Come Sylvia Plath, i suoi genitori, Otto e Aurelia, hanno dovuto sopportare un difficile fardello. La Plath ha usato i genitori – e tanti altri – come materia per la propria scrittura. Esistevano come persone reali, di cui desiderava le lodi, ma erano, allo stesso tempo, una risorsa per il proprio immaginario. Erano per lei, ma non per lei: uno specchio che rifletteva ogni possibilità, e che lei scandagliava, esaminandone la profondità, i reconditi. Cominciò a capire che nei genitori giaceva la radice delle proprie ansie, e, incoraggiata dallo psichiatra, dalla fine degli anni Cinquanta, cominciò a scagliarsi contro di loro, prima nei diari poi nelle poesie. La Plath rimproverava a suo padre l’assenza e alla madre la spudorata prossimità. Restavano caricature distorte, cementate nell’ambra. Nella poesia più celebre, Daddy Otto – che morì quando lei aveva otto anni – è un tiranno patriarcale, un “bastardo” nazista. Aurelia, infilata in The Bell Jar, è la martire armata che esige la perfezione della figlia. Ma se la Plath ha ereditato ansia e depressione dai genitori, è pur vero che da loro ha ricevuto pure l’intelligenza, la disciplina, l’ambizione.
Nel caso di Otto Plath, il mito ha oscurato la verità. Per molti lettori della Plath, Otto è il papà ariano e nazista. In effetti, Otto Plath, convinto pacifista che rinunciò alla cittadinanza tedesca nel 1926, aveva guardato con trepidazione all’ascesa di Hitler. Si atteneva a rigidi codici morali; si attendeva che gli altri facessero altrettanto. In una fotografia scattata quando era studente universitario nel Wisconsin, intorno al 1910, dà l’idea di un uomo che malsopporta gli sciocchi. Siede in primo piano, tra coetanei ubriachi, tenendo in mano il boccale. È un giovane serio e motivato, che non permette che i suoi ideali siano compromessi, anche se ciò significa rompere con la famiglia. Un rigore che agì profondamente nell’indole della figlia.
Almeno tre generazioni della famiglia Plath hanno vissuto nella provincia di Posen, nella Prussia occidentale, prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Oggi Posen (Poznan) è parte della Polonia, nel cosiddetto ‘Corridoio polacco’: fu concessa dall’Impero tedesco alla Polonia dopo il Trattato di Versailles del 1919. Come il territorio dell’Alsazia-Lorena, fu oggetto di grandi contese, e di tensioni tra polacchi e tedeschi. Nonostante la maggior parte degli abitanti fosse polacca, Hitler tentò di annettere quel territorio nel 1939 in uno dei primi atti di aggressione che spinsero Francia e Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania. Sebbene Otto Plath abbia lasciato Posen nel 1900, ben prima dello scoppio delle due guerre, per Sylvia avrebbe sempre rappresentato il ritratto dell’aggressione imperialista tedesca.
Posen, la cui popolazione comprendeva tedeschi, polacchi ed ebrei, che vivevano in enclave etniche separate, era forse la provincia più povera della Prussia. Verso la fine dell’Ottocento, i tedeschi, attirati dalla fiorente economia industriale che si era sviluppata nel Reno e nella Ruhr, come dalla libertà americana, iniziarono a lasciare la regione in massa. Più di due milioni erano partiti agli inizi del Novecento, compresi i bisnonni paterni di Sylvia Plath, i nonni, gli zii, le zie, il padre. Il bisnonno, Johann Plath, era un contadino analfabeta, ma il nipote, Otto, sarebbe diventato professore ad Harvar, e la pronipote un poeta pionieristico. Il ‘perfezionismo’ di Sylvia, spesso ridotto a deriva patologica, deve essere compreso nel contesto storico e sociologico dell’immigrazione americana, che ha incorniciato la sua vita. Il desiderio di eccellere su tutti i fronti ha le sue radici nell’etica del lavoro, nello spirito tedesco che è la sua eredità.
L’origine tedesca di Otto Plath era importante per la figlia. Sylvia ha scritto spesso di avvertire “in modo molto forte le mie radici tedesche”; le ha confessate all’amico di penna Hans-Joachim Neupert. “Sento una potente affinità con tutto ciò che è tedesco”, gli scrive nel 1949. “Penso che il tedesco sia la lingua più bella del mondo, e ogni volta che sento qualcuno parlare in tedesco o che ha un nome tedesco provo una improvvisa intimità segreta”. Quando leggeva Thomas Mann sentiva ribollire in lei una sorta di “orgoglio patriottico”; ascoltava Bach e Beethoven, leggeva Nietzsche e Goethe con la madre. La sua era una doppia eredità, però, poiché le era stato detto che durante la Prima guerra la famiglia di sua madre era stata molestata dai vicini irlandesi e italiani, a Winthorp, Massachusetts. Sylvia era preoccupata che durante la Seconda guerra alcuni membri della famiglia potessero essere internati in un campo per tedeschi americani. Il padre era stato arrestato nel 1918 dall’Fbi per presunte simpatie filo-tedesche. Nel dicembre del 1958 abbozzò sul suo diario la trama di un racconto – che sarebbe diventato The Shadow – centrato su una giovane tedesca americana trattata con sospetto dai vicini durante la guerra: “Il tema riguarda la consapevolezza di un complicato sistema di colpa a cui sono soggetti i tedeschi in una comunità ebraica o cattolica… Il bambino non può capire. Come può essere colpevole della detenzione di suo padre?”.
Sylvia ha compreso, fin da giovane, che l’identità tedesca condivisa con il padre era in qualche modo pericolosa – fonte di segreta vergogna.
I diari della Plath registrano la sua frustrazione nell’incapacità di padroneggiare la lingua tedesca. Ancora nel 1962 ascoltava dischi in lingua tedesca, si sintonizzava sul programma radiofonico tedesco della BBC. Poco prima di morire, nel 1963, ha assunto una ragazza alla pari di lingua tedesca. Sylvia era figlia di un immigrato tedesco e di una austriaca di prima generazione, che aveva studiato lingua e letteratura tedesca e conosceva il tedesco. I genitori di sua madre, gli Schober, parlavano tedesco in casa. Nonostante eccellesse in molte materie, non le veniva facile il tedesco. Alcuni biografi ritengono che il cognome Plath fosse in origine “Platt”, e che sia stato anglicizzato una volta negli Stati Uniti. Secondo un membro della famiglia, il cognome in Germania suonava come “von Plath”. I bisnonni paterni di Sylvia, John (Johann) von Plath e Caroline (Katrina) Katzsezmadek, nacquero nella regione di Posen rispettivamente nel 1829 e nel 1826. Johann era tedesco e luterano, Katrina polacca e cattolica: la coppia superò le divisioni per sposarsi negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Hanno allevato i figli come luterani, nonostante le tensioni religioni aleggiassero nella vita matrimoniale. Parlavano polacco e tedesco. Ebbero otto figli: Theodore, padre di Otto, nato nel 1850, era il maggiore. I sei che sopravvissero fino all’età adulta, emigrarono tutti in America, tra il 1882 e il 1901, e si stabilirono nel Nord Dakota, Illinois, Wisconsin, Oregon.
Il fatto che tutti i von Plath siano emigrati suggerisce che non prosperassero a Posen. Negli Stati Uniti diventarono fabbri e sarte, macellai, operai per le ferrovie. Mary Plath subì un destino particolarmente oscuro. Secondo le storie tramandate nella famiglia, si innamorò di un giovane di Cando, in Nord Dakota, mentre era in visita ai parenti. Rimase incinta, ma lui la lasciò per un’altra donna. Abbandonata e sola, si rifugiò in una pensione a St. Paul, Minnesota, dove muore di parto. La morte di Maria racconta del prezzo da pagare se si devia dai tradizionali codici di comportamento luterani.
Il figlio maggiore di John e Caroline, Theodore Friedrich, sposò Ernestine Kottke (nata nel 1853) in una chiesa protestante di Posen, nel 1882. Lui aveva 32 anni, lei 29: fu un matrimonio tardivo, per l’epoca. Ernestine è la madre di Otto, la nonna di Sylvia Plath. Theodore ed Ernestine ebbero sei figli: Otto, Paul, Max, Theodore, Hugo, Martha, Frieda, tutti nati tra 1885 e 1896. Un altro bambino, nato quando Ernestine aveva solo 19 anni, fuori dal matrimonio, morì quasi subito. Ernestine crebbe i bimbi da sola, perché il marito si assentava per lunghi periodi: vendeva attrezzature dell’azienda McCormick in Germania, Polonia, Francia e Russia. Imparò molte lingue durante i suoi viaggi: un talento ereditato dal figlio Otto.
Il lavoro di Theodore in Germania era stabile e ben retribuito: verso la fine del secolo, però, la McCormick fu restaurata e in seguito i familiari ipotizzarono che Theodore fosse stato licenziato. In ogni caso, Theodore partì da Amburgo il 3 marzo del 1901, approdando a New York sedici giorni dopo. A cinquant’anni, fu l’ultimo dei fratelli von Plath a emigrare. Approdò negli Usa con 125 dollari e nessun contratto di lavoro, con l’intenzione di trasferirsi dalla sorella Mathilde e dal marito, a Chicago. Ernestine salpò da Liverpool, arrivando a St. John, Canada, nel dicembre del 1901, con cinque dei sei figli piccoli. Si trasferì prima a Maza, in Nord Dakota, dove un fratello di Theodore, Emil, lavorava come fabbro, e dove dopo poco si riunì con il marito. Vissero a Maza fino al 1907; quell’anno si traferirono a Harney, Oregon; nel 1912 erano a Oregon City. Theodore era impiegato come fabbro e agricoltore.
Da quel momento, Ernestine scompare dalle cronache. Ernestine Plath risulta morta nel settembre del 1919 all’Oregon Hospital for the Insane. Theodore l’aveva affidata al manicomio di Salem nell’ottobre del 1916. Aveva 63 anni. Secondo il modulo di ammissione, la sua salute fisica era stata “normale” fino al 1905, quando Ernestine accusò il primo episodio di “follia” nel Nord Dakota. Il medico che ha accolto Ernestine la trovò “molto depressa, intimidita… allucinata… non parlava”. L’infermiera osserva che era “ben nutrita, pulita, ma indifesa”. Dalle note ospedaliere sappiamo che la donna aveva i capelli scuri, gli occhi azzurri, era alta poco più di un metro e mezzo. “Si alza dal letto… pensa che qualcuno voglia ucciderla. Implora di tenerla tra di noi, ha paura di essere allontanata”. La diagnosi provvisoria del medico: “demenza senile”.
Heather Clark
*In questa pagina si pubblica parte di un capitolo, “The Beekeeper’s Daughter. Prussia, Austria, America, 1850-1932”, della nuova biografia dedicata a Sylvia Plath da Heather Clark. Il libro, edito da Penguin Random House, s’intitola “Red Comet. The Short Life and Blazing Art of Sylvia Plath”