30 Agosto 2023

Un Ulisse da rotocalco rosa, viveur sullo yacht. Guido Gozzano interpreta Omero

Tra il 1907 e il 1908, Guido Gozzano compone L’ipotesi, un’ampia lirica dal sapore di poemetto mancato. All’interno dei suoi versi, il poeta immagina come avrebbe condotto la sua vita senza la persecuzione della malattia, che gli avrebbe invece assicurato – come in effetti fu – una morte precoce:

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.

Tomaso Monicelli – padre del più famoso regista Mario – insiste per pubblicare la lirica su «Il viandante», rivista di cui era il fondatore e il direttore. Nella lettera di risposta – pubblicata insieme ai versi – Gozzano accetta il licenziamento de L’ipotesi, ma con grosse riserve: da una parte, si dice insoddisfatto dallo stile («L’ipotesi è cosa della mia prima maniera, scritta poco più che ventenne, in quei polimetri che oggi – affinato ad una metrica più severa – mi riescono intollerabili»); da l’altra, Gozzano crede che la poesia, presa da sé, non possa avere presa sui lettori. Lo scrittore torinese, infatti, al tempo aveva intenzione di porre L’ipotesi in apertura dei Colloqui – cosa che poi non fece.

Insomma, è evidente che Gozzano avesse poca simpatia per questa sua creazione. Ciò è dettato dal fatto che in essa ravvisava troppe somiglianze con La signorina Felicita, che in effetti viene pure citata direttamente: «un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema; / il candido nome che un giorno vorro celebrare in poema, / il fresco nome innocente come un ruscello che va: / Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!… Felicità…».

La cara, semplice, illetterata e disadorna Felicita è la donna che il poeta fantastica di sposare; è la moglie con cui desidera passare un’esistenza fatta di cose monotone e piccole soddisfazioni borghesi:

Vivremmo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città…
la figlia: «… l’evento s’avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza…»
il figlio: « … la Ditta ha riprese le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese».

Questi sviluppi, in effetti, non sembrano aggiungere molto a quanto già scritto da Gozzano, e sicuramente avrebbe stonato, per stili e contenuti, come poesia incipitaria dei Colloqui. Nell’ultima parte, però, Gozzano riesce a costruire una scena degna di particolare attenzione: egli s’immagina, oramai settantenne, a cenare con gli amici nei giardini della sua modesta dimora, conversando delle cose «più semplici», «poi che la vita / è fatta di semplici cose e non d’eleganza forbita». Tra vari argomenti di conversazione, quali gli amici scomparsi o gli amori perduti, il discorso cade anche sulla letteratura, sui «versi del secolo prima». L’accostamento alle precedenti conversazioni non può che creare un’ovvia associazione di idee, proiettando l’argomento poetico tra le cose ormai passate, da osservare con un misto di dolcezza e nostalgia al pari «di amici scomparsi» e «di belle di un tempo». Gozzano riporta una parte significativa di questa chiacchierata:

«Mah! Come un libro in rima, dilegua, passa, non dura!»
«Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!»
«Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l’arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo…»

La caducità della poesia, l’invecchiamento precoce dei versi vengono accolti dal poeta e dagli amici sì con malinconia, ma anche con quella punta di perverso piacere tipico della vecchia borghesia annoiata, che trae godimento al pensiero che le generazioni future non potranno godere di ciò che ha goduto lei. Questo perverso edonismo ha una evoluzione, nel proseguo della lirica. La moglie del poeta, mentre sta aiutando le serve a sparecchiare la tavola, sente il roboante richiamo a Ulisse e chiede, più per entrare nella conversazione che per effettiva curiosità, chi mai sia questo personaggio. Il marito decide di risponderle con uno scherzo, «con buona pace d’Omero e di Dante»:

Il Re di Tempeste era un tale
Che diede col vivere scempio
Un bel deplorevole esempio
D’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes

Gozzano sfigura Odisseo secondo parametri più contemporanei e comprensibili alla sua vecchia moglie: lo trasforma in un ricco viveur che viaggia a bordo del suo yacht tra le isole mediterranee più in voga, in cerca di belle dame con cui tradire la moglie. Una volta vecchio, decide di tornare da lei, che immancabilmente lo perdona per evitare uno scandalo pubblico. Ma il nostro Ulisse non trova ancora pace, esattamente come quello dantesco:

Ma né la dolcezza di figlio,
né lagrime, né la pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America…
– Non si può vivere senza
Danari, molti danari…
Considerate, miei cari
Compagni, la vostra semenza!

Così, Ulisse passa le colonne d’Ercole non tanto per inseguire la conoscenza, quanto per cercare di far fortuna in America. Si assiste a una riscrittura volutamente superficiale e frivola del personaggio, volta a creare un effetto straniante e distruttivo. Il presupposto da cui Gozzano parte, è che la sua ipotetica moglie non potrebbe mai arrivare a capire il vero Ulisse, né quello Omerico, né tanto meno quello dantesco. Per questo, decide di avventurarsi in questa specie di divertissement, che però ha un carattere tutt’altro che innocuo: oltre a denunciare un’incomunicabilità con il passato, questo Ulisse mette in evidenza tutto il ridicolo della società borghese, che non riesce a trovare soddisfazione in altro se non nella mondanità degli scandali estivi, che non riesce a riconosce eroi se non negli arrampicatori sociali di successo. Il gusto per la vista della decadenza, qui, prende una connotazione più amara e più intima, rispetto alla precedente conversazione con gli amici. Quello di Gozzano, più che un modo di deridere la moglie, pare un modo per salvaguardarla: non conoscendo la grandiosità del passato, è più facile accettare le piccole miserie dell’oggi.

Tutto questo fa muovere a Gozzano, di fatto, i primi passi verso il processo di destrutturazione del mito, tipico di molti autori del primo Novecento. L’affermazione dell’ideologia di mercato, la mentalità borghese e liberale, egemone ormai in quasi tutta Europa – sicuramente nella Torino del poeta – non ha più spazio per la poesia, né tanto meno per le «favole antiche». Al contrario dell’ormai stanca onda bohémien, Gozzano accetta questo stato dell’arte, pur non riuscendo a celare una certa amarezza. Questa viene fuori dalla raffinata e cruda ironia con cui il poeta canta tutte le «buone cose di pessimo gusto», intrecciandole assieme in un raffinato gioco metrico, volto a renderle insolitamente musicali. I versi eroici e le invocazioni alle muse sembrano ormai suppellettili polverosi, e chi li ripropone è soggetto a invecchiamento istantaneo. L’unico modo che rimane loro per continuare a vivere è banalizzarsi, scaricarsi d’eroismo e solennità: diventare finalmente un Ulisse da rotocalco rosa.

Nicolò Bindi

Gruppo MAGOG