Parigi, 1 dicembre 2018, esterno giorno. Cosa vuoi dire di fronte a una fotografia del genere? Pensi a Guy Debord e La società dello spettacolo e hai detto tutto. Come quando da ragazzo sentivi in sottofondo Killing an arab dei Cure e te la cavavi egregiamente scomodando a mal partito Albert Camus. Senza nemmeno stare a scomodare i situazionisti, il Maggio ’68, l’immaginazione al potere, il salto nel buio, la perdita dell’innocenza, le promesse e i tradimenti, il rossetto selvaggio del sangue. Si viaggia su schemi consolidati, di fronte al nulla. Lo riempi dei significati che lui rifugge, riducendosi volontariamente a stereotipo accettato e accettabile, conformismo da unghie tagliate per non rovinare la delicata tela dell’oggi. Anzi, giochi d’anticipo sulla sua iconoclastia inconsapevole di fronte alla Storia e la osservi. Guardi il mondo che, a sua volta, guarda la rivolta che lo attraversa con lo stupore adolescenziale e mortificante di un incontro occasionale con un vip, chiedi un autografo alla rivolta, tanto per poter dire al bar che un giorno l’hai conosciuta. E ti ha sorriso. Cosa c’è di più borghese, anestetizzante, narcolettico e al tempo stesso intimamente eccitante nell’oscurantismo da chat privata dello scattare una foto alla rivoluzione, riducendola a brindisi di Capodanno? E attenzione, una foto, non un selfie: perché io con questi pazzi criminali non voglio averci a che fare! E non importa che quella in corso a Parigi non sia una rivoluzione in senso pieno e nobile, che non esista consapevolezza di classe o dimensione di massa, coinvolgimento inter-generazionale o ebbrezza da impegno politico, intesa come pienezza motivante nella sua accezione baudeleriana: se Parigi brucia e tu la fotografi bruciare, sorridendo, c’è qualcosa di interrotto nel filo del dialogo. Qualcosa è entrato in coma. E non tanto e non solo per la dimensione alienante da disimpegno strutturale di quella postura, figlia di una stupidità ontologica prima che della volontaria e mediocre volontà di seguire il primo comandamento del vivere tranquillo. Si sente l’odore della paura nell’aria. E ha radice lontana, come cibo andato a male ma identica provenienza. Parigi, 13 novembre 2015. Puzza di merda e di repressione ma assume nuance di vetyver e sandalo al naso gocciolante di insicurezza di chi vuole solo che arrivi la sera. L’olfatto della sopravvivenza e del quieto vivere. Perché l’immagine frutto non del talento e dell’attimo ma di quel nulla ingentilito dal sorriso ilare di chi si gode il film in proiezione, finirà in pasto a una platea di altrettanti voyeuristi da gita allo zoo, riducendo una molotov che esplode a terra, zampillando energia che scorre sotto l’epidermide dell’asfalto, in un fuoco d’artificio con cui salutare Capodanno o Ferragosto. O il santo patrono, cui non credi ma che è meglio tenersi buono, come l’immaginetta della Madonna nel portafoglio, accanto ai soldi e alla carta di credito. Solo, un po’ più molesto ma anche terribilmente engagé, come soggetto da fotografare.
Chi siano e cosa vogliano, in realtà, gli ormai mitologici ‘Gilet gialli’ è materia che toccherà trattare più avanti. Donald Trump li ama, lo ha scritto su Twitter, letale e beffardo, al suo ex amico Emmanuel Macron. Potrebbe bastare ma non basta. Anzi, rimesta nel torbido dell’indifferenziato di questi tempi da eversori con partita IVA e rivoluzionari da start-up. Chi sono stati, lo si capirà davvero quando non servirà più capirlo. Cioè quando saranno spariti e rientrati nell’alveo del situazionismo cialtrone e 2.0 esploso con la protesta di Seattle, derivazione di mille rivoli di protesta che trova l’unico filo conduttore nel guazzabuglio dadaistada, da schizofrenica ricerca di parole d’ordine infilate alla rinfusa su Google, senza senso, né costrutto: il prefisso anti, è l’unica certezza, la kora plasmata dal demiurgo millenarista che sancito la fine dell’ideologia. Quella, è la linea di condotta. Poi, a seguire, come spruzzi di colore su un muro appena ritinteggiato, a guisa di dispetto infantile più che di eversione artistica, ecco comparire i mantra: globalizzazione, mondialismo, turbocapitalismo, imperialismo. E fascismo, il buon, vecchio, caro fascismo. Ridotto ormai a patetica controfigura di se stesso, senza nemmeno più il fascino del Male delle squadracce di picchiatori in allerta o i bombaroli dello stragismo da svolta autoritaria, depositari di borse per conto terzi e a sfregio del cambiamento. Ma poi, chissenefrega di chi sono i ‘Gilet gialli’, chissenefrega della loro lotta contro il caro-carburante! E chissenefrega se, come un novello dottor Frankenstein, l’apparato di potere francese si è visto sfuggire vagamente di mano il proprio ennesimo giocattolo da rincorsa demoscopica, il proprio salvagente da sondaggio, la propria zattera da consenso popolare: nel primo sabato di scontri a Parigi, quello di fine novembre, i manifestanti erano in tutto 8mila su 126mila in tutto il Paese. Poliziotti e gendarmi, in totale, erano oltre 5mila nella sola Capitale. Al netto della capacità di eccellere nella nobile arte della guerriglia urbana, otto ore di scontri, violenze e devastazioni sugli Champs Elysée, in tali condizioni, sono spiegabili solo con la volontà del sistema che questi si compiessero. E nel modo più fragoroso, prolungato, orgasmico e mediatico possibile.
Il sabato dopo, stessa dinamica ma numeri aumentati. Da una parte e dell’altra. Questo sabato, si attendono 140mila persone in piazza e con bersaglio grosso della manifestazione nientemeno che la Bastaglia: siore e siori, si picchia duro sull’immaginario collettivo, si gettano bistecche sanguinanti nella vasca del pensiero unico e nella fogna a reti unificate di quello debole, a guisa di scoreggia in ascensore nel rassicurante torpore da talk-show! Sull’altra sponda, lo Stato risponderà con circa 80mila uomini. Il tutto, dopo l’abile mossa dell’Eliseo, abile quanto rischiosa: concedere ai manifestanti ciò che volevano, ancorché sotto forma di sospensione per sei mesi del provvedimento che comportava l’aumento del prezzo dei carburanti. La piazza, le piazze, le varie anime – colorate e nere, cavalieri del caos e soldati di ventura, Don Chiosciotte e capri espiatori – hanno opposto il loro no: o si ritira il provvedimento o la lotta andrà avanti. A oltranza. Ce n’est qu’un debut continuons le combat! Sabato, tutti in piazza. E quale sarà, se tutto procederà secondo questo schema, l’epilogo più che probabile? Scontri. Sempre più violenti, mediatici, meccanici, distruttivi in senso hollywoodiano. E sempre più nel cuore non tanto della Ville lumiere ma della stessa Republique, nel suo luogo simbolo di rivolta e vendetta, sangue e giustizia, diritto e abuso, patibolo e rivalsa. La Bastiglia. A quel punto e solo a quel punto, con il sorriso dell’esercito di divertiti fotografi della rivolta tramutato in muta smorfia di disapprovazione e indignazione, il sistema, lo Stato, la legge, proclameranno ciò che si è strategicamente evitato di proclamare nelle riunioni post-violenze, facendolo solo presagire come extrema ratio pronta all’uso: lo stato di emergenza, esattamente come dopo la strage del Bataclan. In quel caso, durato poi tre anni. E con poteri all’Eliseo praticamente di vita e di morte sulla società e i cittadini, sui fotografi della rivolta come sui lanciatori di molotov, sui poliziotti in antisommossa come sui ‘Gilet gialli’. Come in Turchia. Come in Ucraina. Magari in sedicesimi, per carità. Ma nel cuore d’Europa e con una differenza sottile ma tagliente come uno stiletto: la gente tornerà a sorridere e scattare fotografie e selfie, seduta in un fast-food con in mano uno smartphone e non in un bistrot con in mano un libro. O la mano dell’amato/a. E si sentirà di nuovo tranquilla, al sicuro, protetta. Come dopo il Bataclan. È la società del Babau di Dino Buzzati, dell’uomo nero permanente, dello stato d’assedio dell’anima prima che delle strade. Lo Stato, il sistema, avrà compiuto il suo capolavoro in potenza, pur essendo debole come non mai, se guardato attraverso la lente d’ingrandimento politicamente vincolante e qualificante del consenso da sondaggio.
Quella fotografia, se guardata attraverso lo spettro di rifrazione di una società ormai disarticolata nell’anima prima che nei corpi di intermediazione politica e sociale, potrebbe intitolarsi “Parigi, in attesa della legge”. Sembra il finale di 1984, si sente il bagnaticcio delle lacrime puzzolenti di Gin della Vittoria, si percepisce il melenso ma stantio odore della sicurezza, il rassicurante olezzo del salotto di casa, fra cera per pavimenti e deodoranti che promettono boschi alpini, quando la porta è sbarrata e il Male costretto sul pianerottolo. Ma è solo la realtà. La gente è divertita dalla rivolta, ama fotografare la rivolta ma esattamente come si fotografa un leone durante un safari: ciò che vuole è il brivido dell’esotico piccolo-borghese ma, in quanto tale, garantito da jeep rinforzate e guardie armate, meglio se con del filo spinato a portata di mano. Vuole fotografare lo sfondo della propria miseria, così come cambia wallpaper al computer di casa per scappare da quella pace che tanto agogna: un giorno un ghiacciaio dell’Alaska, un giorno una spiaggia tropicale, un giorno la romantica capitale europea, un altro ancora i grattacieli di New York. Tutto traslato, tutto in prospettiva di vita non vissuta ma percepita, raccontata, filtrata, immaginata in base a stereotipi e figure retoriche, codici e simbologie da prontuario del saper vivere. E che Raoul Vaneigem mi perdoni.
Quella foto rappresenta plasticamente, cristallizzandone la tragica drammaticità con lo stemperante chiarore di un sorriso vacuo, il fallimento di ogni possibile fil rouge millantato o falsamente dipanato finora, è il ritratto di una fine della Storia che non supera le categorie del Novecento avendole interiorizzate con la critica ma attraverso il principio distruttivo del napalm del benessere, capace di radere al suolo, estirpare ogni radicalità in nuce. Siamo vittime del pogrom del credito al consumo e degli acquisti a rate, martiri del finanziamento, San Sebastiano della rottamazione. Tornano in mente, in tal senso, le parole di Ulrike Meinhof: “Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi, diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si bruciano centinaia di macchine, diventa un’azione politica. La protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace, non succeda più”. Quanti sassi sono stati lanciati a Parigi, in favore di videocamere dei mille smartphones in azione tra le mani di altrettante annoiate ma sorridenti spettatrici della rivoluzione, comodamente sedute al caldo di un Burger King puzzolente di consumismo e falsa cordialità? Quante macchine sono state bruciate? Non uno di quei sassi, non una di quelle auto in fiamme ha rappresentato un atto politico. Nessuno ha voluto dire che quell’azione significava la mia radicale non accettazione del riproporsi quotidiano, schematico e socialmente accettato (se non, addirittura, benvenuto) di un qualcosa che non mi piace, sia esso il diesel più caro come il lavoro sfruttato o sottopagato o la mercificazione dell’intero processo di sviluppo della società moderna. Erano semplicemente atti di teppismo, sfogo estemporaneo – infantile e borghese, bullesco e belligerante nella sua connotazione da vendetta del Rambo urbano e rurale, uniti nell’entropia di una lotta pret-a-porter – a una tranquillizzante condizione di accettazione docile del proprio destino, quasi il voler comunque trovare a forza qualcosa di divertente in una festa che invece ha tradito ogni nostra aspettativa. E speranza. La stessa ritualità della protesta, la rivoluzione a puntate come un reality show o una serie televisiva su Netflix, appare degna del profilo di un appuntamento organizzato alla cieca su Facebook, agorà virtuale e telefono amico di ogni potenziale suicida che cerchi il succedaneo di una vita: sabato che si fa? Guerriglia urbana, vi va? Quanti saremo? Qualcuno la compie, qualcuno la osserva, qualcuno la fotografa, qualcuno la critica. Tutti ne parlano. Garantendo al sistema nel suo complesso infiniti rivoli di distorsione nell’utilizzo strumentale di quell’argomento catalizzante, con cui poi irrigare i canali di scolo del pensiero unico attraverso media incapaci e compiacenti e social network divenuti panopticon distopici di massa.
La rivoluzione, ormai, è virtuale. È atto più simbolico che pratico e, soprattutto, scelta individuale e individualista che deve rifuggere, per sopravvivere a rafforzarsi, la dimensione di massa, l’aggregazione, il pubblico. È il ribelle evoliano che incontra, per sbaglio, un Cipputi qualunque che si è rotto prosaicamente i coglioni. Il perfetto guerrigliero. È il privato l’avanguardia della rivolta, l’agire quotidiano al di fuori degli schemi preordinati, culturali e sociali prima ancora che legalitari ed economici. Il non riconoscimento, sic et simpliciter, dell’esistente in quanto tale. Dove ieri occorreva lottare per cambiare, oggi occorre caricare a indifferenza la pistola dell’alterità. Perché la compiacente e compiaciuta solitudine di chi scatta la fotografia allo scimpanzè in gabbia della rivoluzione 2.0 può essere combattuta soltanto dalla determinata consapevolezza di chi ne nega legittimità e valore. Persino, appunto, la stessa esistenza. Negando così, alla base, anche il contesto sociale in cui si conforma e si colloca, pasolinianamente parlando. Non servono auto bruciate, né sassi lanciati: occorre spegnere tutto. E invocare la rivolta del silenzio, dove parla soltanto chi non teme il giudizio. Elitarismo? Ebbene sì.
Mauro Bottarelli