23 Settembre 2022

“Mia latitudine che ascolti la tigre feroce”. Una poesia inedita di Alessandro Ceni

Si sbaglierebbe a ridurlo a dirupo verbale, allo scoscendere tra vocaboli lavici e vocabolari, involgariti d’anni magari, come quelli che industriano la selce per interrogare, sotto ricatto, le lapidi. Ogni parola ne è l’avversione, la cupola d’ambra, l’ombra, l’altra parte: Pica – l’ultima di Alessandro Ceni, finora inedita – è la pica pica, la gazza (secondo circostanza, per taluni, la ghiandaia); eppure, in sviluppo marginale, riguarda il picacismo, cioè la prassi di ingurgitare “sostanze normalmente non commestibili”. Da qui, il divinare d’ombre, la verbosità non ondivaga, la prassi tra il quotidiano meridiano e il mito, leggende riesumate da sogni indiani con stola taoista – a voi intercettare l’egida del “cane assoluto”, tra grammatura azteca e allevamenti di caccia alla corte del Khan. Tutto sta, semmai, a capire cosa la pica coglie della diomedea su cui plana la lirica, che è poi l’albatro. Eccolo, il punto: Ceni non è uno che ausculta vocaboli per il gusto – prassi di spericolato sperimentalismo – ma per andare al succo del rito (dunque: lirica arcaica, sopra il tempo, a suggere i cieli). Il testo va letto, sperabilmente, a voce alta, e danzato, tra inno e favola, meglio se spogli.

Alessandro Ceni in un ritratto di Dino Ignani

Detto questo, va detto dell’ornitologia lirica di Ceni. Poesia fitta di uccelli, la sua, di continuo, a frotte, dalla “ridda di falchi” (“Ottima Babilonia, macello di pace”) all’“uccello che china il suo osso/ di testa finché il becco non batta al cuore” (Crescita a zero), dalla merla (La merla o altre parole del padre) all’Airone grigio (“Scenderò su di voi come una tenue trama invernale”), agli “uccelli appesi/ per i lungoviali a mare”. La poesia è una voliera – forma chiusa – che prepara al volo, cioè all’assenza alata del linguaggio, silente essenza. Che l’uccello sia icona sciamanica, mediazione mantica, sigillo poetico – dall’aquila di Hölderlin all’albatros di Baudelaire, dal passero di Leopardi all’upupa di Montale etc. etc. – tutto è vero, tutto si tiene, a patto che la cinghia lirica sia efficace e non becchime per becchini. Ma qui, forse, è proprio tutt’altro: il vocabolo non è ornamento, ma mandorla, lieve piumaggio; la fiera di uccelli non accade per birdwatching letterario. Ah, gli uccelli, “le più liete creature del mondo”: compito del poeta è riprodurne il canto per dare ai suoi versi una leggiadria, feroce, magari, ma efficace. Senza efficacia – cioè azione, perfino levitante – la poesia, semplicemente, non è se non stridio.   

***

Pica

Ombra
che
con un mite gesto
di finemente setacciante
mano di morta
affacciandoci osserviamo
nell’avversa superficie della peschiera
conversami
degli animali dei circhi, i pugni,
la frase fatta dei due
in stallo nell’abito confezionato
dentro l’ultima prova
della scena conclusiva della recita finale:
ombra
che
non siamo noi ad attendere
che sta ferma che si muove
di quel poco soltanto
quando il momento è giusto
che così è lei che ci attende
in un vai e riporta, in un manda a prendere,
in un vieni
in una vieni
di qua
vieni di
richiami
qua vieni
sottintendenti apodittici nomi,
dove nuova l’anima del cane assoluto corre:
conversami di questo,
balbutendo e strabicando
il persuasore col bastone magico,
il mimo poliglotta,
il corno di Rolando
e i denti di Bacon,
mia priva di dolcezza
mia latitudine
mia diomedea figliata anzitempo
che ascolti la tigre feroce.

Alessandro Ceni

Gruppo MAGOG