20 Aprile 2019

“Conosco tutti i Cristi appesi nei musei; ma Tu cammini, Signore, questa sera, i passi miei”: la “Pasqua a New York” di Blaise Cendrars

“L’unico vero poeta che v’incontrai mai fu Blaise Cendrars”, scrive Ernest Hemingway in Festa mobile a proposito del caffè La Closerie des Lilas.

“Costruire la propria vita è una questione di vita o di morte”, scrive Blaise Cendrars a suo fratello Georges da San Pietroburgo nel settembre 1911.

Però non si firma Blaise Cendrars. Perché Blaise Cendrars non esiste. Non ancora… A scrivere è Freddy Sauser e come tale firma parlando dei suoi progetti, inquietudini e ossessioni, dalla Russia in cui si era fatto spedire a lavorare come commerciante d’orologi per allontanarsi dalla troppo borghese, e puritana Svizzera in cui era nato, a La Chaux-de-Fonds, vicino Neuchâtel.

Non vuol diventare giurista di fama come il fratello, né musicista anche se suona il piano e compone, né accademico, anche se ha avuto in mente ben due tesi, alla Sorbona, una su Balzac e gli autori inglesi, l’altra sui teorici del Rinascimento italiano. Perché non vuole avere un mestiere, per essere un uomo libero. Sebbene ciò voglia dire far fatica, vivere di espedienti, galérer.

Sotto l’influenza di Baudelaire e di Verlaine ha cominciato a scrivere, e non solo a disegnare, e nel 1909 c’è stato l’incontro capitale, tramite Apollinaire, con Remy de Gourmont, che in Bourlinger definirà “spirito senza pregiudizi, divoratore, distruttore, universale, scettico, volgarizzatore, irrispettoso, erudito e filosofo, dissociatore d’idee”, personale padre letterario: “Non sono il figlio di mio padre”, afferma infatti in Au cœur du monde, poema in cui millanta d’esser nato al 216 di rue Saint-Jacques, “nella casa in cui fu scritto il Roman de la Rose”, il cui manoscritto, nel primo volume della sua tetralogia autobiografica, L’Homme foudroyé, dice aver chiuso in una cassa inchiodata e riposta in una stanza segreta in una casa di campagna, gesto sepolcrale di crocifissione, poi di confessione e resurrezione, con la poesia che si tramuta in prosa matura senza snaturarsi, perché Cendrars resta fedele a ciò che disse commentando La prosa della Transiberiane e della piccola Jehanne di Francia: “Tutta la vita non è che un poema, un movimento. Non seguo che una parola, un verbo, una profondità, nel senso più selvaggio, più mistico, più vivo.”

Le Livre des masques di Gourmont segna la scoperta del mondo come rappresentazione, da cui lo pseudonimo per dirsi figlio della poesia francofona (Villon, Nerval, i simbolisti) pur non mancando di amare i tedeschi (Novalis, Nietzsche e Rilke). Di nazionalità francese diventerà combattendo con la Legione straniera nelle trincee della Grande Guerra. E quando un amico gli chiederà se Blaise Cendrars è il suo vero nome, gli dirà che è il suo nome più vero.

Forse, mere ipotesi, è l’amore per Charles Baudelaire che gli fa scegliere uno pseudonimo che contiene le stesse identiche lettere, come in un anagramma, imperfetto solo in quanto la “n” serve a evocare le parole francesi che indicano la cenere, il sangue, la rarità. Dietro c’è tuttavia anche una ragione famigliare e pratica, non volendo nuocere alla reputazione del fratello…

*

L’io che da Pasqua a New York arriverà alle opere autobiografiche è la messa in scena di un essere che tutto assorbe del mondo per osmosi diretta. E ovviamente attraverso la scrittura e la poesia. E che ovviamente assorbe anche l’altrui poesia. Su tutte quella del suo “maestro” Gourmont: Sixtine è all’origine del romanzo Moravagine; i suoi versi all’origine di Pasqua a New York. In quello che l’amico letterato Albert t’Serstevens chiama “stile d’incantamento” quest’opera conserva una ritmica ottocentesca che si fa però improvvisamente moderna, già quasi pronta a esplodere a bordo della Transiberiana per poi mutarsi, con una lenta trasfigurazione, nella pazzesca prosa di Moravagine e poi della tetralogia autobiografica, in un linguaggio che lo stesso t’Serstevens dice essere un “fiume amazzonico che trasporta a un tempo pepite d’oro e fango, diamanti grezzi e scorie, alberi morti e isolotti di fiori esotici [e che] non poteva che sommergerli nella sua corrente impetuosa”.

Blaise Cendrars… Sarà tacciato di antisemitismo, nel XIX e XX secolo un imprimatur per la grandezza letteraria. Sarà indirettamente attaccato da Breton per via del suo girovagare. A sua volta accuserà il gruppo surrealista di esser dei figli di papà. Dadaista della prima ora, non può sopportare critiche e manifesti… Fa ben altre scelte. “A partire dal 10 maggio 1940 il surrealismo era sceso in terra, non opera dei poeti assurdi che si pretendono tali e che sono tuttalpiù dei sub-realisti, visto che predicano il sub-cosciente, ma l’opera cosciente del Cristo, l’unico poeta del surreale…” (Verità).

Cendrars rompe col milieu letterario di Parigi, cui preferisce i viaggi, e nel corso di dieci anni, in un castello fuori città scrive in modo intermittente Notre pain quotidian, opera leggendaria che pare abbia chiuso in alcuni bauli, in giro per il mondo, buttandone a mare le chiavi. Mitomania? Forse invece bisogno di anonimato. Lo stesso delle incessanti partenze… Come in Russia. Poi a New York. Occhio alle parole: partir, compartir, pain, copains. È l’amico t’Serstevens a evidenziare questa serie… Partire e dividere-spezzare, il pane, con gli amici. Partire è rinascere. C’è Cristo nell’aria.

*

Con le donne è stato timido, nonostante una certa spacconeria verbale e legionario, poi virile ma morigerato, fertile condizione per artisti e mistici. Le sue prime tre fidanzate hanno subìto morti violente e prematuro, un colpo di fucile, una condanna per cospirazione in Russia, un incendio in casa. A New York aveva raggiunto l’amata Féla, la madre dei suoi tre figli, prima di incontrare la sua “Beatrice” Raymone, attrice di Carné e di Duvivier. Féla sta insegnando francese agli immigrati… Ma per Cendrars lavorare è una maledizione. Vuol solo scrivere. Per un po’ si piega. Ma solo per poco… La notte di Pasqua, in un minuscolo alloggio nella metropoli, colto dalla disperazione per sé e per l’umanità che si vede attorno, si rivolge a Gesù… Troppa morte lo circonda, ma crede in ciò che è eterno, Dio. La vita, l’amore e l’arte sono per lui parole per la stessa cosa. È la sua religione… Per la prima volta si sente libero scrivendo… Per la prima volta si firma Blaise Cendrars…

Nel 1949, ne Le Lotissement du ciel, l’ultimo capolavoro autobiografico, esplode in grida di gioia: “Ah! […] Non c’è che questo di vero per non condannare la vita e maledirla. I Santi, i Bambini, gli Uccelli e i Fiori, dei pazzi, dei doni gratuiti”. I Padri della Chiesa sono tra i suoi maestri… Scrive l’amico Henry Miller: “Non è inattivo: rifiuta, rigetta”. È un sì o no molto cristiano. A proposito di sì, nel 1959, a settantadue anni, si sposerà con Raymone dopo un matrimonio bianco, facendosi battezzare poco prima della morte…

Marco Settimini

***

Pasqua a New York

A Agnès

 

Flecte ramos, arbor alta, tensa laxa viscera
Et rigor lentescat ille quem dedit nativitas
Ut superni membra Regis miti tendas stipite…

Fortunat, Pange lingua

 

Fletti i tuoi rami, albero gigante, rilascia un po’ la tensione delle viscere,
E che il tuo naturale rigore s’allenti,
Non squartare cosi rudemente le membra del Re superiore…

Remy de Gourmont, Il latino mistico

 

Signore, oggi è il giorno del tuo nome,
Ho letto in un vecchio libro le gesta della tua Passione,

La tua angoscia e i tuoi sforzi e la tua parola clemente
Pianger nel libro, monotona, dolcemente.

Mi parla della tua morte un monaco di tempi passati.
Tracciava la tua storia in caratteri dorati

In un messale che sulle sue ginocchia posava.
Piamente, ispirandosi a Te lavorava.

Seduto al riparo dell’altare nella sua bianca tunica,
E lentamente lavorava dal lunedì alla domenica.

Il tempo oltre la soglia del suo ritiro si fermava.
Chino sul tuo ritratto, di sé si dimenticava.

Il buon fratello non sapeva se era il suo d’amore
O se era il Tuo, o di tuo Padre, Signore,

I cui grandi colpi alle porte del monastero battevano
Ai vespri, quando nella torre le campane salmodiavano.

Sono come quel buon monaco, stasera, sono agitato.
Nella stanza a fianco, un essere muto e sconsolato

Attende dietro la porta, attende che io lo chiami – io!
È l’Eterno – sei Tu ed è Dio, sono io.

Non Ti ho conosciuto quand’ero bambino, – né ora.
Non ho mai pregato da piccolo, nemmeno allora.

Stasera tuttavia penso a te con paura atroce
L’anima mia è una vedova in lutto ai piedi della tua Croce.

L’anima mia è una vedova in nero, – è tua Madre
Senza lacrime e senza speranza, come la mostra Carrière.

Conosco tutti i Cristi appesi nei musei;
Ma Tu cammini, Signore, questa sera, i passi miei.

Scendo ai bassifondi della città, con passo spedito
Schiena curva, spirito febbrile, cuore avvizzito.

Come un grande sole son le tue coste spalancate
Di scintille le tue mani son tutte contornate.

I vetri delle case tutti coperti di sangue
E le donne, dietro, son come dei fiori di sangue,

Delle orchidee, strane malvagie piante appassite,
Calici rovesciati sotto le tue tre ferite.

Del tuo sangue raccolto, mai si sono abbeverate.
Col rosso le labbra e col pizzo il culo si son decorate.

Della Passione come ceri son bianchi i fiori,
Del Giardino della Buona Vergine ecco i più dolci fiori.

È verso quest’ora, è verso le nove, Signore,
Che la tua Testa cadde sul tuo Cuore.

Io, di quest’oceano siedo sul bordo
E di un cantico tedesco ora mi ricordo.

In cui si dice, con parole dolci, semplici e pure,
La bellezza del tuo Volto durante le torture.

Nella cripta di una chiesa a Siena ho scorto,
Alla parete, sotto una tenda, lo stesso Volto.

E a Bourrié-Wladislasz, in una dimora isolata,
In una teca per reliquie, è tutta dorata.

Gemme opache al posto dei tuoi occhi;
Per baciarli i contadini si metton sui ginocchi.

Impressa è sul velo della Veronica;
Ed è per questo che la Tua santa è Santa Veronica.

È la miglior reliquia portata per le campagne,
Guarisce tutte le malattie e forze maligne.

Fa anche mille e mille altri miracoli,
Ma io non ho mai assistito a questi spettacoli.

Forse la fede e la bontà mi mancano, Signore,
Per veder della tua Bellezza cotale splendore.

Tuttavia, Signore, un pericoloso viaggio ho dovuto fare
Per la tua immagine di berillo, per poterla contemplare.

Fa’, Signore, che nelle mani cui è appoggiato il mio volto
Esso lasci cader la maschera d’angoscia da cui sono avvolto.

Fa’, Signore, che le mie due mani che alla bocca sto per portare
La schiuma di una feroce disperazione non debban leccare.

Sono triste e sofferente. Forse a causa Tua,
Forse a causa di un altro. Forse a causa Tua.

Signore, la folla di poveri per cui ti sei sacrificato
È qui, stipata negli ospizi, come bestiame ammassato.

Immensi battelli neri giungon dagli orizzonti
E li sbarcano alla rinfusa su banchine e ponti.

Ci son dei greci, degli spagnoli, degli italiani,
Dei mongoli, dei russi, dei bulgari, dei persiani.

Ci son delle bestie da circo che scavalcano i meridiani.
Gli gettano un pezzo di carne nera, come si fa coi cani.

Questa schifosa razione è la loro felicità,
Signore, dei popoli sofferenti abbi pietà.

Signore, nei ghetti le turbe d’ebrei brulicano
Sono tutti fuggitivi che dalla Polonia sbarcano.

Ti han fatto il Processo, lo so perfettamente;
Ma t’assicuro, non tutta malvagia ne è la mente.

Nelle loro botteghe sotto delle lampade d’ottone,
Vendon vecchi abiti, libri, qualche arma e munizione.

Rembrandt dipingerli nelle loro vecchie vesti ha molto amato.
Io stasera un microscopio ho mercanteggiato.

Ahimè! Signore, dopo Pasqua Tu qui più non ci sarai!
Signore, pietà per gli Ebrei nelle baracche, se puoi.

Signore, le umili donne che sul Golgota ti accompagnarono
In fondo ai cabaret, su immondi divani, si nascondono.

Dalla miseria degli uomini sono inquinate.
Nel rum nascondono il vizio incallito che le ha spogliate.

Dei cani gli han roso le ossa, Signore,
E quando una di queste donne mi parla, sento un malore.

Vorrei esser Te per amar le prostitute.
Signore, abbi pietà delle prostitute.

Sto nel quartiere del ladruncolo, Signore,
Del vagabondo, di chi va a piedi nudi, del ricettatore.

Penso ai due ladroni che eran nel Supplizio ad accompagnarti
So che di sorrider della loro sfortuna sai degnarti.

Signore, uno vorrebbe un nodo in fondo a una corda
Ma non è gratis, costa venti soldi, quella corda.

Ragionava come un filosofo, quel vecchio bandito,
Gli ho dato dell’oppio e più in fretta in paradiso l’ho spedito.

Penso al monco col suo organo di Barberia, al musicista,
Che vive in strada, e anche al cieco violinista,

Alla cantante col cappello di paglia con le rose di panno;
So che son loro che l’eternità accompagneranno.

Signore, fagli la carità, e non solo il bagliore di un faro,
Signore, fagli la carità, quaggiù in terra, e in denaro.

Quando tu moristi, la cortina si fendette,
Le cose che si videro dietro, nessun mai le ha dette.

La strada è nella notte come uno squarcio,
Piena d’oro e di sangue, di fuoco e di marcio.

Quelli che hai scacciato dal tempio con le tue frustate
Flagellano ora i passanti con malefatte a manciate.

La Stella che scomparve allora dal tabernacolo,
Brilla sui muri nella luce cruda d’avanspettacolo.

Signore, la Banca illuminata è una cassaforte,
In cui s’è coagulato il sangue della tua morte.

Le vie si fan deserte e diventan più nere.
Io barcollo come un uomo ubriaco sul marciapiede.

Ho paura dei gran lembi d’ombra, sono i palazzi a proiettarla.
Ho paura. Qualcuno mi segue. La testa, non oso voltarla.

Un passo zoppicante si avvicina sempre più, mi fa la posta.
Ho paura. Ho le vertigini. Mi fermo apposta.

Questo strano tipo agghiacciante, uno sguardo m’ha lanciato
Penetrante, e poi, malvagio come un pugnale, m’ha superato,

Signore, da quando non siete più Re non è cambiato nulla.
Il Male con la tua Croce s’è fatto una stampella.

Scendo i gradini malandati di un caffè
Ed eccomi, seduto, davanti a un bicchiere di tè.

Sono da dei cinesi che con la schiena pare sorridano
Sono gentili come macachi, quando s’inchinano.

Il locale è piccolo, le pareti di rosso son decorate
E delle curiose fotografie nel bambù sono incorniciate.

Hokusai i cento aspetti di una montagna ha colto
Come sarebbe, dipinto da un cinese, il tuo Volto…?

Quest’ultima idea mi ha fatto dapprima sorridere, Signore,
Ti vedevo stilizzato, martire nel tuo dolore.

Ma il pittore, invero, vi avrebbe dipinto sofferente,
Con più crudeltà che i nostri pittori d’Occidente.

Delle lame ondulate le tue carni avrebbero segato,
Delle pinze le unghie e i denti avrebbero strappato,

Degli immensi dragoni ti avrebbero attaccato,
E delle fiamme sul collo ti avrebbero soffiato,

La lingua e gli occhi avrebbero potuto strapparti,
Su di un piolo avrebbero finito con l’impalarti.

E avresti sofferto tutta l’infame punizione,
Perché di quella non c’è più crudele posizione.

Per finire, ai porci ti avrebbero gettato,
Che il ventre e gli intestini ti avrebbero divorato.

Sono solo in questo momento, le altre persone sono uscite.
Son steso su una panca contro la parete.

Avrei voluto entrare, Signore, in una delle chiese;
Ma non ci son le campane, Signore, in questo paese.

Penso: – dove son le antiche campane qui non più squillanti?
Dove sono i lunghi offici, dove i bei canti?

Dove son le dolci antifone e le litanie?
Dove son le musiche e le liturgie?

Dove sono i tuoi fieri prelati, Signore, e le tue monache,
Dove l’alba bianca, dove dei Santi e delle Sante le tonache?

Le gioie del Paradiso annegano impolverate,
I fuochi mistici più non rutilano nelle vetrate.

L’alba tarda a venire, e in questo tugurio desolante
In una visione di rosso in sfondo nero, tremolante,

Delle ombre agonizzano sul muro come in una crocifissione,
E in uno specchio del Golgota di notte ho l’impressione.

Il fumo, sotto la lampada, è come quella stoffa sbiadita
Che fa il giro, attorcigliata, intorno alla tua vita.

Sopra, la pallida lampada è sospesa,
Come la tua Testa, triste e morta ed esangue.

Dei riflessi strampalati palpitano sui vetri…
Ho paura, –  e sono triste, Signore, d’esser così triste.

Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?
– La luce rabbrividire, umile nel mattino.

Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?
– Dei biancori perduti palpitare come mani.

Dic nobis, Maria, quid vidisti in via?
– L’auguri della primavera trasalirmi in seno.

Signore, l’alba è scivolata come un sudario, gelidamente,
E su in alto ha messo i grattacieli a nudo, completamente.

Già sulla città un rumore immenso risuona.
Già il treno sobbalza, e sfilando tuona.

Nel sottosuolo la metro marcia e rimbomba
I ponti ferroviari son scossi da un’onda.

La città trema. Delle grida, fumi e fuochi
Sirene a vapore emetton muggiti rochi.

Nella febbre per l’oro la folla è persa
In lunghi corridoi si urta e si riversa.

Il sole, offuscato nella trama dei tetti fumanti,
È il tuo Volto ricoperto dagli sputi oltraggianti.

Signore, torno stanco, solo e molto tetro…
La mia camera è nuda come una tomba…

Signore, sono solo e ho la febbre…
Il mio letto è freddo come una bara…

Signore, chiudo gli occhi e batto i denti…
Son troppo solo. Ho freddo. Ti chiamo…

Centomila trottole volteggian davanti ai miei occhi…
No, son centomila donne… No, centomila violoncelli…

Penso, Signore, alle mie ore infelici…
Penso, Signore, alle mie ore lungo le strade…

Non penso più a Te. Non penso più a Te…

New York, aprile 1912

Blaise Cendrars

[traduzione italiana di Marco Settimini]

 *

*Il 15 novembre 1912 Cendrars invia alla cognata Agnès una versione diversa del poema, ben più allucinata, in cui descrive i grattacieli vertiginosi di una New York nel cui cielo fanno capolino “immense nubi nere che si mescolano, turbinano e passano in forma di croce”. Tre frammenti meritano di esser riprodotti. Si noterà l’identificazione Cendrars-Cristo. La mano mozza ne è il sacrifico redentore.

“Sul suo letto d’insonnia il Cristo si alza sconvolto. Si è così tanto dibattuto, che ha potuto liberarsi un braccio strappandosi una mano, inchiodata ormai al Legno spugnoso, come una coscienza. Il suo braccio monco fa dei gran gesti”.

“D’improvviso due braccia calcinate, magre, nere fuoriescono dal mare spumeggiante, spuntano, e le due mani torturate dalla disperazione si congiungono in un gesto supplicante, giusto sul disco solare. Piovono lacrime di sangue…”

“Una nube s’ispessisce, scende, cade, sipario troppo pesante. Chiudo gli occhi! Sotto il mio cranio la città d’apostasia rimbomba come un tuono infernale. Pietà!”

 

 

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