16 Settembre 2023

“Quando metto il cadavere della parola cuore in una poesia, quel cadavere, alla fine, sono io”. Appunti sulla morte della lingua

Lingua mortal non dice; quel ch’io sentivo in seno. Un verso improvviso, ritornato dalla memoria. La falce di quel mortal vicino alla lingua, come l’ultimo vertice acuto della scala di un pianoforte, quasi mortil.

Vengono in mente le solite considerazioni sul latino lingua morta e il Dante padre della attuale lingua italiana. Poi mi chiedo: ma qualcuno sta parlando un dialetto di cui non ci rendiamo conto? C’è un’altra lingua che spinge sotto la nostra? Cosa rende una lingua viva e non scolastica? Non credo sia il linguaggio pregrammaticale di pascoliana memoria. Neppure il gergo giovanile, fra immaginette e vocali.

Parto dalla mia esperienza con le parole, da un certo disagio su alcune in particolare, come se avessi fra le mani dei latinismi, come se fossi sempre nel dubbio di obbedire alla grammatica o alla vita. Non parlo di sperimentalismo, come avanguardia o avanscoperta in divenire. Sono ancora ferma a un altro bivio. Sono ancora rivolta alla mia lingua, non a quella che verrà e come verrà.

Ma la poesia ce l’ha il termometro della lingua? Il fatto che la scrivano in tanti cosa significa? Io mi sono sempre data la motivazione che la lingua tende all’arte, tutta, alla bellezza, per sua natura. Poi mi viene in mente che potrebbe anche essere che la nostra lingua italiana, ormai agonizzante, si lascia fare di tutto, da me compresa.

Io cerco, come credo tutti, semplicemente, parole vive, corpi vivi, il filo di un elettrocardiogramma che traccia l’ecografia di una voce nel deserto. Il battito dei marziani. Che banalità. Fa però la differenza mettersi un camice bianco per scrivere o accorgersi che l’ombra è quella di un dinosauro vivo. Cose già sentite.

Rimane la mia domanda: cosa rende viva una parola. La parola cuore è viva o morta? È la poesia che la rianima? Che brutto lavoro. Ma sarà bendare o sbendare la mummia? Credo che, prima di coprire un cadavere, occorra, non congelarlo per mantenere la pensione, ma seppellirlo con un degno funerale. Con il dubbio che risorga. È sabato, oggi, per la lingua (italiana)?

È impossibile, credo, rianimare le parole agonizzanti con la poesia. La poesia non è la crocerossa. E credo anche non abbia come primo problema la lingua, in senso tecnico. Non perché si debbano proteggere gli ignoranti della metrica, o della retorica. Un’ovvietà certo da non trascurare. In ogni caso, dovremmo chiederlo a Dante e a Manzoni, per esserne certi. Quando spesso ricavo le maggiori emozioni dalle traduzioni di testi nati in altra lingua, mi chiedo cosa venga tradotto di così vivo. Merito del traduttore, certo. Ma il dubbio mi rimane, cioè che sia proprio dentro questo lavoro di traduzioni da ogni lingua, che possiamo scorgere la differenza fra la vita e la morte (nella lingua). Che sia che ciò che è vivo non sia solo la lingua che, come l’acqua, trova poi sempre dove passare? Su questa trasparenza trarrò le mie conclusioni.

Se poi la lingua italiana sta morendo, il lutto al braccio dovrebbero portarlo i poeti. O sentirne l’agonia al capezzale. Quando muore una lingua è come se morisse il Papa? Si, no, forse.

Saranno tutte chiacchiere, nella sala d’attesa, del malato immaginario?

Ma poi, in questo giallo, chi l’avrà uccisa? La natura o la storia? È vecchiaia o eutanasia o bullismo sociologico di tutti i tipi, che la rete dei tempi ci presenta sfilare elegantemente sotto i nostri occhi?

Io mica lo so. Faccio parte di quelli che si tengono strette le parole a cui frulla ancora qualcosa. Non ho medicamenti se non il pronunciarle o chiamarle per nome (non come Gesù con Lazzaro, ovviamente).

Qualcuna mi muore fra le mani mentre scrivo, s’accascia dopo l’ultimo giro di una farfalla che rotola attorno a un filo d’aria.

Non ho medicamenti. Però mi chiedo dove gira sotterranea questa sorgente della lingua nuova, cosa la rende vita. E non mi accontento del parlato pop come vitalità. Dal basso è tutto tumulato, reteguidato, il cordone è come spezzato. E chi pensa che il cordone sia avvolto a se stesso rimane con la corda spezzata in mano e avvolgendola a sé credo si possa sentire un minimo in imbarazzo, come chi bacia un cuscino.

Ma andiamo per ordine. La parola cos’è? Che ha l’aria di essere antica come la creazione, il Logos, e trasformista come l’omone vestito da fata turchina. Cosa c’è dentro, direbbero guardando il pozzo. Io dico cosa c’è dietro che la spinge sul palcoscenico di ogni relazione.

Troppi sono i libri scritti sull’argomento, mi viene in mente il valore magico. Se penso di approfondire il discorso mi cade addosso una biblioteca e, sepolta, dico ok, la prossima vita forse potrò esprimermi perché ora non sono ancora esperta, poi alla prossima vita, altri centinaia di libri di parole sulla parola. Ma non voglio tirare i fili di queste ricerche, mi accontento di registrare il mio disagio.

Mi aggrappo all’ultima cosa letta come se si dovesse sempre ricominciare da un punto.

“L’immediata incarnazione dello spirito è la parola” (Edith Stein).

Sembrerebbe che una lingua che muore sia una lingua dove lo spirito si sia come ritirato. È una dichiarazione che potrebbe stare appesa appena a uno spillo, da quanto sia complesso argomentare. È certamente di natura biblica (questa, ovviamente, è una osservazione irrilevante per chi si occupa di scienze del linguaggio, ma non per me).

Io mi accontento, talvolta, di osservare un convento disabitato, le cui spesse mura sono invase da improvvisi crocifissi o bassorilievi di santi con l’aureola in fuori. La sensazione è quella di attraversare i secoli, togliere l’edera dal volto di magnetici pecorai genuflessi, con le bocche aperte. Mi fa questo effetto la lingua ancora attaccata ai muri. Incantato e incarnato mi sembra abbiano la stessa origine. L’etimologia di ogni parola mi fa venire sempre i brividi, come se si entrasse in un tempio sepolto e dove ancora si sentisse rumore di stoviglie.

Ma con l’etimologia non credo si possa retrocedere fino all’incarnazione dello spirito, sempre che si sappia di cosa si sta parlando. Certo si parla di cose, ma la parola ci dona qualcosa in più. La radice è un suono e, senza scomodare Marius Schneider, un suono affonda e si alza, ha un sapore non solo materiale, è evidente. Il legame fra quel suono e la cosa, concreta o astratta, è ciò che raccoglie forse solo la poesia. Inseguire il sonoro sembra di essere troppo astratti, inseguire il significato troppo razionali. Eppure, si ricongiungono, alla radice.

Oggi dietro a tante parole c’è plastica (mouse, pc, etc). Il bello è che la plastica sembra la cosa più vicina all’eternità di cui disponiamo.

Ma torniamo all’agonia da cui sono partita, la mortal lingua, il pensiero che anche la lingua possa un giorno morire, tutta quanta, come il latino. Godiamocela fin che si può, non è il mio motto. È un falso problema perché il fatto non sussiste, potrebbe essere.

Non so. L’unica cosa che mi convince è il dilemma della lingua abitata o disabitata, che è simile alla metafora viva o morta. L’unica cosa che mi conforta è la mia credenza che lo spirito soffia dove vuole. Io credo anche a quello che non vedo, o che intravedo nella penombra. Per questo scrivo.

E credo anche che, quando metto il cadavere della parola cuore, in una poesia, quel cadavere, alla fine, sono io.

Nel vangelo, ad esempio, non è la lingua che è rivoluzionaria, è tutto trasparente, semplice, perché l’incarnazione è già avvenuta, quindi la parola si riposa. La parola segue, è attenta, è già la cosa e il suo atteggiamento. È qui e già altrove, è come se nella parola il tempo fosse festivo e non un cappio al collo. Allora la lingua non muore, trasloca, come da una casa all’altra con l’essenziale. Questo trasloco lo compie la poesia che è come se facesse sempre le valigie con l’essenziale, come se qualcuno le dicesse: cosa ti porteresti dietro se ti dovessi trasferire in un’isola deserta? Il tempo di fare quelle valige non tutti ce l’hanno a disposizione. Ungaretti no, nel primo suo grande trasloco in trincea. Non di solo pane vive l’uomo ma di ciò che esce dalla bocca di Dio. Quelle sono briciole di chi cerca l’oro e si rende conto che l’acqua è trasparente. Il paesaggio è quella trasparenza, la poesia è quel viaggio dello sguardo nell’acqua, che fatica togliere dall’acqua le parole torbide, le reti che catturano lo sguardo, l’oro matto.

La sovranità della lingua che non si dà lo smalto, ma continua a chiamare per nome tutto, come se avesse a cuore ogni cosa come un figlio. La lingua come forma d’amore, cioè come purezza non solo estetica o grammaticale, ma confortata da un legame, sentire quel legame con la cosa, dalla radice, da quel diamante nascosto in ogni parola che è la sua radice sonora. Che sia un legame d’amore? Qui si scende nelle profondità della creazione. Atomi innamorati gli uni degli altri o semplicemente attratti da una chimica senza amore. La spiegazione dell’attrazione chimica non mi soddisfa. Perché quelli si attraggono così? E nasce una particella. H2O è il brivido di una famiglia o è un obbligo da campo di lavoro. A cosa obbedisce ogni unione materiale? Dovrei studiare meglio? Andavo malissimo nelle materie scientifiche, forse è questo che mi impedisce di raggiungere la verità. Proviamo. Mi pare dalla radice AK poi si etimo.it dice “l’amore che corre serpeggiando”. Letto adesso. Non è una definizione da tecnico del suono. Che sia una comunione e non solo un composto? Ciò vale per me come maestria sulla scrittura: la scrittura è l’antidoto all’indifferenza? Non solo, la scrittura non è il piccolo paradiso di chi ha trovato la tana della verità e se la tiene in mano. Credo sia il patire l’indifferenza e la comunione come due tempi dello stesso tempo, fra la fame e il masticare il pane. Non c’è orgoglio in questo, è l’indifferenza patita come fame della separazione. Quindi non è il livore verso la separazione, verso il caos e l’orgoglio di riordinare. È la pena totale e l’incontro totale in quella pena. Non è Noè che fa le corna alla tempesta. È la pena della separazione e il movimento verso qualcosa che sembra la pace. È stare sulla stessa barca, la mancanza, l’attesa. La barca attenta alla terra che arriva. È il transatlantico di Lagerkvist che si ferma quando dicono: ferma, un uomo in mare. Ma quando fuori bordo è l’anima dell’uomo e anche la sua casa si allontana. La poesia porta il becco vuoto instancabilmente. È la mano di Hugo Mujica del mendicante in mezzo a una terra deserta, davanti a niente, per niente, ma senza abbassare né chiudere la mano. Tutto sembra radunarsi solo attorno a un punto, come il bambino piegato osserva la formica e quando alza gli occhi sembra ubriaco.

Mi sono chiesta se il mio problema fosse la lingua, poi mi sono risposta che non è un problema quando è trasparente come l’acqua, non la vedi quasi, davanti a chi cerca l’oro, o lascia la mano aperta, davanti a niente, per niente. Tutto qua.

Un appunto sul fatto che tutto è già stato scritto e detto, in italiano.

La meccanica dello stupore o dell’archetipo? Che noia scoprire la conferma delle leggi meccaniche della natura o della storia. L’unicità affoga. Lei ha amato quella volta, ha raccolto i panni, ha cucinato, ha pianto. Uh l’inutile biografia. Certo, togliamola, e potremmo discutere, forse per sempre, della relazione fra io/tutti. O disquisire su: l’unicità non è l’ego. Eccetera. Allora ci vuole una dose adeguata di biografia, giusto per accendere il testo, tale che non ricada nel diarismo. Diversa credo sia la dinamica fra poesia e autore. Non è questo il tema.

C’è un punto che sta fra due dita e che forse è l’io sono io, rotondo, non frammentato in centomila pezzi. Io non sono il custode di mio fratello. Eppure. Anche fra chi sembra morto al mondo o fra chi tiene il proprio io come un gatto, fra chi non ci capisce nulla fra io, sé, ego e non ha voglia di studiare psicologia o di approfondire l’anatomia dell’essere. Eppure. Mi rispondo ancora così che non è l’uomo per la poesia, ma la poesia per l’uomo, per quell’uomo. Ogni libro è un trasloco con l’essenziale. E una poesia scritta anche solo per un solo uomo o donna, per lui o per lei e non solo per la massa, non ha vissuto invano.

Francesca Serragnoli

*Di solito, in fondo ai suoi libri, Francesca Serragnoli scrive degli appunti in prosa. Vuole chiarezza, non certo giustificarsi – tanto meno: ‘gustare’ ciò che si è fatto. Fare di sé un vetro: sporco, semmai, ma che può ferire. Credo – credo – che quegli appunti siano un modo di slegarsi dal testo, di cederlo. È un gesto di separazione, non di proprietà: il testo, ora, senza cavezze, vada libero, passerotto o tigre, funambolo o iena. Appunti come forbici. Il poeta non recita mai: recide. Di solito, dunque, quando il testo è pronto per la stampa, Francesca Serragnoli sacrifica quegli “appunti sparsi”, che restano, appunto, spartizione di niente, seminagione senza terra. È accaduto così anche per l’ultimo libro, “Non è mai notte non è mai giorno” (Interno Poesia, 2023). Quando l’ho letto, in forma ancora imperfetta, quel libro aveva tanti altri titoli possibili: “Centomila passi”, “I guardati”, “Ospedale dei guardati” (che è poi il titolo della sezione più bella del libro). Nessuno che mi piacesse. Ad ogni modo, in appendice c’era questa serie di “appunti sparsi”: mi è parsa molto bella. Un sovrappiù rispetto al testo, è vero, ma che di quel testo è lo spioncino, la finestra lasciata aperta per sentire il rumore del mare, il chiacchierio delle pettegole foglie. Per questo la pubblico, qui, con gesto d’imperio e di bene (Francesca, quanto a lei, neppure ricorda di averli scritti, quegli appunti). In sostanza: è il viatico necessario per comprendere quel libro, tanto lieve – così esatto – che mettergli al fianco un guardiano aggettivo è già frantumarne il miracolo. (d.b.)

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