20 Febbraio 2024

“È questo il modo in cui finisce il mondo”. Apoteosi degli “uomini vuoti” di T.S. Eliot

Dalla poesia alla profezia, si sa, il balzo è breve. Certi poeti, e sono quelli che prediligo, non declinano il loro tempo al presente, si affidano, invece, alla visione sottile, al mistero, compiendo in tal modo una trasfigurazione del fenomenico. Per dirla alla maniera di Shelley, colgono il presente e in esso accolgono il futuro. Per dirla con parole mie, hanno il pregio di tracciare paradigmi antropologici che conservano tutta la loro tensione simbolica nei secoli.

Ecco, T.S. Eliot era uno di questi poeti. Prima della sua conversione nel 1927 alla religione anglicana, la critica alla crisi della civiltà borghese, grumo di stereotipi ciondolanti sul vuoto, fu per lui ossessione tematica, sin da Prufrock and other observations, per poi affilarsi e dilatarsi in The waste land. Ma, dopo aver narrato nel suo più celebre poema i guasti e le devastazioni del suo tempo, Eliot sentì il bisogno di dare compimento alla figura degli uomini vuoti, gli inerti residui umani della Prima guerra mondiale, di cui aveva soltanto bordeggiato l’esistenza nell’ultima stanza della prima sezione di The waste land. Figure in filigrana nella sua più celebre opera, gli uomini vuoti prendono la parola e s’impossessano della scena nell’omonimo poemetto in cinque sezioni (The hallow men il titolo originale), composto da Eliot fra il 1923 e il 1925, in un periodo in cui, a causa di un esaurimento nervoso, si trovava in congedo dal lavoro. La poesia, che potrebbe essere un’appendice di The waste land, debutta con un esergo eloquente: “Mistah Kurtz – è morto” (per l’aneddotica: l’epigrafe di The waste land doveva essere l’urlo finale di Kurtz, ma Pound non amava Conrad, per questo Eliot rinunciò alla citazione, salvo poi infilarla qui in barba a Ezra[1]). E con Kurtz è morto il suo urlo, lo spettro dell’orrore che fa sanguinare i timpani, e il corpo tutto, in un impeto tragico di vita. Perché nel regno degli uomini vuoti, dopo la fine del primo conflitto mondiale, non esistono più nemmeno l’orrore e la tenebra.

Non siamo all’inferno, siamo, ancora una volta, in una terra mortificata, nutrita dal degrado, definitivamente prosciugata, ed è su di essa che si muovono – anzi si ammassano – gli uomini vuoti, un secolo fa come oggi, orfani d’identità, inetti, le teste piene di paglia. La paglia, certo, che è secca, inconsistente, volatile, ed è il correlativo della nostra decadenza culturale, del vuoto di pensiero che, dai tempi di Eliot a oggi, non ha fatto che mineralizzarsi nello smarrimento generale. La paglia, peraltro, è posticcia, come la cultura moderna, lastricata di stereotipi, inetta alla critica, alla libertà di pensiero. Gli uomini vuoti, allora come ora, non hanno nemmeno la forza di stare in piedi da soli, per questo s’appoggiano l’un l’altro. Ma la folla non fomenta l’empatia, sostiene invece il vuoto, ne alimenta la voragine, l’usura.

E la vacuità, che paradossalmente occupa ogni spazio dell’oggi – nostro e di Eliot – risuona delle voci mansuete e insensate di questi fantocci paglia, la cui parola è liofilizzata, apologia di insensatezza, è trapestio che stride come le zampe dei ratti su vetri rotti.

Ma eccoli gli uomini vuoti che si presentano nell’incipit, implacabile, di Eliot.

“Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini imbalsamati
Che s’appoggiano l’un l’altro
La testa piena di paglia. Ahimé!
Le nostre voci stoppose
Quando insieme mormoriamo
Sono mansuete, senza senso
Come il vento nell’erba rinsecchita
O come zampe di ratto
Sopra un vetro rotto
Nel nostro arido scantinato”

La creatura imbalsamata pare viva, ma è defunta, al pari degli uomini di questa lirica, declinati nella seconda strofa come figure informi, ombre incolori, forza immobile, gesto privo di moto. Figure che non meritano nemmeno la dannazione, figure che i morti ricordano – se lo fanno! – non come anime perdute e violente, ma soltanto come creature sconfinate oltre la soglia di ogni morale, creature che macerano nell’inedia e nel torpore. E oggi, esattamente come novantanove anni fa, quando Eliot scrisse questi versi, anche noi, fra incoscienza e negazione, epigoni dei Dormienti eraclitei o forse consanguinei degli ignavi danteschi, siamo degradati a ombre da limbo, equidistanti dai confini, irraggiungibili, di dannazione e salvezza. Nell’isola dell’individualismo, dove i codici etici sono coriandoli che si disperdono al primo refolo, siamo fuochi fatui, anzi micce guaste, praticamente inservibili. Incapaci di pensiero e ponderazione, viviamo – così pare – un interludio perenne verso non si sa cosa. Certamente non la morte, anch’essa assurta di questi tempi a pretesto per simulare afflizioni da narcisismo mediatico.

E se i morti hanno occhi dritti che sono “luce solare su una colonna infranta[2] – quella colonna, simbolo della cultura greca, che, in quanto distrutta, evoca il deterioramento culturale e spirituale della società moderna – noi, gli uomini vuoti, non abbiamo il coraggio di affrontare il loro sguardo, poiché ne saremmo giudicati (“Occhi che in sogno non oso incontrare / Nel regno di sogno della morte[3]).

Il nostro sguardo è smarrito. La gittata del desiderio si arresta alla soglia del bisogno materiale, quello che spinge il ratto a intrufolarsi dove può trovare soddisfazione alla fame. E come ratti senza occhi ci muoviamo su un territorio ostile nella sterilità, sui resti di un mondo che non è più ideale, e forse nemmeno idea. Ma ecco l’attacco, tragico, della quarta sezione del poemetto, nitidissimo nel chiasmo:

“Gli occhi non sono qui
Qui non vi sono occhi
In questa valle di stelle morenti
In questa valle vuota
Mascella spezzata dei nostri regni perduti”

Il nostro mondo è una mascella spezzata. Il correlativo è micidiale, inequivocabile. Eliot si trovava in Europa durante la Prima guerra ed essa impresse il suo pensiero di tragicità e disillusione. L’indomani del conflitto, era convinto che la società del suo tempo fosse una entità frantumata in maniera irrecuperabile; le stelle morenti testimoniano la sparizione graduale della speranza. Nulla di diverso oggi, se non il fatto che la guerra ha assunto i tratti di una belligeranza diffusa e capillare alla quale siamo assuefatti, come lo siamo, che so, alla caffeina. D’altronde, la vacuità del pensiero non può che generare giudizi sommari e false indignazioni da parata.

Ma procediamo, facendo qualche passo indietro, verso la seconda sezione, in cui è uno degli uomini vuoti a prendere la parola:

“Non lasciate che io mi avvicini
nel regno di sogno della morte
Lasciatemi indossare
Travestimenti ricercati
Pelliccia di topo, piume di corvo, assi incrociate
Comportandomi, in un campo,
come si comporta il vento”

Nella desolazione di allora, come in quella odierna, gli uomini sono sradicati, mutevoli nell’opinione e nel comportamento, ma inalterabili nel narcisismo, e si travestono, perché hanno paura, paura di quell’”Incontro finale / nel regno del crepuscolo[4], che è, in realtà, la sola speranza di salvezza.

E quale fede, quale amore, possono sperimentare gli uomini vuoti, se non la fede e l’amore verso i falsi dèi? Eliot ce lo dice nella terza sezione del poemetto:

“Nell’ora in cui tremiamo
Di tenerezza

Labbra che vorrebbero baciare
Inneggiano a una pietra spezzata”

L’amore preme sul volto della nostra inedia emotiva, vuole sconvolgerne i tratti col tremito, ma non sappiamo più accoglierlo. Così la fede, un tempo fortezza dello spirito, oggi è impeto volatile verso idoli mediatici (“la pietra spezzata”) che esaltiamo e abbattiamo con un click. E allora, in questa valle vuota e morta (“La terra dei cactus[5]), “Brancoliamo assieme / Evitiamo di parlare / Ammassati sulla riva di questo fiume ingrossato[6]. Chissà se il fiume cui si riferiva Eliot – dedito a saturare i suoi versi di allusioni criptiche – era lo Stige dantesco, nel quale gorgogliano gli accidiosi, o l’Acheronte, il tratto destinato alla transizione, oppure ancora l’infernale fiume Congo, quella “corrente bruna [che] scendeva rapidamente dal cuore della tenebra, portandoci verso il mare a una velocità doppia di quella con cui l’avevamo risalita”[7]. Non occorre una riposta, occorre perdersi nei labrinti infernali dei rimandi eliotiani.

Prima dell’epilogo, Eliot sembra però raccogliere un alito di speranza, quando immagina che negli uomini vuoti ricompaiano gli occhi e se li prefigura “Come la stella perpetua / Rosa multifoglia / Del regno crepuscolo della morte.”[8] E di nuovo l’immaginario di Dante si svela a noi, stratificato, come la candida rosa che allude al Paradiso della Commedia. Dunque, è il cielo, l’altro regno, la sola speranza degli uomini vuoti, la nostra? È la stella perpetua il riscatto che ci restituisce gli occhi? Per trovare una risposta occorre avventurarsi nella quinta e ultima sezione del poemetto, esaltante commistione di facezia, filosofia e preghiera.

Ed è proprio nel finale che Eliot cambia registro e intonazione. La narrazione si fa frammentaria, convulsa; il poeta accorcia il verso – tutto il componimento è polimetrico – che si fa sincopato, come se l’alito di speranza poco prima suggerito fosse sul punto di spezzarsi, ingoiato dal vuoto, cui nemmeno la preghiera può far fronte. Perché nell’esistenza esangue e grottesca degli uomini vuoti la preghiera si tramuta in filastrocca (“Qui noi giriamo attorno al fico d’India / Fico d’india fico d’India / Qui noi giriamo attorno al fico d’India / Alle cinque del mattino[9]), oppure si spezzetta e trasfigura in balbettio (“Perché Tuo è / La vita è / Perché Tuo è il[10]).

C’è qualcosa, ci dice il poeta, che fa da ostacolo alla salvezza, qualcosa che si interpone fra l’idea e la realtà, fra il gesto e l’atto, fra il concepimento e la creazione, fra l’emozione e la riposta. Qualcosa che cade (questo il verbo suggestivo utilizzato da Eliot) fra il desiderio e lo spasimo, fra la potenza e l’esistenza, fra l’essenza e la discendenza. Ed è l’ombra. L’ombra amorfa e incolore della seconda strofa della prima sezione del poema, l’ombra che è il testimone di un’esistenza (io sono anche perché proietto un’ombra) altrettanto amorfa e incolore. Eliot trasceglie un correlativo sofisticato e ambiguo, poiché l’ombra potrebbe anche essere il lato oscuro, ma invero non può esserlo, non per gli uomini vuoti. Il male, infatti, primeggia per nitore, l’ombra dell’uomo vuoto, invece, s’accascia, sfocata, informe, su una catasta d’ombre di identica natura. Noi uomini vuoti, dunque, siamo ombre pietrificate in un interludio, sulla soglia di due regni che non ci appartengono: quello dei vivi, perché vivi non siamo di certo, quello dei morti, perché morti non lo siamo nemmeno, se non spiritualmente.

È una sorta di lamento funebre questo poema, intessuto con varietà di registri e intonazioni, e ha un ritmo corale che accompagna e accentua l’idea della desolazione. L’ordito svela la compresenza di presente, passato e futuro, in cui le antinomie appaiono riconciliate attraverso il simbolo, l’arcinoto correlativo oggettivo teorizzato da Eliot. Se in The waste land, i rimandi mimetici traducono l’avversione del poeta verso una poesia che susciti una reazione emotiva diretta[11], nel poemetto Gli uomini vuoti, ci pare che, attraverso gli accenti, il tono e il ritmo a tratti sincopato – sino alla balbuzie della preghiera finale, quasi un controcanto – il poeta voglia sconfiggere l’abulia e resuscitare proprio l’emozione. E lo fa, magistralmente, con una sciabolata conclusiva:

“È questo il modo in cui finisce il mondo
È questo il modo in cui finisce il mondo
È questo il modo in cui finisce il mondo
Non già con uno schianto, ma con un piagnisteo”

Non può che finire così: in un deserto in cui il solo fiume rimasto non è ristoro, ma transito d’espiazione, tra mormorii insensati, cecità, pietre in frantumi, barcollamenti e stelle che si spengono, noi uomini vuoti non facciamo che nascere e crepare in un piagnisteo. Un piagnisteo. Perfetta la scelta di Roberto Sanesi di tradurre in questo modo il sostantivo whimper – scelta che ho voluto preservare nella mia traduzione di seguito riportata – in luogo dei sostantivi (forse più raffinati) lamento, gemito; ma d’altronde, il piagnisteo presuppone una insistenza che lo tramuta in lamentazione, e soprattutto un’uggia, come quella che permea il deserto nel quale noi, uomini vuoti, iberniamo ormai in ogni stagione.

Ci vorrebbe davvero un fuoco nella neve, il segreto di chi sa ancora bruciare in tutto questo gelo.

***

GLI UOMINI VUOTI

Mistah Kurtz – è morto

Gli uomini vuoti

Un penny per il vecchio Guy[12]

I

Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini imbalsamati
Che s’appoggiano l’un l’altro
La testa piena di paglia. Ahimé!
Le nostre voci stoppose
Quando insieme mormoriamo
Sono mansuete, senza senso
Come il vento nell’erba rinsecchita
O come zampe di ratto
Sopra un vetro rotto
Nel nostro arido scantinato.

Figura informe, ombra incolore
Forza atrofizzata, gesto privo di moto.
Coloro che han traghettato,
Con occhi dritti, verso l’Averno,
Ci ricordano – se lo fanno – non come anime
Perdute e violente, ma soltanto
Come gli uomini vuoti
Gli uomini imbalsamati.

*

II

Occhi che in sogno non oso incontrare
Nel regno di sogno della morte
Questi occhi non appaiono:
Laggiù gli occhi sono
Luce di sole su una colonna infranta
Laggiù un albero ondeggia
E voci vi sono nel canto del vento
Più distanti e più solenni
Di una stella che declina.

Non lasciate che io mi avvicini
nel regno di sogno della morte
Lasciatemi indossare
Travestimenti ricercati
Pelliccia di topo, piume di corvo, assi incrociate
Comportandomi, in un campo,
come si comporta il vento.
Non più vicino

Non quell’incontro finale
Nel regno del crepuscolo.

*

III

Questa è la terra morta
Questa è la terra dei cactus
Qui sorgono le statue di pietra
E qui ricevono la supplica
Della mano di un morto
Nel lucore di una stella che declina.

È proprio così
Nell’altro regno della morte
Svegliandoci soli
Nell’ora in cui tremiamo
Di tenerezza
Labbra che vorrebbero baciare
Inneggiano a una pietra spezzata.

*

IV

Gli occhi non sono qui
Qui non vi sono occhi
In questa valle di stelle morenti
In questa valle vuota
Mascella spezzata dei nostri regni perduti.

In quest’ultimo luogo d’incontro
Assieme brancoliamo
Evitiamo di parlare
Ammassati sulla riva di questo fiume ingrossato

Orbi, a meno che gli occhi
Non riappaiano
Come la stella perpetua
Rosa multifoglia
Del regno crepuscolo della morte
La sola speranza
Degli uomini vuoti.

*

V

Qui noi giriamo attorno al fico d’India
Fico d’india fico d’India
Qui noi giriamo attorno al fico d’India
Alle cinque del mattino.

Fra l’idea
E la realtà
Fra il gesto
E l’atto
Cade l’Ombra.

                       Perché Tuo è il Regno

Fra la concezione
E la creazione
Fra l’emozione
E il responso
Cade l’Ombra

La vita è così lunga

Fra il desiderio
E lo spasmo
Fra la potenza
E l’esistenza
Fra l’essenza
E la stirpe
Cade l’Ombra

Perché Tuo è il Regno

Perché Tuo è
La vita è
Perché Tuo è

È questo il modo in cui finisce il mondo
È questo il modo in cui finisce il mondo
È questo il modo in cui finisce il mondo
Non già con uno schianto, ma con un piagnisteo.

*Il commento e la traduzione sono di Maura Baldini


[1] Kurtz, peraltro, è descritto nel romanzo di Conrad come un uomo “vuoto fino al midollo”, il che potrebbe spiegare la scelta della citazione per il rapporto manifesto con gli uomini vuoti del poemetto.

[2] Cfr. quinto verso della prima strofa della seconda sezione.

[3] Cfr. primo e secondo verso della prima strofa della seconda sezione.

[4] Cfr. il distico finale della seconda sezione.

[5] Cfr. secondo verso della prima strofa della terza sezione.

[6] Cfr. versi 2-4, seconda strofa della quarta sezione.

[7] Joseph Conrad, Cuore di Tenebra, Mondadori, traduzione di Rossella Bernascone, pag. 217.

[8] Cfr. Versi 3-5- dell’ultima strofa della quarta sezione.

[9] Cfr. prima strofa della quinta sezione.

[10] Cfr. penultima strofa della quinta sezione.

[11] Nel saggio Tradizione e talento individuale, Eliot scrisse: “La poesia non è un modo di liberare l’emozione, ma una fuga dall’emozione; non è una espressione della propria personalità, ma una fuga dalla personalità”(Tradizione e talento individuale, in T.S. Eliot, Opere, Bompiani, a cura di Roberto Sanesi, pag. 728).

[12] Il riferimento è a Guy Fawkes, capo della “congiura delle polveri”, il quale, il 5 novembre 1605, tentò di assassinare, con un’esplosione, il re Giacomo I d’Inghilterra e i membri del Parlamento inglese. Da allora, in Inghilterra, nel giorno della ricorrenza, i ragazzi vagano recitando una filastrocca che ringrazia Dio per aver salvato il re dall’attentato, e chiedono soldi per comprare fuochi d’artificio.

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