29 Novembre 2020

Ejzenstejn e il Giappone. Ovvero: come il kanji, l’haiku e il kabuki hanno influenzato il cinema occidentale

“Il Giappone è un paese la cui cultura possiede una quantità infinita di elementi cinematografici, distribuiti un po’ dovunque con la sola eccezione… del cinema” (S.M. Ejzenstejn, “Fuori campo”, a cura di Pietro Montani, Marsilio, 1986)

Il cinema deve al Giappone molto più di quello che comunemente si pensa. In un’epoca (gli anni Venti) in cui il cinema era un’arte nuova e perciò ancora “grezza”, lo sguardo trasversale di Ejzenstejn, cantore della rivoluzione bolscevica nonché uno dei massimi innovatori della teoria cinematografica, riuscì a catturare ciò che di cinematografico vi era non solo in un’altra forma d’arte, il teatro, ma più estesamente in una cultura percepita come radicalmente diversa da quella europea: la cultura giapponese. La lungimiranza dell’occhio di Ejzenstejn gli consentì di individuare degli elementi da lui definiti come embrionalmente cinematografici disseminati nella cultura giapponese, da lui “scardinati” dal campo di appartenenza a cui rimanevano tradizionalmente confinati (la scrittura ideografica, la poesia, il teatro, l’arte ukiyo-e, ecc.) per poter essere ricontestualizzati e reinventati all’interno dell’arte cinematografica. I suoi studi pionieristici furono cruciali per la sperimentazione delle potenzialità espressive del cinema, nella quale Ejzenstejn il mezzo ideale per la realizzazione dell’opera d’arte totale a cui mirava e che già si era concretizzata, seppur parzialmente, nel teatro kabuki.

IL “PRINCIPIO DEL GEROGLIFICO”

Ejzenstejn individuò nel “geroglifico” (dove per “geroglifico” si intende il kanji, ovvero il sistema di scrittura ideografica di origine cinese utilizzato in Giappone) il principio fondante e creativo non solo del montaggio, ma del cinema. Secondo il regista, il criterio di composizione del kanji infatti seguiva una logica conflittuale, in cui due elementi, scontrandosi, generavano un significato nuovo. Prendiamo l’esempio del kanji per esprimere il verbo naku鳴く(“cinguettare”) composto a sua volta da due kanji: kuchi 口 (“bocca”) e tori 鳥(“uccello”): lo scontro fra due elementi concreti, bocca e uccello, danno origine a un concetto astratto, ovvero l’atto del cinguettare. Ejzenstejn segue lo stesso principio per teorizzare quello da lui definito il montaggio intellettuale: esemplare è la scena di Ottobre (1927) in cui Kerenskij si reca dallo zar per essere eletto primo ministro. Mentre sale le scale, si alternano le immagini di una statua che tiene in mano una corona d’alloro e quella di un pavone: questi due elementi extra-diegetici diventano funzionali al racconto cinematografico proprio grazie al montaggio, che li correla semanticamente alla figura di Kerenskij per connotare i suoi sentimenti in quel momento. Il pavone e l’alloro, che se sradicati dal montaggio sarebbero solo immagini, diventano testo e passano a connotare i sentimenti di Kerenskij in quel momento: il pavone infatti rappresenta la sua vanità, e l’alloro l’aspettativa del premio.

L’INQUADRATURA IN DETTAGLIO: L’ARTE UKIYO-E

Il principio del geroglifico (ovvero il principio del conflitto) interessa non solo il montaggio delle immagini, ma la loro stessa inquadratura in quanto conflitto ottico tra taglio dell’inquadratura e oggetto, ovvero tra volontà organizzatrice dell’artista e inerzia del paesaggio. Questo concetto viene individuato da Ejzenstejn ancora una volta nella cultura giapponese, e nello specifico nell’arte ukiyo-e. Ejzenstejn osserva che se l’arte occidentale è caratterizzata dal concetto di veduta, dove l’artista ritrae tutto ciò che rientra nel suo campo visivo senza curarsi dei margini, l’artista giapponese lo “ritaglia” in una cornice, come fossero delle inquadrature in dettaglio cinematografiche.

Similmente, una delle tecniche recitative canonizzate nel kabuki è quella definita da Ejzenstejn “recitazione spezzata”, dove ogni singola parte del corpo “recita” autonomamente, catalizzando l’attenzione dello spettatore su un dettaglio alla volta per esasperare la gestualità in momenti particolarmente drammatici. Scrive Ejzenstejn commentando una scena di Il modellatore di maschere dove viene rappresentata l’agonia di una ragazza morente: “Socho, l’interprete dei principali ruoli femminili della compagnia Kabuki in tournée a Mosca, rappresentava la parte di una ragazza morente […] in spezzoni di recitazione completamente indipendenti l’uno dall’altro. La recitazione della mano destra. La recitazione di una gamba. La recitazione del collo e della testa. Tutto il processo dell’agonia che generalmente precede la morte veniva scomposto in singole interpretazioni di ciascun ‘membro’ separatamente; la parte delle gambe, la parte delle mani, la parte della testa. Insomma: un’autentica partizione in singoli ‘piani’ che si succedevano via via più brevi a causa dell’avvicinarsi della tragica fine: la morte”.

Questa tecnica recitativa ottiene gli stessi effetti dell’inquadratura in dettaglio cinematografica, a cui Ejzenstejn ricorre più volte per ottenere una precisa risposta emotiva da parte dello spettatore. Esemplare è la scena di Ottobre prima citata, quando Kerenskij è davanti alla porta delle camere dello zar in attesa di essere ricevuto: l’obiettivo difatti è comunicare il suo nervosismo e la sua trepidazione enucleando con l’obiettivo della macchina da presa una serie di dettagli eloquenti, come la mano che stringe un guanto e il piede che batte a terra. Anche in questo caso riscontriamo il “principio del geroglifico”, ovvero il conflitto: lo scontro, il prodotto fra più inquadrature oggettive e concrete danno origine a un concetto astratto, intellettuale, ovvero rappresentare un sentimento (la trepidazione).

LA DEFORMAZIONE

Ejzenstejn individua come uno dei caratteri identificativi dell’arte giapponese il ricorso alla sintesi e alla stilizzazione come espediente espressivo e drammatico, a differenza dell’arte europea che ricorre al contrario alla mimesis, ovvero alla riproduzione fedele e naturalistica del reale. Ciò è particolarmente evidente nel caso del celebre artista ukiyo-e Sharaku.

Stilizzazione che comporta una ovvia deformazione nelle proporzioni, al fine di catturare “l’essenza” del soggetto rappresentato nel modo più “laconico” possibile. Questa economia espressiva, secondo Ejzenstejn, è al contrario ancora più eloquente ed efficace nel suo compito di trasmettere un’emozione allo spettatore più di qualsiasi rappresentazione naturalistica. (Questa convinzione di Ejzenstejn gli costerà l’avversione delle autorità sovietiche, che al contrario avevano eletto a regime rappresentativo del regime una rappresentazione il più possibile verosimile e naturalistica della realtà, aborrendo e condannando ogni forma di rappresentazione che se ne discostasse, additata come perversa).Tale deformazione si estende anche all’arte teatrale, in particolare nel kabuki, innanzitutto nelle scenografie. Fiumi, alberi, monti e città sono solo accennate con colori netti e linee grafiche, che evocano una suggestione di paesaggio piuttosto che rappresentarlo fotorealisticamente.

Ma Ejzenstejn ritrova il ricorso alla deformazione anche nella tecnica recitativa, per la precisione nel cosiddetto passo scenico. Tre passi e un lungo passo indietro; di nuovo tre in avanti e uno, pari a due in lunghezza, indietro. A ritmo sempre crescente. Con sempre crescente intensità. E la «via dei doni» [shichi-san], piuttosto corta date le condizioni dell’ex-teatro Nezlobin, sembrava allungarsi, mentre il breve tragitto dell’attore assumeva l’aspetto di un avvenimento di enorme portata” (S.M. Ejzenstejn, La regia, a cura di Pietro Montani, Venezia, Marsilio, 1989).

Qui la deformazione passa da essere meramente sincronica (come nella ritrattistica ukiyo-e) a diacronica, poiché abbraccia anche la dimensione temporale oltre a quella simultanea e ottica. In Il ritorno del soldato dal fronte, Ejzenstejn osserva come questo particolare tipo di passo, che torna indietro per poi andare avanti, rallenta l’azione ma al contempo ne esalta la crucialità a livello drammatico in una sorta di slow motion ante litteram. Ejzenstejn traduce questo espediente teatrale nel linguaggio cinematografico reiterando la stessa scena più volte, di modo da dilatare il tempo scenico in funzione drammatica. In La corazzata Potёmkin (1925), nella celebre scena della scalinata di Odessa dove le truppe dello zar sparano sulla folla indifesa, la discesa dei soldati viene reiterata più volte e inframezzata dagli intensi primi piani di una madre disperata nel vedere la morte del figlio per mano loro. In questo modo, una scena che realisticamente potrebbe durare fra i due e i tre minuti, si dilata col preciso intento di alimentare il pathos e il climax del tragico momento. La deformazione del flusso temporale, inoltre, si integra con la deformazione ottica che abbiamo prima citato: se le truppe dello zar infatti sono inquadrate con campi lunghi e medi, e per un maggior effetto spersonalizzante vengono spesso inquadrati dalle ginocchia in giù (senza mai mostrare il volto) ad indicare la loro robotica e disumana obbedienza agli ordini, in contrasto il popolo in rivolta viene inquadrato in intensi primi piani, quasi deformati dalla macchina da presa, come il volto scomposto e devastato dal dolore della madre che campeggia sullo schermo in dimensioni irrealisticamente maggiori rispetto a quelle con cui vengono ripresi i soldati, assurgendo così a punto focale della scena.

IL MONISMO DELL’INSIEME: UDIRE IL MOVIMENTO E VEDERE IL SUONO

In L’inatteso Ejzenstejn racconta la sua fascinazione nel constatare come nella cultura giapponese la sensorialità non sia rigidamente incasellata come nella “cultura occidentale”, ma come sia un concetto molto più fluido, sinestetico. A tal proposito cita lo haiku di Yamei:

Odi! La voce di un fagiano
ha inghiottito il campo silenzioso in un sol fiato

Allo stesso modo, nel kabuki esiste un legame simbiotico fra suono, movimento, spazio e voce, trattati come “elementi ugualmente significativi”, senza che vi sia una gerarchia da rispettare, e non come elementi di accompagnamento. Ejzenstejn osserva meravigliato come per i giapponesi il teatro sia un’esperienza sensoriale totale: la struttura stessa dell’edificio teatrale ne è la prova. Mentre nel teatro europeo lo spazio per l’orchestra è segregato tra palco e pubblico, occupando dunque una posizione secondaria, nel kabuki i suonatori, i narratori e i musicisti si trovano sul palco principale o su quello girevole, non devono essere celati per dare impressione di verosimiglianza: la finzione è dichiarata. Il risultato è un’esperienza sinestetica e multisensoriale, dove “udiamo il movimento” e “vediamo il suono”, nella quale non ha più senso distinguere fra elementi diegetici ed extra-diegetici.

Susanna Roffredi

Gruppo MAGOG