03 Dicembre 2019

Elogio di Carlo Michelstaedter, “una specie di Cristo rovesciato” che ci intima di guardare l’oscuro

Bellissimo, atletico (“corpo agile, forte, era uno dei più intrepidi nuotatori dell’Isonzo”, ci dettaglia il sodale Gaetano Chiavacci), il volto un ovale bizantino, le labbra imbronciate, quel giorno, il 17 ottobre del 1910, litigò con la madre, pigliò la pistola e si uccise. Il fratello Gino s’era fatto fuori qualche anno prima, a New York. Poi s’era uccisa una delle sue platoniche amate, in quell’epoca in cui il ‘male di vivere’ era un modo di vivere consueto, e ci si ammazzava così, per dare più valore alla vita.

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Da tempo, prima di spararsi, a 24 anni, Carlo Michelstaedter viveva come un asceta indù: in perfetta meditazione, senza mangiare, dormendo sul pavimento bruto. Non aveva nulla da chiedere al mondo questo ragazzo ispiratissimo, che “ebbe la malattia dell’assoluto” e che fu una “specie di Cristo a rovescio”, secondo la testimonianza dell’amico, Nino Paternolli. Il giorno prima di uccidersi chiuse, con una serie di chiose, la sua tesi di laurea, La persuasione e la rettorica. Esercizio solipsistico pure quello, dacché per gli accademici, incarcerati nel loro sapere tutto retorico e bituminoso, quanto scriveva Michelstaedter era un rebus, “per loro è come arabo, non hanno vie e criteri per dire se va bene o male”.

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Alla luce della sua esistenza, conclamata a voltare le spalle al mondo così com’è, di oggi e di ieri (“Aristotele, coi suoi giochetti empirici e dogmatici, è un miserabile”), Michelstaedter fu subito proclamato santo: “la figura di Michelstaedter che si uccide perché ha paura di aver paura della morte, è solamente grandiosa, poiché suscita una grande stupefazione e pietà”. La sua opera – la tesi, le poesie che vi sorgono intorno, come commenti ancillari, le lettere – pubblicata – ovviamente, intenzionalmente – postuma, fu intesa come una rivelazione, la rivelazione di un audace che è cugino di Nietzsche e Schopenhauer, si apparentò a Vico e ai tragici greci, sentì Ibsen come un fratello (“dopo Sofocle, è l’artista che più m’è penetrato e m’ha assorbito”), che di fatto ci pare un Parmenide scagliato nell’era delle macchine e dell’allunaggio. Considerando l’età e il modo del morire – nello stesso tempo stucchevole, visto che la goccia fu una baruffa familiare, ed esemplare – c’è tutto per fare di Michelstaedter un autore ‘di culto’. In effetti, va preso proprio così.

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Creatore di un “suo stile personalissimo, non riconducibile ad altre opere precedenti o contemporanee” (Antonio Piromalli), Michelstaedter (di cui Marsilio, per firma di Sergio Campailla, ha da poco pubblicato la biografia Un’eterna giovinezza) non accetta lettori, pretende accoliti. Il testo capitale – La persuasione e la rettorica – per dire, è scritto come un Vangelo apocrifo, va letto per carpire il segreto della vita mica per far balocchi filosofici. Secondo Michelstaedter, goriziano di ceppo ebraico, nato nel 1887, che studiò qua e là – prima matematica, a Vienna, infine filosofia, a Firenze – degno eroe della generazione perduta descritta da Scipio Slataper, un po’ maledetta un po’ beat (“Siamo già stanchi. […] Siamo fuori di tradizione. Non abbiamo fede per essere capostipiti di una nuova”), il ‘persuaso’ è colui che afferra la vita senza infingimenti, virando dalle norme e dalle sicurezze, sfidando il destino a viso aperto, con anarchica e volitiva volontà, dacché ogni uomo “è il primo e l’ultimo e non trova niente che sia fatto prima di lui, né gli giova confidare che sarà fatto dopo di lui, egli deve prender su di sé la responsabilità della sua vita […] deve aver egli stesso in sé la sicurezza della sua vita, che altri non gli può dare; deve creare sé ed il mondo, che prima di lui non esiste: deve esser padrone e non schiavo nella sua casa”. Al contrario, la ‘rettorica’ del mondo obnubila l’uomo, ne annebbia lo sguardo d’aquila, ne affloscia l’energia istintiva.

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Di fatto, nella sua tesi di laurea – mai discussa e d’indiscutibile fierezza – Michelstaedter compie una deflagrante anamnesi dei mali del mondo contemporaneo. Il sapere? Vanità che tranquillizza gli uomini nell’alveo della loro idiozia. “Poiché niente hanno, e niente possono dare, s’adagiano in parole che fingano la comunicazione”; “il sistema dei nomi tappezza di specchi la stanza della miseria individuale” (geniale frustata contro il sistema della retorica dei proclami istituzionali e delle paternali politiche che va rinnovata oggi, ora). La scienza? Ottusità conclamata che ci rende beati di un imbecille ‘progresso’ (“gli scienziati nelle loro esperienze la cecità degli occhi, la sordità delle orecchie, l’ottusità di ogni loro senso esperimentano”). Il sistema sociale? Una macchinazione che ci ha reso più scemi, paurosi, schiavi, insomma (“Gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei singoli padroni, perché non chiede loro una varietà di lavori, una potenza bastante alla sicurezza di fronte alla natura – ma solo quel piccolo e facile lavoro famigliare ed oscuro – purché lo si faccia così come a lei è utile, purché non si urti in nessun modo cogli interessi del padrone”). La tecnica? Il motivo per cui l’uomo, tra poco, si estinguerà, creatura indebolita e inerme, senza merito (“Ogni sostituzione delle macchine al lavoro manuale istupidisce per quel tanto le mani dell’uomo”).

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In questo precipizio nel baratro moderno, Michelstaedter – il cui lontano parente stilistico è lo Zibaldone di Leopardi – fa la lista delle malattie provocate dal decantato benessere sociale e dallo strapotere della tecnica, “le malattie degli arti, le malattie muscolari in genere per inerzia o atrofizzamento”, ad esempio, e “i mali del sistema nervoso – dei quali la società sembra quasi menar vanto” (con annesso rosario di depressione, stress, collasso psico-fisico…). “Michelstaedter realizza l’atteggiamento sentimentale del mistico vittorioso che, dopo di essere stato toccato dalla Grazia, si ripiega sul mondo a rammaricarne l’inguaribile miseria e proterva malizia” (Giacomo Debenedetti). Chi lo sapeva di avere dietro l’angolo il filosofo italiano in grado di decifrare i mali della modernità e di guarirci dall’asfissia contemporanea? (d.b.)

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I bambini – quasi vite in provvisorio – hanno molto meno definita la trama, molto più varia e disordinata, qui densa e luminosa, lì sottile e oscuro-trasparente. Essi hanno gioie vive che gli uomini non conoscono più, e molto più spesso che gli uomini sono in balìa di questi terrori. Nelle tregue delle loro imprese, dei loro piani, quando sono soli, e da nessuna cosa di ciò che li attornia sono attratti o a frugare, o a rubare, a rompere, o a discorrere o a tutte quelle altre loro occupazioni, si trovano con la mente a guardare l’oscurità. Le cose si sformano in aspetti strani: occhi che guardano, orecchi che sentono, braccia che si tendono, un ghigno sarcastico e una minaccia in tutte le cose. Si sentono sorvegliati da esseri terribilmente potenti, e che vogliono il loro male. Non fanno più un gesto senza riflettere ad “Essi”. Se lo fanno con una mano; lo devono fare anche con l’altra. “Oppure non lo devo fare? ‘Essi’ vogliono ch’io lo faccia – ma io non lo farò, non obbedirò – ma non lo faccio allora solo perché penso a ‘Loro’ – allora lo faccio…”. Quando passano una camera oscura, sembra ai bambini che questi “Essi” gridino mille voci, che con mille mani li abbranchino, che in mille guizzi ghigni il sarcasmo nell’oscurità, si sentono succhiati dall’oscurità; fuggono folli di terrore e gridano per stordirsi. Poi la vita s’incarica di stordirli; l’esser vivi si fa un’abitudine – le cose che non attraggono non si guardano più, le altre sono strettamente concatenate, la trama si fa uguale – il bambino si fa uomo – le ore degli spaventi sono ridotte al sordo continuo misurato dolore che stilla sotto a tutte le cose. Ma quando per ragioni che non stanno in loro, il lembo della trama si solleva, anche gli uomini conoscono le spaventevoli soste. Li visitano i sogni nel sonno – quando rilassato, l’organismo vive l’oscuro dolore delle singole determinazioni impotenti ognuna per sé di fronte a ogni contingenza, per cui, fatta più sottile la trama dell’illusione, più minacciosa appare l’oscurità.

da La persuasione e la rettorica

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Risveglio

Giaccio fra l’erbe
sulla schiena del monte, e bevo il sole
il mio corpo che il vento m’accarezza
e sfiorano il mio capo i fiori e l’erbe
ch’agita il vento
e lo sciame ronzante degli insetti.
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro
e trae nell’alto vasti cerchi il largo
volo dei falchi…
Vita?! Vita?! qui l’erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gl’insetti, qui gli uccelli,
e pur fra questi sente vede gode
sta sotto il vento a farsi vellicare
sta sotto il sole a suggere il calore
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch’io chiamo “io”, ma ch’io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l’erba sulla terra,
più ch’io non sia gli insetti o l’erbe o i fiori
o i falchi su nell’aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso –
altro sole, altro vento più supervo
volo per altri cieli è la mia vita…
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?
Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar confuso, questa terra,
questo cielo che incombe? M’è straniero
l’aspetto d’ogni cosa, m’è nemica
questa natura! basta! voglio uscire
da questa trama d’incubi! la vita!
la mia vita! il mio sole!
Ma pel cielo
montan le nubi su dall’orizzonte,
già lambiscono il sole, già alla terra
invidiano la luce e il calore.
Un brivido percorre la natura
e rigido mi corre per le membra
al soffiar del vento. Ma che faccio
schiacciato sulla terra qui fra l’erbe?
Ora mi levo, ché ora ho un fine certo,
ora ho freddo, ora ho fame, ora m’affretto,
ora so la mia vita,
ché la stessa ignoranza m’è sapere –
la natura inimica ora m’è cara
che mi darà riparo e nutrimento,
ora vado a ronzar come gl’insetti.

                                                           Sul S. Valentin, giugno 1910

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