Aguilar, ho terminato una nuova versione, molto più ampia, dei Dialoghi sulla vita e la morte, pubblicati quello stesso anno. Oltre alle interviste ai due psicoanalisti e a Severino Croatto (il professore di religioni comparate), quelle che ho fatto a Borges e a Castillo sono rimaste intatte.

La prima versione, del 1980, frustrante sotto tanti aspetti, si giustifica soprattutto per avermi dato l’opportunità di dialogare con Abelardo Castillo, cofondatore della nostra rivista e amico inestimabile dal 1960, su un tema che non era comune tra noi e che ora apprezzo in modo particolare. E per aver reso possibile, per me, quell’incontro con Borges nel suo appartamento in calle Maipú; un discorso traboccante di saggezza, di umorismo e di sorprese, che conservo come uno dei ricordi indimenticabili della mia vita.

Liliana Heker

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Pubblichiamo un brandello dall’intervista di Liliana Heker a Jorge Luis Borges (un’altra porzione, pubblicata in anteprima da “il Giornale”, è qui).

dialogos-sobre-la-vida-y-la-muerte-liliana-heker-D_NQ_NP_940677-MLA27085932236_032018-FPlotino si rifiutava di farsi fare ritratti perché non voleva che la sua immagine sopravvivesse alla sua morte…

No, no, l’idea di Plotino era questa. Plotino credeva negli archetipi platonici. Vale a dire, credeva che esistesse un uomo ideale, o forse un Plotino ideale. Lui era una copia, e pertanto qualsiasi ritratto sarebbe stato una copia di una copia; l’ombra di un’ombra. No, lui disse: io sono un’ombra, l’unica cosa reale è il mio archetipo, che può essere l’archetipo dell’uomo, ma se io sono un’ombra e si fa un mio ritratto, il ritratto sarà l’ombra di un’ombra. Sì, perché volevano realizzare un suo busto, pertanto lo scultore si recò alla sua lezione, fece degli schizzi, dei disegni, e poi realizzò il busto. Ma Plotino non voleva. Se sono già un’ombra, diceva, il mio ritratto sarà l’ombra di un’ombra.

Borges, questo ha qualche legame con la sua personale avversione per gli specchi?

In realtà, ciò deriva dalla mia infanzia, quando io non sapevo dell’esistenza di Plotino; non avevo idea che esistessero filosofi di nessun tipo. No, io provavo paura per gli specchi, ma la mia paura era diversa. La paura che avevo, e che non rivelai a nessuno per la mia timidezza di allora, la mia paura era che lo specchio cominciasse a vivere in un modo diverso; per esempio, che la mia immagine nello specchio facesse cose che io non facevo. Quella è la paura che avevo. Nella mia stanza c’era un enorme mobile di Amburgo, con tre specchi; di conseguenza io vedevo triplicato. Inoltre il letto era di mogano. Se avessi detto ai miei genitori di spegnere la luce della stanza attigua… Ma non ebbi mai il coraggio di dirglielo. Vivevo sempre con quella paura. Prima di dormire – la stanza non era completamente al buio – aprivo gli occhi, mi guardavo negli specchi, constatavo che non si muoveva niente e poi, alla fine, mi addormentavo. Ho avuto molti incubi sugli specchi, ma avrei potuto risolvere tutto questo chiedendo ai miei genitori di spegnere la luce dell’ingresso che si trovava di fianco.

Scusi, Borges, giro la cassetta.

Va bene. Chi altri compare in questo libro?

Il professor Croatto, docente di religioni comparate; il dottor Gazzano, psichiatra, che ha diretto il Centro de Asistencia al Suicida…

Che cosa fanno lì? Aiutano le persone a uccidersi? Che altra assistenza si può dare a un suicida, no? Beh, suppongo che debba essere tutto il contrario.

Mi sembra di sì.

Che cosa strana che i cattolici condannino il suicidio quando lo stesso Gesù Cristo fu un suicida. Una religione al cui vertice vi è un suicida – e tale suicida, per di più, è Dio – e che condanna il suicidio. Perché, si capisce che il sacrificio di Gesù fu volontario, vale a dire, che fu un suicidio. è molto strano, i cattolici condannano il suicidio e io non riesco a spiegarmi perché. Ma, beh, vi dico: se Gesù si suicidò secondo voi…

E non è spiegata da nessuna parte questa contraddizione?

No, non credo. Vale a dire: la loro versione è questa: secondo loro, Gesù era Dio, la seconda persona della Trinità, e uomo. E fu la parte umana quella che oppose resistenza. Per questo Cristo poté dire (ieri sera ne stavo parlando con un mio amico): “Dio, perché mi hai abbandonato?”; ma quella era la Sua parte umana. Questa è l’interpretazione che ne viene fornita, ma non è molto soddisfacente. Lì, ciò che uno pensa è che anzi tutto Lui credeva che Dio lo avrebbe salvato; quando si vide condannato, quando vide che Dio non lo aveva salvato, si sentì tradito da Dio. O almeno credo che questo sia il ragionamento corretto, perché la teoria mi sembra falsa. Se Lui era venuto per essere crocifisso, se Lui si era fatto uomo, se Lui aveva acconsentito a incarnarsi, per essere crocifisso, perché, secondo i teologi, protestò quando si compì quel destino per il quale Lui era nato? Tutto ciò che io le dico, se lei vuole pubblicarlo, lo pubblichi. Sicuramente sarà diverso da ciò che dicono gli altri, ma è meglio così. Se tutti diciamo la stessa cosa non ha senso.

Lei ha detto molte volte di desiderare l’oblio. Non crede che esista una contraddizione tra questo desiderio e l’esercizio della letteratura? La letteratura non implica la volontà di restare, e con l’immagine più fedele possibile?

Sì, ma io vorrei che venisse dimenticata la mia biografia, e il mio nome, e che venisse ricordato qualche mio racconto o qualche mio verso. Vorrei sopravvivere nelle mie opere, ma non, diciamo, come soggetto di un lemma in una enciclopedia. Per esempio, io ho scritto milongas e la mia ambizione era che quelle milongas fossero famose e non si scoprisse il nome dell’autore. Ma non ci sono riuscito. No, no, io sono convinto che uno, quando scrive, ha la speranza che l’opera sopravviva. Ma, se può sopravvivere nell’anonimato, meglio; se può far parte del linguaggio o della tradizione, ancora meglio.

(traduzione italiana di Marianna Marchi e di Mercedes Ariza)

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