Il deserto ce l’aveva in testa, T. E. Lawrence. Fuso in uno sciame di alias, avvilito dal mito, annientato dall’ego. Ambiva a diventare un tiranno, ma il mondo aveva bisogno di un eroe. Lawrence d’Arabia – leggenda da pellicola, prode da voliera.
Nell’evo della sovraesposizione, per teatrali fatalità, mi trovo – impropria diva – a cantare le gesta dell’Achille della Grande guerra che tradì Omero traducendone l’Odissea. Peregrinazioni nella sua geografia biografica e su quel fronte letterario che liricamente restituisce il fronte – bellico per quanto estetico – m’incendiano di disperazione. Intuisco i miasmi della disfatta. Votata alla parola, nella chioma del linguaggio non riesco a scorgere l’uomo, maschera che non corrisponde a se stessa.
Lawrence è respingente. Creatura spaventosa, – mi costringe a ricorrere alla volgarità della prima persona, a esporre una nudità cerebrale che non mi appartiene. L’uomo che ha mutilato i propri io, ha messo in scacco il mio. Per narrarlo devo svelare il mio insuccesso. Fra le maglie della frustrazione, dopo un consulto poetico-profetico, l’oracolo mi indica l’accesso – la chiave è che non c’è la chiave.
Giocava alla sparizione, T. E. – tallonato dai giornalisti, incalzato dai biografi, ammirato quanto esecrato dal volgo politico. Apolidia nelle vene, sigla una storia che non gli appartiene – capopopolo in sottana beduina contro la dominazione dell’impero ottomano. Trasformista, un giorno s’attorciglia il turbante sul capo, l’altro è fasciato nella divisa di Sua Maestà, decorato per onori militari.
Colonnello-cerniera fra Oriente e Occidente, è archeologo, agente segreto, capo rivoluzionario, scrittore, aviatore. È Tutti per annientare il singolo. È Nessuno. Come Odisseo – ciclope di se stesso. Ossessionato dal lascito di un capolavoro letterario ma privo della caratura di un Thomas Mann – darà alle stampe I sette pilastri della saggezza (ora edito in prima stesura come La rivolta araba per Mattioli 1885); spregiudicato nelle azioni politiche, ma sguarnito del profilo di un Winston Churchill; fine archeologo, non rintraccerà siti millenari. È uomo che effonde vitalismo nel fallimento. Penetrarlo è annichilirsi in un enigma.
Physique da oxfordiano appassionato di Ivanhoe e castelli crociati – figlio illegittimo di un aristocratico anglo-irlandese incapricciato per la governante scozzese, Sarah Junner Lawrence –, si fa orientalista all’occidentale maniera. Virtù da visir, camaleonte col potere altrui, sagoma schmittiana – è occhi e orecchie dell’emiro Faysal quanto del governo inglese. Destinato a mutare pelle, stagnare in incomodo.
Afflitto da depressione post-bellica, fiorisce in lui l’epica della sconfitta, attributo da artista-uomo d’azione, prototipo dell’‘esteta armato’ – fra questi lo inserra Maurizio Serra (ne L’esteta armato. Il poeta-condottiero nell’Europa degli anni Trenta, Il Mulino, 1990) come prossimo a D’Annunzio, lawrenciana nemesi, uomo integralmente svelato; al fascista Drieu La Rochelle e il compagno comunista Louis Aragon; al micidiale scrittore-entomologo Ernst Jünger, solito incapsulare coleotteri in trincea; a Vladimir Majakovskij, planato sulla bella morte, pistola sul cuore, gesto estetico e politico. Modello desueto, estinto, nell’oggi degli scrittori engagé per posa esistenziale e dei politici nient’altro che politici, s’intravede uno sfavillio di Lawrence nei lineamenti di Vladislav Surkov – mascherato in un alias, milite russo, velleità da scrittore, Rasputin del Cremlino putiniano (ritratto in Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere, Liberilibri, 2024).
Schermato, nella vita e nell’opera, Lawrence è una sfinge di rovi. A toccarlo si finisce in frantumi. Virile quanto ambigua la sua sessualità, fulcro di speculazioni – greve, la storia gli affibbia amanti, commilitoni, giovani arabi. Nulla emerge, la sua esistenza privata è avvolta in un nembo di quarzo. Singola pietra, scagliata nella sua potenza, il verso che slaccia il poema dei Sette pilastri – Io ti amavo… e così trassi queste maree d’uomini nelle mie mani […] Ma amore non è sigillo per un uomo sigillato. Lawrence – basta un frammento d’occhi – restituisce il volto rapace di una creatura virginale, casta. Castità violenta, vampata di un sacerdozio senza Dio, con se stesso. Sposo del deserto, è uomo che non ha mai fatto l’amore con nessuno. Mentre il mondo andava a letto col suo mito.
Armato d’anonimato e fertile teatralità, T. E. è uomo della rinuncia. Ascetico, solitario, alieno a legami e discepolanze. Desertifica ogni identità, fedele al solo gusto dell’accelerazione – naufragio in sella a una moto, contro il fusto di un albero, la sua fine si ustiona in uno schianto.
Condottiero della traduzione, non concede scampo al sommo Omero, miniato come fighetto urbanizzato – “il suo lavoro odora di circolo letterario” – amante di avventure per mari senza averne mai solcati; di combattimenti, ignaro di come si muoia in battaglia. Autore dal pubblico facile, declassato a Baricco qualsiasi – padre del primo romanzo europeo, del dramma borghese della famiglia, dell’uomo più umano di sempre. Odisseo che vive, ama, tradisce – Penelope gli manca, ma al dilagare della tenebra opta per le vie dell’amare, nei recessi della grotta, con l’eterea, eterna Calipso.
“Omero, il mare, entrambi: è l’amore che li muove” per dirla con Osip Mandel’štam.
Tanto è umano Odisseo quanto disumano Lawrence, estraneo all’amore, forestiero dell’algebra delle carni, lignaggio da profeta che frequenta ‘alti luoghi del linguaggio’ – fiuterà in lui, Cristina Campo, le medesime virtù che il colonnello aveva intuito in Omero. Uomo della parola che ha come argilla del suo lavoro il destino nelle mani. Ma il deserto nel cuore.
Nel principato del suo ego, Lawrence s’è infine rivelato, epifania di vetro. Versi di una canzone ossessionano sommessi il mio scrivere – dicono di qualcuno che si esplode, di un’icona santa e cieca a se stessa, di baci senza la faccia. Mi restituiscono la liturgica efferatezza di Lawrence – uccidere e negare un bacio, per lui, era la stessa cosa.
Fabrizia Sabbatini
*In copertina: Erich Kennington, T.E. Lawrence, 1921