
“Credo nei miracoli dell’arte”. Vita in versi di Jane Kenyon, l’Achmatova d’America
Poesia
Fabrizia Sabbatini
Ciascuno ha la propria indole e il simbolo che relega la vita in un flash. Io immagino sempre Giuseppe Conte così: è mattina, Sicilia – potentemente ligure, Conte ha origini, per via paterna, catanesi –, il poeta imbocca il mare. Nuota verso Est, seguendo la scia del sole, un belato di luce. Ha il volto leonino, il poeta, l’alba ha da poco slacciato i palafreni; il poeta nuota verso l’alcova del sole.
Quando gli scrivo, mi scrive che si prepara ad andare ad Al-Ula, antica oasi in Arabia Saudita. Giuseppe Conte è un poeta sempre in movimento. “È come dici tu, dovrei ripartire”, attacca una delle sue poesie – il poeta è nel viaggio perenne, terreno e celeste, carnale e mentale, letterario e spirituale. Nel suo ultimo libro, Nessuno può uccidere Medusa (Bompiani, 2024), Conte rilegge il mito della Gorgone – secondo la fibbia poetica di Ovidio – nella Sicilia del nuovo millennio, incarnandolo nel supremo andare di “Med”, la più piccola delle sorelle Corallo, Amedea all’anagrafe. Nel libro – che si allinea alla serie dei romanzi di Conte, poeta che ama sbrindellare i generi: Primavera incendiata, L’Impero e l’incanto, Il terzo ufficiale, I senza cuore… –, non avaro di violenze, ricorre la parola “bene”, l’amore che riesce a far frutto pur nel male, nel più cupo male – la vita che vince, in fondo. Nel gioco delle ricorrenze, il “senzatetto” delle prime, folgoranti pagine è tratto da una poesia di qualche anno fa (in: Ferite e rifioriture, Mondadori, 2006):
Il mio demone è un senzatetto
senza paura della tempesta
uno che abita la battigia
uno che abita la frontiera
uno che sulla sabbia nera
corre e fa capriole
aspettando che torni il sole.
Medusa, invece, è figura ricorrente nel canone del poeta, fin dagli esordi, ammutinata al mare: un “io medusa” diventa il poeta nella sua più arcana e onnipotente poesia, L’ultimo Aprile bianco, che è poi Il battello ebbro di Giuseppe Conte. Questo a dire di una continuità – pur nel divagare dei generi e degli approvvigionamenti verbali –, di un’opera continua da Il processo di comunicazione secondo Sade (era il 1975) in qua. Il romanzo – genericamente – a me pare un incrocio tra il mitografo Robert Graves e Parthenope, l’ultimo di Sorrentino.
Inossidabile Giuseppe Conte: ancora crede nella cavalleria dei poeti, nel vigore dell’utopia. Dice di essere stato druido, di pregare più volte al giorno, più di un mussulmano. Un tempo, Ernst Jünger gli inviava cartoline “raffiguranti la falena che porta il suo nome”: come a dire che l’effimero ha efficacia, ferisce per eccesso di bellezza. Trent’anni fa, il poeta “occupava” la Basilica di Santa Croce a Firenze, la chiesa eletta da Ugo Foscolo, a memoria del primato etico – un primato, direi, ‘di lotta’, marziale – della poesia: ricevette plausi da Mario Luzi, Lawrence Ferlinghetti, Gao Xingjian. Tra le sue stelle: Walt Whitman, Goethe, Shelley, Hafez.
Credo che la poesia di Conte – a proposito di spirito etico – contempli una dottrina, invochi una specie di addestramento del cuore. Faccio trebbiatura da alcuni testi: “io sono saggio perché amo”; “imparare a/ ridere occorre ora, a distruggere, e a// tornare”; “ci vuole il morbo… ci vuole se devi scrivere”; “amare sempre/ amare tutto”. C’è, dico, la continua, diagonale, spietata concia di sé (“Ci pensi, non ho mai piantato un albero,/ non ho mai avuto un figlio./ Tanto assomiglio al mare,/ solitario, sterile”), che tende all’annientamento. Suprema sapienza del niente, gioiosa – “Giuseppe era il mio nome di/ cristiano, ora non ho più nome: sono/ api e lucertole, pietre e mimose, il/ mare: lei non mi potrà riconoscere” – o spietata che sia (“Vorrei essere niente/ vorrei non essere stato generato”). È sempre: verbo che si fa erba e corno, scalpitio di sauro e lucertola, ombra, brillio di arcane bramosie, neve.
Poesia d’antiche vestigia e di brutalità, di Parmenide e del cellulare; poesia a cadenza di un candore che è insperato trovare nei poeti ‘seri’, seriosi, di setosi versi, bene asserragliati nelle accademie, trionfanti su un trono di libri. Per non dire del resto: gli argonauti dell’indifferenza, gli arconti del rancore.
Giuseppe Conte sa, ancora, la nobiltà dell’ira – e dunque il suo contropiede, la compassione. Di tutto, con neonata gioia, si abbevera.
Parto da lontano. Che senso ha ancora il mito per decrittare fatti o attitudini di oggi? Che ‘senso’ ha nell’oggi Medusa, per esempio?
Oggi, in seguito all’instaurarsi nella società del dominio capillare di Tecnologia & Economia, il vero pericolo incombente è la disumanizzazione, già in atto in vaste parti del pianeta Terra, tra cui quella in cui noi abitiamo: così il mito, mia fonte di ispirazione da decenni, mostra ancor più la sua necessità in quanto custode del racconto delle origini di tutto ciò che è umano, e insieme misterioso e divino. Custode della sacralità intangibile della vita. Nel mio romanzo Nessuno può uccidere Medusa sono ripresi e trasferiti nella contemporaneità i grandi archetipi del mito di Medusa raccontato da Ovidio. È finalmente la sintesi di come concepisco il rapporto tra romanzo e mito. Goethe in Le affinità elettive, D. H. Lawrence in Donne innamorate (due supremi tra i miei pochi libri di culto) incarnano nei personaggi gli elementi naturali e le loro trasformazioni chimiche, che diventano trasformazioni chimiche dell’anima. Nel mio libro, nei personaggi vengono incarnate le metamorfosi della materia e dello spirito di cui parla il mito, in questo caso il mito terribile di Medusa. Sono personaggi che tendono all’universalità a partire da una concretezza materiale assoluta. E assolute sono le pulsioni che si scontrano elle loro anime: l’innocenza e la colpa, la bellezza e la mostruosità, l’amore e il disamore, la vendetta e il perdono, la generosità e la pietrificazione del cuore. Qui il male e il bene si compenetrano, è vero, ma si scontrano anche clamorosamente. Hanno tutti la loro quota di malvagità, fuorché due personaggi, riconosciuti come del tutto eticamente positivi dalle prime lettrici (io non me ne ero accorto), e sono un gesuita, che è anche un grecista, e un giovane immigrato islamico. Vorrà dire qualcosa?
Nel romanzo, mi pare, anche il più grande male finisce per fiorire in un inatteso bene. Permane, comunque, sempre, intendo, la vita, l’amare, il nascituro. Sembra, questo imprevisto miracolo, tradurre una visione del mondo: è così?
Ti ringrazio di parlare di visione del mondo, la vecchia cara Weltanschauung che un tempo era prerogativa degli scrittori avere, o almeno cercare nella loro opera. Oggi nessuno ha più una visione del mondo, che è complessa e richiede pensiero, rigore, studi, apertura mentale, ma tutti hanno “opinioni”, che basta aprire la bocca per esprimere: assistiamo così al trionfo dei cazzoni eufemisticamente detti “opinionisti”. In Nessuno può uccidere Medusa affiora la mia visione del mondo in cui notte, oscurità e violenza vanno conosciute e percorse per poi uscirne, una visione del mondo in cui il male e il bene lottano, e in cui la tensione è verso la vittoria del secondo. Seguo quelli che Victor Hugo chiamava i sentieri luminosi, e cerco di cogliere i segni dell’infinito (che per Victor Hugo è il vero protagonista dei Miserabili). Cos’è il bene per me, in sintesi? La ricerca della luce, l’assenso alla vita. Stare sempre dalla parte di chi fa nascere, crescere, fiorire, contro chi vuole uccidere, spegnere, disseccare. Nel personaggio di Med, come nel mito di Medusa, si assommano, oltre che bellezza e mostruosità, lo spegnimento della vita e il concepimento della vita. Sì, c’è nel romanzo un desiderio di riscatto dalla pulsione di morte, desiderio che fa parte del mio sentire. E che impronta tutta la mia opera.
Alzo lo sguardo. Sei fautore di una scrittura romanzesca piana, scevra da sperimentalismi. Che ne pensi della letteratura italiana, oggi, ti piace leggerla? E di quella europea: cosa leggi?
Dal momento che pratico l’arte tremenda dei versi, riservo alla poesia gli affondi metaforici e simbolici, i cortocircuiti di senso, le voragini fulminanti della sintesi e della verticalità. La mia prosa narrativa, più da mitologo che da romanziere, è imperniata su trama e personaggi, cioè sulla musica del destino. Del mio primo romanzo, Primavera incendiata, del 1980, Antonio Porta scrisse che segnava “un passaggio significativo nel faticoso cammino dei nostri giorni alla ricerca di una dimensione nuova del vivere”. Ho continuato libro dopo libro proprio quello, a cercare una nuova dimensione del vivere, a interrogarmi sul senso dei rapporti tra esseri umani e tra esseri umani e anima e cosmo. La mia scelta di una prosa piana è in linea con le mie preferenze nel campo della prosa novecentesca: ho sempre anteposto Lawrence a Joyce, e ho letto molto Calvino e Soldati, con i quali per altro ho avuto rapporti di fruttuosa amicizia. Lo sperimentalismo multilinguistico sarei in grado di praticarlo, e l’ho dimostrato nel Terzo ufficiale con la storia della Remora Gigante raccontata dal marinaio Genoves in una lingua ibrida e espressionistica, mediterranea e portuale, un mix di italiano, spagnolo, portoghese, dialetto ligure. Ma tirato alle lunghe mi sembrerebbe solo un gioco virtuosistico. I romanzi dei contemporanei… Ne leggo, certo, e alcuni mi sembrano buoni romanzi, ma mi stupisco sempre quando vedo che Roberto Saviano e Paolo Giordano vengono considerati universalmente grandi scrittori letterari… La autofiction, meglio lasciar perdere, a meno che non si abbia qualcosa di straziante, controcorrente, carnale e terribile da raccontare (ci sono riusciti con i loro ultimi libri due autori diversissimi tra loro, Antonio Franchini e Aurelio Picca). Sai cosa affligge la letteratura contemporanea? Quell’interdetto condiviso contro la metafisica, ribadito da Nicola Lagioia in un passo del suo ultimo e per altro riuscito romanzo, La città dei vivi, quando scrive che chi ha una vocazione metafisica deve essere pazzo. Col cazzo. Io rivendico il mio amore per l’invisibile, il mistero, il trascendente, rivendico questa pazzia e me la tengo ben stretta. Mi chiedi cosa leggo in Europa. Dei francesi adoro Le Clezio, che ho incontrato qualche volta sull’ultimo volo serale da Parigi a Nizza, e considero importante Houellebecq. Per quanto riguarda gli americani, dopo la passione per Scott Fitzgerald e Truman Capote, mi sono fermato a Norman Mailer, il “prigioniero del sesso”, con cui ho combattuto un piccolo incontro di boxe nel mio Fedeli d’amore, e alla Beat Generation.
Alzo il tiro. Da sempre, la tua ricerca ti ha portato a costruire una sorta di fusione tra Oriente e Occidente, affratellando Blake e Rumi, Shelley e Hafez, Whitman e Attar. Coniugare le anime nobili. Ti chiedo se Oriente e Occidente sono ancora concetti reali o non contenitori vuoti di senso. E di conseguenza, un tuo sguardo sullo sfascio in Medio Oriente, guerra tra terre sature di dio.
Vedi, più che di fusione io parlerei di costruzione di ponti. A un certo punto della mia vita ho sentito un richiamo verso l’Oriente e ho viaggiato con quel sentimento che Erodoto, padre di tutti gli scrittori di viaggio del mondo, chiamava “filo- barbaro”: cioè amando quello a cui si va incontro più di quello che ci si lascia alle spalle. Ma senza dimenticare nulla della propria civiltà. Ho viaggiato dal Marocco all’Iran, letto i classici della poesia araba, turca e persiana, frequentato a lungo Adonis, il maggior poeta arabo vivente, è lui che ha scritto una prefazione, in versi, alla antologia delle mie poesie tradotte in arabo. Ho cercato di capire amando. Sono stato ricambiato. Oggi ho continui inviti dal mondo arabo, ho avuto dal Regno del Marocco il premio internazionale Argana, sto partendo per passare un lungo periodo in Arabia Saudita per un soggiorno di scrittura creativa nell’oasi di Al Ula. Lavoro per un grande ponte spirituale in cui Occidente e Oriente possano incontrarsi senza perdere niente di sé, ma anzi accrescendosi. Se oggi Occidente e Oriente rischiano di collassare e diventare contenitori senza senso è proprio a causa dell’eclisse della poesia, della letteratura, dell’energia spirituale. È per il rullo compressore che Tecnologia & Potere Finanziario (il mix a cui si è ridotta la democrazia nella sua versione anglosassone, una faccenda da miliardari alla Elon Musk, che cinguetta già da padrone globale) stanno tentando di passare sul resto del mondo. Il predominio di questo tipo di democrazia porta inevitabilmente al predominio delle armi, un business spaziale. Nella Striscia di Gaza non si consuma uno scontro tra Ebraismo e Islamismo, ma tra il mondo ricco, di tecnologia, denaro e armi, e quello povero, di risorse e di forza. Le decine di migliaia di morti palestinesi, bambini, donne, vecchi, stanno a dimostrarlo. Una tragedia immane del XXI secolo, nel secolo scorso soltanto l’Olocausto è stato peggio.
Come può incidere la poesia nella Storia? Non è, proprio lei, la reietta, la malvista, la mai vista, l’inutile, la sterile?
“Oh poesie, je sais q’on te meprise et on te denie”. O poesia, lo so che ti disprezzano e ti negano. È il verso disperato di un maestro della poesia europea come fu Yves Bonnefoy, con cui ebbi la fortuna di passare bei momenti di conversazione appassionata. Molti dovrebbero avere il coraggio di dirlo: “a noi la poesia sta sui coglioni, non produce, non rende, non dà posti di lavoro, non è trendy e non è un brand, noi siamo uomini del fare, di impresa, di traffici, di profitti, di potere, di appalti, di grana”. Diffuso nella classe politica e imprenditoriale, anche nella classe dominante intellettuale, artistica si va diffondendo questo disprezzo silenzioso. C’è qualche eccezione: c’è chi ama la poesia con slanci generosi e innocenti, penso a Jovanotti. E chi riesce a parlarne con toni di speranza accorati e altissimi, esemplari, come Papa Francesco nella Lettera ai poeti che tu hai premesso alla illuminante antologia Versi a Dio, curata con Antonio Spadaro e Nicola Crocetti. La poesia è da sempre povera, reietta, esule. Pensa a Dante, alla sua vita di condannato, pensa a quando gli toccò di essere preso a schiaffi da un bastardo genovese della famiglia Doria. Il poeta subisce, ma rende pan per focaccia. Sa che la verità della vita è dalla sua. I due momenti in cui la poesia è stata più influente nella modernità vivono di maledizione e di trasgressione, di ribellione al mondo come è, penso ai poeti “maledetti” francesi, da Baudelaire a Rimbaud e alla Beat Generation da Ginsberg a Kerouac. E penso alla vitalità del nostro Ungaretti quando nel 1950 affermò il primato dello spirito come unico antidoto ai mali della società. Oggi poi la poesia dovrebbe essere ancora più ribelle, indomabile, irriducibile. Pronta a sognare in opposizione a una realtà appiattita e spiritualmente spenta.
Passo dall’altro lato del mondo. Gli Stati Uniti. Sono loro il nostro residuo Occidente? Non lo è, piuttosto… la Russia?
Cosa siano gli Stati Uniti oggi è un vero dilemma. Ti parla uno che ha tradotto Whitman, viaggiato da New York alla California, dalla Florida al New Mexico, amato il jazz di un amore esclusivo da quando aveva dodici anni, e il cui immaginario si è formato sul cinema americano: tutt’ora rivedo con rinnovato entusiasmo gli western di John Ford, le commedie di Billy Wilder e di Woody Allen, ho per film di culto quelli di George Lucas, Steven Spielberg, John Milius, Clint Eastwood. Devo confessare che anche Chuck Norris, quando prende ad acrobatiche pedate i cattivi, non mi dispiace. Allora cosa non mi va degli Stati Uniti? Prima di tutto la democrazia incompiuta, ormai schiava del binomio Tecnologia & Economia, Walt Whitman metteva già in guardia che la democrazia è in progress, che bisogna inventarla carnalmente, amorosamente giorno per giorno. Il predominio assoluto della cifra, i segni del conformismo della prima società di massa, la Coca Cola (mai bevuta una in vita mia). L’istinto di potenza proiettato sul mondo intero, con dollari e armi. La Russia, sul piano della cultura spirituale, è più in continuità con l’Europa dell’America. Che va dall’Atlantico agli Urali. Non ho mai letto un libro che sintetizzi lo spirito russo e quello europeo in maniera migliore di Guerra e Pace di Tolstoj. Un libro cui possono stare a pari soltanto l’Iliade e la Divina Commedia per grandezza, complessità, vitalità espressiva.
Al di là delle sue vicende politiche, la Russia è un momento imprescindibile della civiltà europea e occidentale.
Torno alla tua opera. Qual è, tra le tue tante, la poesia in cui ti rivedi, ti riassumi? Quale il romanzo, il protagonista, il passo?
La poesia in cui mi riassumo di più è non a caso una delle ultime che ho scritto, la poesia finale di Non finirò di scrivere sul mare (2019), intitolata Non c’è un’Itaca. Una poesia in cui dialogo con Kavafis, con la sua Itaca, e condivido con lui l’idea che non è il ritorno che interessa, ma il corso dell’esplorazione della vita, dell’amore e della scrittura. Non è il punto fermo, ma il flusso. Non so se è migliore delle poesie piene di delirio metamorfico che scrivevo da giovane. Ma è davvero quella che mi rappresenta meglio in quanto scrittore, quasi cerniera tra il mio lavoro in versi e quello in prosa. Il romanzo che preferisco… dovrei dirti Il terzo ufficiale (2002), un romanzo storico d’avventura, di mare, di utopia, di amore che ha avuto molto più rilievo nelle traduzioni francese e greca che in Italia, paese oggi refrattario ai temi eroici, e dove un personaggio come Floriano di Santaflora, maledetto, romantico, libertario, sconfitto, non può essere di casa. Ma con lo sguardo affettuoso che si ha con gli ultimi nati, devo dirti che considero il mio romanzo più compiuto proprio Nessuno può uccidere Medusa: un romanzo mitomodernista, dove c’è il mito, la Sicilia (terra dei miei padri, a lungo da me dimenticata), D. H. Lawrence sullo sfondo, la natura selvaggia, una ecologia dello spirito, la bellezza della lotta, il senso del nascere e rinascere, l’idea che la salvezza del mondo risieda nella resistenza del sacro e della pietà contro tutto ciò che nega l’umano.
A che pro, dunque, oggi, la poesia?
A che pro la poesia? Non so quale autore sudamericano, forse García Márquez, ma potrebbe anche essere Neruda, forse citato da Olivier de Kersauson, il sommo navigatore bretone, a una domanda simile ha risposto: e a che pro l’amore? Lascia che umilmente risponda anche io così.
Noto è il tuo spirito polemico, una tua poetica della politica. T’importa l’italica cagnara, il viavai dei Ministri della Cultura? Cosa faresti se avessi, d’improvviso, un compito politico così alto?
La mia poetica della politica è incompatibile con la politica come si pratica oggi in Italia. Mai come oggi sono stato lontano dai partiti. Eppure, rivendicherei la loro funzione come collettori di ideologie e di ideali. Sogno oggi una palingenesi, comitati di salute pubblica (La salute pubblica era il titolo del giornale a cui brevemente collaborò Baudelaire nel ’48 parigino) che riaffermino la centralità delle idee disinteressate, delle fedi, delle passioni civili contro l’egoismo cieco delle ambizioni di potere personale, dei traffici e degli affari, che lavorino per salvare l’umano e il pianeta dagli attacchi che stanno ricevendo. Le cagnare intorno al ministero della cultura… Per ragioni diversissime mi è capitato di incrociare gli ultimi due ministri. Sangiuliano a Parigi, con l’Italia ospite d’onore al Salone del libro. Lui con la sua scorta di politici dall’aria di vecchi notabili ha inaugurato la mattinata, e quando subito dopo è toccato a me di parlare introdotto da Marino Sinibaldi se ne è andato via, esimendomi così dal dovere di salutarlo al ricevimento in ambasciata quella sera stessa. Alessandro Giuli mi chiese da giovanissimo una prefazione a un suo librino di poesie, e io gliela scrissi, lo faccio ancora con ragazzi che mi mandano versi . Se per assurdo la politica mi offrisse qualcosa chiederei di occuparmi di scuola, sanità e trasporti soltanto incontrando gli incompetenti avanzi di magazzino sociologico che hanno devastato la scuola italiana e hanno stabilito i programmi, l’imbecille supremo che ha introdotto il numero chiuso a medicina e dato inconsapevolmente il primo colpo di piccone per sfasciare la sanità pubblica, infine i manager lardellati da liquidazioni milionarie che hanno distrutto il trasporto ferroviario e aereo: vorrei incontrarli per poterli guardare in faccia, redarguirli un po’ e chiamarli con il loro vero nome, come fa John Wayne nel western crepuscolare Il pistolero di fronte allo sceriffo pavido e corrotto: “Tu non sei uno sceriffo, sei uno stronzo”. Ma perché la sinistra ce l’ha sempre avuta con John Wayne?
Che cosa avresti voluto fare, ma ti è mancata l’occasione? Cosa sei fiero di aver fatto?
Avrei voluto fare il capitano di mare, ma più che l’occasione (avevo un Nautico vicino a casa) mi è mancata la bravura in materie come matematica e disegno. Avrei voluto anche fare il jazzista, suonavo il clarino a dodici, tredici anni, ma poi al Ginnasio è nata la passione per la letteratura e ha preso il sopravvento. Definitivamente. Non sono mai fiero di niente. Forse solo della mia libertà e del mio amore inesauribile per la vita e per la poesia. E forse della traduzione in gaelico del mio Canto irlandese in memoriam Bobby Sands, che mi dicono abbia girato nei pub di Dublino e di Belfast, e che oggi si legge nell’antologia Hunger Strike di Danny Morrison, insieme a scritti, tra gli altri, di Edna O’ Brien e di Ken Loach.
Se dovessi indicare un maestro: chi? Quale?
Tra i viventi, ti indicherei Adonis. Ma nel corso degli anni qualcosa ho imparato da Gillo Dorfles, Luciano Anceschi, Pietro Citati, Italo Calvino, Mario Soldati… e i poeti italiani mi dirai? Maestri da lontano: Camillo Sbarbaro, il giovane Montale, Ungaretti. Mi era molto caro Mario Luzi, ma non sono stato un suo allievo.
Che rapporto hai con il cristianesimo, con il cattolicesimo?
Baudelaire, disse un suo amico, era così educato che volle morire nella religione di sua madre. Anche io nel mio piccolo sono un uomo educato. Sono stato un politeista greco, un druida, un adoratore del Sole, un bramino indù, un taoista, un mussulmano, ma man mano mi sono riavvicinato alla religione in cui son nato, battezzato l’8 dicembre 1945 con i nomi cristiani di Giuseppe e Maria. La scristianizzazione in atto in Occidente mi sgomenta e mi rattrista. Temo per la fine della pietà, lo spirito cristiano per me è quello: pietà, fratellanza, uguaglianza, giustizia per i deboli, amore senza limiti per gli esseri umani e il creato, primato della sacralità della persona. Credo in un Dio d’Amore. Il cattolicesimo di Francesco mi richiama. Sono tornato a Messa qualche volta. La predica continua ad annoiarmi. Ma il rito, il mistero della carne e del sangue di Cristo mi sconvolge e mi commuove. Vorrei più fede. Non mi hai chiesto cosa mi manca di più. Ti avrei risposto: la fede, e l’innocenza.
Hai paura della morte?
Penso di morire da quando in terza Liceo morì il mio compagno di classe Pucci Lavezzari. Vivo costantemente con il pensiero della morte, soltanto l’amore, inteso anche come pura sessualità o come gioco riesce molto provvisoriamente a scacciarlo. E la musica. L’esercizio della preghiera è per me un confronto dolce con il mistero della morte. Ho ripreso a pregare dopo la morte di mio padre, nel 1986. E ora prego, più volte al giorno di un mussulmano. Paura, paradossalmente ne ho sempre meno invecchiando. Come se la morte non fosse che una parte invisibile e sconosciuta del ciclo della vita. Lo svelamento di una verità. Una indicibile promessa di resurrezione.