Seduceva con occhi da entomologo, Ernst Jünger. Cacciatore sottile, appassionato di carabidi, ossessionato dalle descrizioni, dal fremito dell’inseguimento. Ad alimentarne i trofei dello spirito e quelli intervegetali, una preda d’eccezione: Banine, mantide azera, scrittrice francese, entomo dal piglio letale.
Per tutta la vita rimasero avviluppati nella tela di una turbolenta amicizia sentimentale.
Anelavano entrambi all’eternità. Lei per tramiti divini, a seguito della sua conversione al cristianesimo in tarda età, lui per la cieca fede nel genus carabus. A traghettarlo nella storia sarebbero stati la Cicindela Juengeri Juengerorum e il Carabus Saphyrinus Juengeri – le due specie di coleotteri da lui scoperte –, così amava credere il filosofo che in guerra preferiva a rinunciare alla maschera antigas per fare spazio all’attrezzatura d’emergenza da cacciatore, piccole cannule di vetro in cui attirare, magari, una drypta blu (le suggestioni entomologiche di Jünger sono riportate in Cacce sottili, Guanda, 1997).
E se la caccia, come l’eros, è un gioco di sguardi e di sensi – ‘un atteggiamento che attraversa il cosmo’ – dove cent’occhi non bastano, chi caccia è a sua volta cacciato. Così Banine – Diana poco virginea della letteratura francese, nel suo ultimo libro, Après (editions Stock, 1962), incannulò il ricordo dell’amato amico. (Fabrizia Sabbatini)
“Jünger è a Parigi. Ieri era già buio quando siamo andati ai giardini del Trocadéro, che pochi parigini conoscono bene. Siamo scesi sul lato sinistro, verso la Senna, e gli ho mostrato uno degli alberi più belli di Parigi, che viene dal Caucaso, come me. È antico e possente, radicato nel suolo parigino come se ci fosse nato; ha un’aria maestosa. Jünger era pieno di deferenza per questo patriarca di una specie che non conosceva; io, più familiare, in quanto sua conterranea, gli ho detto: «Vecchio mio, anch’io vengo da lì! Ci siamo adattati bene al trapianto, io e te, in questo sedicesimo arrondissement di Parigi!». Le sue lunghe foglie frusciavano nel vento caldo, forse sussurrando storie di foglie le une alle altre. Riflettei sul lungo passato parigino dell’albero e ricordai il mio. Come lentamente e saggiamente entrambi abbiamo messo radici in questa terra di Francia. Lui, nutrito dalla sua linfa, si è ricoperto di queste foglie, e io ho ricoperto dei fogli con questi piccoli segni che riflettono il mondo. Ed eccoci qui, faccia a faccia, l’albero e la donna, entrambi venuti dall’altro capo del mondo per incontrarci qui, un giorno.
Jünger era a caccia di insetti. Come gli altri cacciano la selvaggina, lui cacciava gli insetti: con arte, dedizione e fermezza. Ma aveva l’inestimabile vantaggio, rispetto agli altri cacciatori, di poterlo fare a qualsiasi ora del giorno e della notte, in qualsiasi stagione e in qualsiasi luogo. Davanti a ogni lampione per lui c’è un terreno di caccia, che si tratti di un marciapiede, di terra o selciato. Ma stanotte non è riuscito a catturare alcuna preda. Per compensarsi, forse, mi ha raccontato che in Germania, a una specie di insetto che ha scoperto, hanno dato il suo nome. Così, mi ha detto, il suo nome verrà tramandato ai posteri.
«Pensavo che li avrebbe raggiunti attraverso la letteratura» obiettai.
Avanzò un gesto disilluso: «La letteratura è fatta di mode, come lei sa bene; una di queste potrebbe spazzarti via».
«Quindi è sul dorso di un insetto che pensate di fare il vostro ingresso nella posterità!».
«Posterità! Quell’illusorio anti-nulla che ha perseguitato senza consolazione anche gli uomini più scettici».
So che Jünger la vede con una certa ironia. Ma, nel suo intimo, può mai fare a meno di sognarlo senza nemmeno crederci? L’istinto di sopravvivenza è più forte di ogni ragionamento.
Al di sopra degli alberi, la Torre Eiffel si stagliava in una sagoma rosa-arancio, così illuminata che Venere al confronto sembrava spenta. Da lontano si avvertiva il rumore di fondo delle grandi città moderne: la risacca delle auto che si fermavano e ripartivano al segnale verde e rosso. La notte parigina era calda e secca come una notte africana, satura di milioni di vite raggruppate in questo punto della terra, ma altrettanto legata all’eternità del cielo, che stendeva su di noi il suo velo di mistero.
*
Nessuna opera di uno scrittore contemporaneo ha risuonato in me quanto quella di Jünger. Parlo di risonanza nella mente, non di influenza letteraria. Perché non riesco a vedermi come uno scrittore. Non riesco a prendere sul serio la mia letteratura, mi sembra una finzione, un equivoco, una coincidenza. A dire il vero, ho iniziato a scrivere solo perché un’anima gentile mi ha suggerito di farlo. Se quel giorno non le fosse venuta l’idea, la mia “carriera” sarebbe finita prima di iniziare. Non mi sono mai precipitata alla penna con la schiuma alla bocca, consumata dal bisogno di scrivere. Nel mio caso non c’è mai stata un’urgenza, quel richiamo imperioso e travolgente di cui i romanzieri amano discutere. E ancora oggi scrivo perché devo, non perché lo desidero appassionatamente. Certo, ci ho preso gusto, perché con una certa perseveranza si finisce per prendere gusto per qualsiasi cosa. E poi ci si è messa di mezzo la vanità, incentivo irresistibile. Mi sono trasformata in uno scrittore. Un mestiere lusinghiero, che cinge il capo con un’aureola di gloria, soprattutto in Francia, ma raramente redditizio; nel complesso, un mestiere che nutre talmente male il suo uomo – o la sua donna – che la maggior parte degli autori deve trovarne un secondo per sopperire a quello principale.
La mostruosa espansione della letteratura in Francia è un segno di decadenza, scrive Berdjaev. Se un giovane francese vi parla di crisi interiore, significa che passa da uno scrittore all’altro, ad esempio da Proust e Gide a Barrès e Claudel… Si potrebbe anche dire che questa mostruosa esagerazione sia l’emblema di un’antica e nobile tradizione. In ogni caso, il mestiere di scrittore in Francia è particolarmente allettante; è strettamente legato a un’idea onorifica e seducente. Essere pubblicati, essere letti! Mi chiedo se esista un uomo o una donna di media cultura in questo Paese che non abbia pensato, a un certo punto della sua vita, di diventare un littérateur.
Ma torniamo a Jünger: ciò che mi ha ammaliata di lui fin dall’inizio è stato il fatto che combinasse la sua qualità visionaria con un’estrema disponibilità alla realtà. Nulla gli sfugge, ogni dettaglio attira la sua attenzione, che sia un graffio sulla mano del vicino o la forma di una sedia. Quando sono in sua presenza, so che mi vede nella mia interezza ogni secondo della conversazione, che mi scruta con il suo occhio da entomologo, che coglie il minimo punto; ma che, allo stesso tempo, dotato di un occhio diverso da quello fisico, una sorta di super-occhio che non è appellabile in alcun modo, Jünger vede al di là del mio essere carnale qualcosa di essenziale che si rivela solo a lui. Questa sua essenza si riflette in ogni pagina della sua opera. Lui ha accarezzato la mia sensibilità e io ho voluto conoscerlo.
So bene da dove nasce questo desiderio di incontrare l’autore capace di toccarci così intimamente che pare averci chiamato per nome. Perché crediamo sia in possesso della chiave che aprirà la camera in cui dimora il Graal della nostra vita; quello che cerchiamo senza sosta, senza sapere che sembianze abbia.
Ma, ancor prima di incontrarci, Jünger mi ha fatto conoscere regioni che forse non avrei mai scovato senza di lui; aree al limite della sensibilità, che ha esplorato come pochi scrittori hanno saputo fare. Che descriva la natura o i sentimenti, li dipinge come acquerelli dalle tinte tenui e quindi ancor più evocativi. Gli è stata spesso rimproverata la sua freddezza, ed è evidente che le sue opere siano a sangue freddo, prive di esplosioni d’odio e d’amore; ma serbano dell’altro, qualcosa di sublime nella loro sottigliezza e nelle sue visionarie vette. Si può dire che questa visione alta sia la costante di tutta l’opera di Jünger, che compare ovunque, tranne forse ne L’Operaio. È un’altezza che a volte diventa altezzosa, ma senza disprezzo. Almeno Jünger si mette spesso in guardia da questo sentimento; ha disprezzo per il disprezzo. Ma riesce davvero a superarlo?
Come possiamo negare che vi siano persone sinceramente spregevoli, che sconvolgono le nostre esigenze di integrità, grandezza o, più semplicemente, di onestà? Come non disprezzare ciò che è spregevole? Non è stato forse Bismarck a dire: “Esiste un sentimento ancora più involontario dell’amore: è la stima”. Lo stesso si può dire del disprezzo, che arriva senza chiederci il permesso e si insinua nella nostra anima come un veleno. Quante volte mi sono detta: “Se solo potessi accontentarmi di non stimare ciò che non lo merita”. Perché la mancanza di stima è diversa dal disprezzo: è tinta di rammarico; vorremmo ma non possiamo, non possiamo proprio, e siamo addolorati. Il disprezzo è aggressivo e prossimo all’odio. Ed è ambiguo, il che dovrebbe metterci in guardia: sminuendo l’altra persona, possiamo essere sicuri di non essere sfruttati. Lo stesso vale per la maldicenza: parlando male degli altri, lusinghiamo noi stessi, il che spiegherebbe perché i migliori di noi ne sono inclini. E se è il miraggio di Dio a darci questo equilibrio interiore, questa gioia nel cuore, che trasforma il deserto in un giardino, è giusto tenerselo stretto nonostante le insinuazioni che vengono dagli altri e dall’altro da sé”.
Banine
*La cura dell’articolo e la traduzione del testo sono di Fabrizia Sabbatini