Nell’aprile del 1846 la pagina letteraria dell’“Halifax Guardian” pubblica strani versi, firmati Northangerland. Il titolo è lungo e singolare: Letter from a Father on Earth to his Child in her Grave, Lettera da un padre sulla terra alla sua bambina nella tomba. La lirica è cronaca di una disperazione. Northangerland è uno dei tanti nom de plume di Branwell Brontë, a volte anche suo alter ego nelle saghe infantili: da tempo lui firma Northangerland quel che gli pubblicano, quasi volesse scomparire, quasi il suo nome vero fosse un disonore per sé e la famiglia. Il giornale è molto diffuso nella regione dello Yorkshire che ha per centro Halifax, e letto anche dai Brontë alla canonica di Haworth.
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La Lettera non sembra però un semplice rifacimento di lavori precedenti, il che per Branwell è diventata un’abitudine. Spesso stanco, ubriaco o depresso, ha imparato a rielaborare di continuo, a rivedere vecchie composizioni perché gli mancano energia, fantasia e forza per scrivere versi originali. Non in questo caso.
La lirica si apre su un motivo tradizionale, il ritorno della primavera che riemerge dall’aria fredda dell’inverno e sfiora l’erba avvizzita, dove nuovi fiori si apriranno presto sotto la pioggia d’aprile. È l’ennesima variante del topos: la ciclicità delle stagioni, con la pioggia vivificante, le raffiche di vento – infatti “dolce” – e la convenzione poetica della vita che ricomincia:
Dalla Terra, – le cui piogge d’aprile che rifondono vita
Celano erba morta d’inverno sotto fiori di primavera
E, con ogni vento dolce portatore di pioggia,
Ridanno promesse di campi e foreste verdi –
From Earth, – whose life-reviving April showers
Hide winter’s withered grass ‘neath springtide flowers,
And give, in each soft wind that drives the rain,
Promise of fields and forests green again — (vv. 1-4)
Branwell sembra rivolgersi direttamente alla bambina che forse è sua figlia, nata da una fugace relazione e morta prematuramente. L’epicedio svolge anche l’idea un poco stereotipata che la morte, se ha precluso alla piccola ogni gioia, l’ha anche riparata dal dolore inevitabile sulla terra. Se fosse vissuta
La luna più brillante avrebbe coperto
Il sole con improvviso velo di nuvole,
brightest noon may shroud
Our sunshine with a sudden veil of cloud (vv. 29-30).
I versi ripetono una frase inclusa in una lettera all’amico Francis Grundy, “Quelle gioie tormentate presto punite dalla paura”, Those ‘troubled pleasures soon chastised by fear’ (v. 42). E la “paura” dà il tono dominante ai pensieri dell’autore.
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La letteratura non è più per Branwell forza dell’immaginazione. Meno ancora occasione di ore felici: il ragazzo d’oro, la promessa della casa che una volta aveva sognato la gloria della poesia si è perduto in un passato irrimediabile.
Più o meno nello stesso periodo disegna Lydia Robinson, il suo amore impossibile, come Nostra Signora del Dolore. Vive nello sconforto. In giugno le dedica un’altra poesia e in autunno rivela sempre in versi di guardare alla morte come all’unica consolazione al dolore e alla difficoltà di vivere. Si firma invariabilmente Northangerland. In letteratura può succedere: sensibilità diverse possono produrre echi o suggestioni di consonanza, misteriosamente inspiegabili ma chiari.
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Oltre ogni speculazione critica più o meno valida e l’impalcatura iconografica che li sorregge, nei primi versi di questa lirica di Branwell – nota quasi esclusivamente ai brontëani – colpisce l’affinità con altri versi d’esordio, invece notissimi: l’inizio della Waste Land.
Sia Branwell sia Eliot interpretano la concezione classica della primavera che ridà vita alla natura dopo il freddo riposo dell’inverno. Simili sono atmosfera e vocabolario, con aprile e le sue piogge che rinvigoriscono la terra, l’avvicendarsi delle stagioni e la transizione tra inverno e primavera, tuberi e foglie marcite a simbolo di morte, gemme e nuovi fiori a simbolo di rinascita. L’imagery della tomba e della morte è esplicita già nel titolo di Branwell. Analogamente, la morte appare nel titolo del primo “quadro” eliotiano, The Burial of the Dead, La sepoltura dei morti – mentre la ‘tomba’ è implicita nell’atto della “sepoltura” – e in aggettivo appare poi attribuita alla terra – “terra morta”. La morte, paralisi morale e fisica dei protagonisti è lo scenario.
Con alcune lievi variazioni sulla nota dominante: earth in Branwell diventa land in Eliot. Il “dolce vento che porta la pioggia” si riduce a “pioggia di primavera” con l’omissione dell’aggettivo “dolce”, inconsistente con la tragedia soffocante della Terra desolata. Il semplice verbo brontëano give “danno”, è elaborato in breeding, “generano”, e i “fiori di primavera” in “lillà”, prima di essere indirettamente rievocati nelle “radici sopite” e “tuberi secchi”, che le piogge d’aprile risvegliano in corolle viola (“radici sopite” e “tuberi secchi” chiudono tra l’altro l’equivalenza con l’allusione all’inverno dell’“erba morta”, o “secca”, withered, di Branwell).
Nella tradizione culturale americana i lillà hanno un significato preciso: inseriti da Walt Whitman nell’elegia in morte di Lincoln, When Lilacs Last in the Dooryard Bloom’d, from Memories of President Lincoln – che Eliot certo conosceva –, i lillà sono sempre associati alla morte. Citandoli, Eliot consolida la sostanza della terra desolata. Whitman continua: “Io (…) sarò in lutto a ogni primavera che ritorna …” (v. 3).
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Per riprendere l’abbozzo di paralleli e varianti da Bronte a Eliot, “le piogge d’aprile che rifondono vita” di Brontë sembrano trattenere l’immagine entro confini più o meno classici. Eliot conserva alla pioggia d’aprile la scintilla vitale, ma il twist modernista deturpa la leggiadria della stagione – contribuendo a rendere celeberrimo l’esordio: “Aprile è il mese più crudele”. La crudeltà sarà un altro architrave del poemetto. Se poi i due sostantivi eliotiani, memory and desire, fronteggiano insieme passato e futuro, Branwell considera esclusivamente il ricordo, ma elude il desiderio. Disillusione e dolore per la bambina negletta lo prostrano.
L’antinomia inverno/assenza di vita e primavera/ritorno della vita inscena ghiacciata bellezza: “l’erba morta d’inverno” (v. 2) della Letter giace “nascosta” sotto la fioritura e l’imagery dell’inverno è ripresa più avanti da “nevischio e venti del nord” (v. 56). Le “radici sopite” eliotiane, ugualmente sepolte, assumono invece un’aperta voce lirica: “L’inverno ci mantenne al caldo, coprendo / Con immemore neve la terra”. L’oblio della neve varia ancora una volta il tema del sonno – d’inverno o di morte – nel regno di Lete.
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Il movimento dei versi di Branwell è più lento, la “promessa” di una nuova vita non sembra in effetti aprire aspettative future e piuttosto si ferma, restando circoscritta al ciclo della natura eterno ma inevitabile, e al pessimismo dell’autore. Dimensione quasi solipsistica, scissa tra la mancanza di memoria e un unico desiderio: tacitare la sofferenza.
La bambina morta anzi tempo non soffrirà quel che altri soffrono sulla terra, come dichiarano gli ultimi versi: tutti qui vivono nell’angoscia, come suo padre che le parla “dai confini della disperazione” (v. 70). Se lei aveva e ha perduto “bellezza, innocenza, e sorriso” ha guadagnato in compenso “riposo dalle sofferenze e gli inganni di questo mondo”, si è lasciata indietro l’“agitazione e l’ansia del mondo” (vv. 64-6). Paradossalmente, Branwell non si accorge di parlare qui come molte volte ha sentito – e non senza impazienza – suo padre Patrick parlare a lui. La bambina è in ogni caso in pace: “TU sei libera da ogni ansia!” (v. 71)
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Per quanto uomo di letture enormi e diffuse, è quasi impossibile stabilire se Eliot abbia davvero letto questi versi di Branwell Brontë. O fino a che punto un poeta ne influenzi un altro: nemmeno lui, ripeteva Goethe, riusciva a ricordare tutti gli autori che avevano avuto un peso sulla sua opera.
Fonti disparate possono aver ispirato Branwell Brontë e Eliot, con l’Ode to the West Wind di Shelley tra le più probabili. Immagini, la scelta di un determinato vocabolario ricorrono, come l’iconografia classica delle stagioni o l’opposizione altrettanto classica vita/morte.
Modelli presenti già nella poesia latina e greca e nei bellissimi versi dall’Iliade, letta e tradotta alla canonica di Haworth: “Gli uomini vengono e vanno come foglie di anno di anno sugli alberi. / Le foglie d’autunno il vento le sparge a terra, / ma quando la primavera torna i boschi fioriscono di piante nuove. / È così con le generazioni degli uomini, una nasce, l’altra scompare”. La traduzione inglese è più fedele alla versione di Branwell e di Eliot: Men come and go as leaves year by year upon the trees. / Those of autumn the wind sheds upon the ground, / but when spring returns the forest buds forth with fresh vines. / Even so is it with the generations of mankind, the new spring up as the old are passing away. (VI, vv. 146-9)
Il vento shelleyano è “respiro ed essenza dell’autunno”, potenza che “trascina / le foglie morte …” (vv. 1-2). Destinati in natura a decadere, foglie secche e “semi alati” sono sospinti al loro “buio letto d’inverno” nella terra, “dove giacciono freddi e deboli …” (vv. 6-7). Fin qui, l’ode rivisita con fedeltà il topos. Ma una volta collocatosi nel solco della tradizione, Shelley devia e la modernizza. Non poco: le sue foglie e i suoi semi sono posti a dormire dentro la terra quasi cambiati in esseri umani, “Ognuno come una salma nella sua tomba” (vv. 6-8).
La metamorfosi è centrale – nella Waste Land Stetson aspetta che il “cadavere” che ha “piantato” in giardino “germogli”, “fiorisca”, e Shelley chiude l’ode e lo scenario d’inverno rientrando nel canone. I semi dormiranno finché primavera, “azzurra sorella del vento”, tornerà “sopra la terra sognante” a svegliarli, a diffondere “teneri germogli” e riempire “di tinte viventi e aromi campi e colline.” (vv. 10, 12)
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Che esista davvero una triangolazione Shelley-Brontë-Eliot? Rileggendo gli ‘attacchi’, emotivamente e stilisticamente azzarderei un sì.
Una volta di più, ecco la Waste Land:
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers. (The Burial of the Dead, vv. 1-7)
Aprile è il mese più crudele, genera
Lillà da terra morta, confonde
Memoria e desiderio, risveglia
Radici sopite con la pioggia di primavera.
L’inverno ci mantenne al caldo, coprendo
La terra con immemore neve, nutrì
Una misera vita con secchi tuberi.
Secondo Brodskij uno scrittore è un paradosso vivente, perché tanto più ricco quanto più indebitato con predecessori o contemporanei. L’ipotesi che il grande modernista Eliot possa, pur con minime probabilità affermative, esser “indebitato” verso Branwell Brontë, il ragazzo sfortunato che era stato amato dagli dei, Branwell l’appassionato amante respinto, Branwell il fratello “infernale” delle più dotate e risolute sorelle, Branwell che molte cose aveva iniziato e nessuna aveva concluso, Branwell l’ubriaco e l’oppiomane diventato un disonore per sé e la famiglia; che l’opera simbolo del ’900 possa aver desunto qualcosa del suo celebre incipit – cosa e come non è, poi, tanto rilevante – da una tarda poesia di Branwell scompiglia ogni presunzione, insinua fertile dubbio, lascia una piccola gioia.
Paola Tonussi
*In copertina: Thomas S. Eliot fotografato da Cecil Beaton, 1956