17 Giugno 2022

“Tuttavia è la poesia ciò che conta, il knock down per eccellenza. La caduta nell’ignoto”

In questi giorni ‒ in queste sere, in queste calde notti ‒ mi chiedo se si può vivere veramente di poesia. Me lo chiedo sfogliando i versi di Pasternak, ritornando a camminare per le vie e le strade della mia città, dove la movida ha preso il sopravvento persino in un paese di periferia come potrebbe essere addirittura Suno: poche anime, grandi campi di grano, un unico ritrovo vicino al campanile. In un attimo la batteria della mia auto, in una sera di pioggia torrenziale, ha rischiato di lasciarmi a piedi nel bel mezzo del nulla. Poco importa.

La domanda si fa incalzante proprio quando i nemici e i detrattori tentano l’affronto improvviso, la studiata mossa, la tagliola dell’inganno. Perfino quando chi ti vuol bene, ritratta sull’ipotesi di un romanzo. Allora io resto fermo, mi faccio incatenare dalla poesia: unica dea irreversibile, ignifuga all’affronto, estranea all’ignavia.

È un tutti contro tutti, questa vita. Non ce n’è uno che non si creda scrittore, o poeta. Giri l’angolo di strada, e son pronti a declamarti i loro versi, a spendersi per investirti di parole, corteggiamenti, capoversi. E tutto ciò, anche se non sembra, svaluta il rumore. Il silenzio diventa cosa ambita. Insomma, ne sono già stanco di questo mondo delle lettere. Forse sarebbe meglio dire, deluso.

Allora preferisco perder tempo, camminando tra la gente, osservando quel tutto che un giorno tornerà fresco alla mente, tumido di particolari allettanti. Riprendo allora a vagabondare solo o in compagnia perfino tra i laghi. L’altra sera, per dire, quello di Arona, era meravigliosamente in burrasca. Ed io mi sentivo come a casa, trovandomi perfettamente a mio agio.

Dunque, qualcuno ha osato dirmi: Benvenuto al mondo!

È che io ne sto facendo esperienza adesso… Sempre più spesso, più importante si fa il viaggio o il cammino. Chiuso in un assolo, potrò vivere mai di poesia?

La risposta è Sì!, se ripenso a Whitman, a Pessoa, addirittura a Leopardi…

Mi hanno accusato persino di essere un gran poeta, ma di non essere affatto uomo. Ebbene, ciò non m’importa. L’umore oscilla tra alti e bassi. Ma non è la malattia stavolta a fare i capricci. Sono gli incontri e gli scontri nel mondo, piuttosto, a offrirmi inerme a denti fin troppo aguzzi, prima di scoprire che spesso, in realtà, la lotta è tutta una farsa; un’invidia dell’occorrenza.

Eppure. Eppure, più di tutti ‒ in questi giorni tormentati, dove alterno momenti di pace a momenti indifesi ‒ incredibilmente è Jack London a ritornarmi vicino, quasi a stringermi la mano nella tormenta del combattimento, per farmi scoprire che ha scritto anche dei racconti di boxe.

Ecco, quella boxe che un giorno o l’altro vorrei osservare in qualche incontro dal vivo, se qualcuno mi ci vorrà portare. Perché la boxe, come la parola scritta, è lezione di vita, intesa nel contrasto.

Così la boxe, come la letteratura, diventa la sfida dura e spietata, un rischio che, accettato o subito come inevitabile soperchieria dettata dalle condizioni, può significare affermazione, speranza, riscatto sociale e politico, ma resta soprattutto esuberante e fascinoso trionfo vitale.

Per meno di questo, non ne vale la pena.

Difatti, se si avesse ogni tanto una vivace, frizzante possibilità di essere se stessi in questo mondo, lo sguardo e il cuore riprenderebbero ad essere anch’essi ciò che sono: inguaribile amore, potenza e smalto nell’occasione non andata perduta.

Il rischio è ciò che ci riguarda. Non ce ne rendiamo conto. Viviamo al largo, presi come siamo dalle nostre inscalfibili abitudini.

Tuttavia è la poesia ciò che conta, il knock down per eccellenza. La caduta nell’ignoto.

Gruppo MAGOG