Pier Paolo Pasolini, perdona loro…
Politica culturale
Davide Grittani
Da anni tormentano il corpo del morto. Allineo i fatti. 23 settembre 1973: muore Pablo Neruda. Che piaccia o meno (a me piace poco, se vi pare), il più grande poeta sudamericano del Novecento. Muore, secondo le carte ufficiali, di cancro alla prostata. Un cancro straordinariamente ‘in orario’: un paio di settimane prima Augusto Pinochet prende, con colpo di Stato, il governo del Cile e Salvador Allende, amico personale di Neruda, si suicida. Neruda, come sappiamo, non è solo un poeta dal furibondo impeto epico (pigliate in mano il Canto generale, che ha l’ambizione omerica di essere il canto, ha brano che lasciano storditi per vertigine): è anche il megafono del comunismo, uno dei protagonisti più lucidi e assidui della politica del suo paese. “Io voglio terra, fuoco, pane, zucchero, farina/ mare, libri, patria per tutti, per questo/ io vado errando”, canta il poeta del popolo. Bizzarro: Neruda muore proprio quando il suo avversario piglia il potere, con il pugno. Nel 2011 l’autista del poeta, Manuel Araya, dichiara che Neruda è stato ucciso in ospedale, in seguito a una iniezione di veleno. Apriti cielo. Intanto, nel 2013, aprono la bara. Prima i periti dicono che il poeta è morto come è morto, per un cancro alla prostata. Poi, due anni dopo, in seguito a un riesame, si dice che forse il poeta non è morto a causa del cancro. Qualche giorno fa (la notizia, tra l’altro, l’ha data El Pais qui) gli esperti che si sono presi cura della salma hanno detto che “è assolutamente certo” che Neruda non sia morto per un fatale cancro alla prostata. Nessuno si sbilancia, non sappiamo se a uccidere il poeta sia stato un gesto violento e deliberato. Sappiamo che i documenti ufficiali sono carta straccia, ziggurat di menzogne. Che c’importa? Questo: il rapporto tra arte e potere, tra poesia e potenti. In modo connaturato alla sua sostanza lirica, la poesia invoca riflessioni e ribellioni. Per sua natura la poesia si ribella, è in rivolta. Si ribella alle norme grammaticali, ribalta le convenzioni e disintegra i vocabolari. Il primo atto di ribellione della poesia, ad esempio, è andare a capo e lasciare gli spazi bianchi. Quel bianco, infatti, è tanto importante quanto lo scritto. Neruda, Premio Nobel per la letteratura nel 1971, poeta e politico, sapeva lottare. Ancora più di lui, ha saputo lottare, senza darsi alla politica ma dotandosi unicamente di un verbo vertiginoso, Osip Mandel’stam, il poeta confinato e morto nei Gulag, nel 1938. Dicono di lui che custodisse la sofferenza dei prigionieri cantando loro le poesie di Petrarca, così come le aveva tradotte. Nel fango. Ai limiti dell’uomo. Nello schifo. Mordendo la fine. Petrarca. La dolcezza. L’eroismo dell’amare. Nel 1921 Evgenij Zamjatin, nella Russia sovietizzata, ha già capito che ogni regime ha incisivi di ghiaccio. “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”, scrive. Patendo ogni scrittura, come tutti i grandi scrittori. Sapere che Neruda è morto assassinato forse farà levitare, post mortem, la vendita dei suoi libri. Sciocchezze. I poeti sono sempre dall’altro lato della Storia, usano la cerbottana per graffiare la corona dei potenti. La loro natura è elettrica. La Storia, prima o dopo, li divora.
Davide Brullo