Quando Vera Brittain spedisce a Roland Leighton una copia delle poesie di Rupert Brooke, 1914 & Other Poems, uscite postume grazie a Eddie Marsh, già ideatore del volume Poesia georgiana, lei è a casa a Buxton, nel Derbyshire, e lavora al Devonshire Hospital, lui è sottotenente del Worcestershire Regiment, di stanza nel nord della Francia. È il 29 luglio 1915.
I sonetti di guerra di Brooke, Vera li ha letti da poco. È al suo primo anno a Oxford, ma con il suo College, il Somerville, convertito in ospedale militare, lei e altri studenti sono stati trasferiti all’Oriel, in centro città. Con alcune compagne alloggia in una vecchia casa con giardino. Al piano di sopra vive la loro tutor, Helen Darbishire, la prima donna preside di facoltà a Oxford.
Quella sera di fine luglio Helen invita Vera e un’altra ragazza di sopra: fa freddo, da lei il camino è acceso. Le tre donne parlano anche di guerra, e allora Helen legge alle ragazze versi di Brooke. La sua voce è grave, autorevole. Vera dormirà un sonno agitato, in cui i sonetti di Rupert e di Roland si fondono nel sogno, perché anche l’uomo che ama scrive poesia.
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A scuola, Vera, suo fratello Edward e il grande amico di lui, Roland, erano per tutti “i tre moschettieri”. Quattro, in effetti, con Victor Richardson. Il padre l’ha d’altronde sempre chiamata Jack o John, perché sperava nella nascita di un maschio, e perché la ragazza si comporta spesso come tale. Poi tra Vera e Roland era iniziata una storia: con idee progressiste, sostenitrice delle suffragette e “debuttante” di un’abbiente famiglia d’industriali della carta lei, “ragazzo d’oro” di una famiglia di artisti e letterati, brillante studioso del Merton College lui.
Dall’ottobre 1914 i due possono vedersi solo durante le licenze di Roland, ma la storia si nutre di molte lettere. Lui le dà vividi, realistici resoconti della sua vita al campo e in trincea, delle guardie, dei giri d’ispezione nella “terra di nessuno”: “Non c’è niente di glorioso nella guerra di trincea”, le dice in un Post Scriptum il 21 aprile 1915, “ed è tutto per niente – per un nome vuoto, per un ideale forse…”. Presto ogni frazione di quell’ideale salterà in aria con le bombe lanciate sulle trincee: la guerra sembra a Roland la punizione di Dio all’umanità per averlo dimenticato.
Lei gli scrive di Buxton e di Oxford, dove è riuscita a superare l’esame di ammissione, malgrado il dissenso paterno: racconta a Roland della sua vita universitaria, delle mattine in cui si alza all’alba e sente il tradizionale inno in latino cantato dalla torre del Magdalen. Dopo il primo anno, intende però sospendere gli studi per diventare infermiera volontaria: vuole avere un ruolo più attivo mentre l’Inghilterra è in guerra, essere spiritualmente più vicino a Roland, ma anche a Edward e a Victor Richardson, tutti soldati.
In quello scambio epistolare perennemente in pericolo d’interrompersi, sia lei sia Roland hanno a volte l’impressione di essere diventati un “sogno” l’uno per l’altra.
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Dopo la sera con la sua insegnante, l’immagine di Brooke si è depositata in Vera con la musica dei suoi versi. Come per molti inglesi, anche per lei il ragazzo soldato di straordinaria avvenenza è il simbolo dell’Inghilterra in guerra, la sua poesia una voce di esaltante patriottismo capace di suscitare anche intensa commozione e pietà. Quasi fin dall’inizio del suo amore per Roland il contrasto esaltazione-pietà cementa l’amore, ne diventa suo connotato: “In qualche modo – gli scrive – sento che Rupert Brooke doveva somigliarti molto…”.
Anche Roland ha amato i sonetti di guerra di Brooke. Non lontano dal Fronte, I morti di Brooke lui li vede tutti i giorni, “più reali che mai”, nelle tombe di ufficiali sepolti nelle vicinanze. Scrivendosi, i due hanno sempre usato un linguaggio cifrato: Roland sottolinea alcune lettere per far sapere a Vera dove si trova, o tra una frase e l’altra fa scivolare il latino “Hinc illae lacrimae”, per avvisarla che andrà in azione. Vera isola certi versi di Brooke per comunicargli particolari stati d’animo. Il volume 1914 & Other poems lo chiama il libro “del tuo fratello spirituale, Rupert Brooke”.
Però mentre lei ha trovato nei sonetti una visione della guerra a cui aderisce idealmente in modo totale, su Roland producono un effetto più penoso: ama il poeta, ma rimpiange di non poter scrivere. Prima di arruolarsi, anche lui pensava alla “bellezza della guerra”. Non più, adesso che l’ha vista davvero. Non può sapere che in origine Il soldato s’intitolava The Recruit, La recluta, che Brooke stava scrivendo una proiezione di chi la guerra non l’aveva ancora vista, non un enunciato personale: nell’intenzione dell’autore i sonetti erano il resoconto di un ideale, non una valutazione della guerra, come di fatto saranno a lungo interpretati.
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Nell’agosto 1915 Roland è in licenza. Alla stazione di St. Pancras i due stentano tuttavia a riconoscersi, lui perché miope e assorbito dai propri pensieri, lei perché non lo ritrova nell’uomo dimagrito, invecchiato e dall’aspetto marziale in uniforme, che sta avanzando sulla banchina. Per tutto il tempo in cui stanno insieme è come ci fosse un velo tra loro. Pranzano a Londra con gli altri “moschettieri”, Edward e Victor, che non hanno ancora combattuto. Vera ascolta affascinata i racconti di Roland, va dai Leighton nel Suffolk a conoscere la madre di lui: “Je suis fiancé; c’est la guerre”, le ha scritto il figlio per farle sapere del loro fidanzamento.
La casa a picco sul mare avvalla su pendii d’erica: ci sono pomeriggi trascorsi in salotto e camminate sotto la luna lungo la scogliera. Roland mostra a Vera i versi che ha scritto per lei: parlano di viole, e le viole di “Vita e Speranza e Amore per te”, ma
È strano che siano blu,
Blu, quando il suo sangue rappreso era rosso,
Perché gli crescevano intorno al capo…
La sua inquietudine è sempre più allarmante: una parte di lui aderisce al rigore spartano della vita militare, ma il ritorno a casa ha sollevato ricordi e rimpianti, creduti sommersi, della vocazione letteraria, delle aspirazioni artistiche, della stessa vita riparata nella casa sulla scogliera.
Dicendo addio a Vera la maschera militaresca cade: le confessa “con grande amarezza di non voler tornare al fronte…”. Ma il treno la sta aspettando. Un fischio. Si baciano. Lei sale, lui se ne va, senza girarsi. Dal taxi le scrive un biglietto: “Non potevo girami cara bambina – avrei pianto…”.
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Il flusso di lettere riprende: Vera è infermiera a Buxton, Roland di nuovo al fronte. E di nuovo lui le sembra spesso evasivo e lontano. Informa comunque i genitori di essersi fidanzata. Lui fatica a rientrare nella routine dell’esercito. Eppure, nelle lettere sembrano più facile la confidenza, persino l’intimità delle confessioni reciproche: riprende tra loro il lessico brookiano.
Roland sta per tornare in trincea, tra Amiens e Arras: quel che è davvero difficile, è dimenticare: “non quel che si è conosciuto & sentito, ma il dolore che accompagna il ricordo”.
In settembre, infatti, è di nuovo al Fronte e scrive a Vera con molta tristezza:
“Niente è più malinconico & deprimente di una vecchia trincea, in disuso e ricoperta d’erba, con i “cunicoli” crollati o distrutti dalle bombe, e qui e là una tomba dimenticata o una baionetta arrugginita”.
Nei pochi momenti in cui s’addormenta, sogna Vera che gli viene incontro nella trincea, entra nel crepuscolo del suo cunicolo e lo guarda con i suoi “occhi liquidi”. Le veglie sono amare. Ormai Roland ha visto abbastanza della guerra: la condanna e il disinganno sono anche più duri perché, all’inizio, lui stesso ha in parte condiviso l’ottimismo di propaganda bellica del suo paese. Denuncia con rabbia la maniera magniloquente del terzo sonetto di Brooke, l’allure elisabettiana – “Suonate, trombe, sopra i ricchi morti! –, la visione dei “doni ben più rari dell’oro”, il destino dei soldati che “morendo […] / Hanno lasciato il mondo; versato il rosso e /Dolce vino della giovinezza…”. La guerra non è un’impresa eroica di sacrificio patriottico, un atto di redenzione personale e nazionale, un compito cavalleresco in cui mettere in gioco Santità, Onore, Nobiltà. Non porta alcuna ricca “eredità”.
La realtà della guerra è l’orrore che vede intorno a sé, la carneficina, il fango che stritola vivi e morti, il puzzo dei cadaveri in decomposizione. È in trincea dall’alba ad ispezionare cunicoli distrutti e filo spinato strappato:
“e in mezzo a questo caos di ferro contorto e sughero in frantumi e terra informe ci sono le ossa annerite e spolpate di uomini semplici che hanno versato il loro rosso, dolce vino della giovinezza, per niente di più tangibile dell’Onore o la Gloria della loro Patria o la Smania di Potere altrui…”.
Vicino a lui, uno straccio grigio copre a malapena la metà di un teschio: valeva allora la pena “questa grandiosa & gloriosa cosa che è stato distillare tutta la Gioventù e la Gioia e la Vita in un fetido ammasso di putrescenza?”.
Vera lo capisce. Condivide, gli assicura, i suoi sentimenti, la voragine della sua delusione. A quest’epoca, invece, non ha ancora capito in profondità il conflitto interiore che lo tormenta. E quando lui le invia un altro biglietto con la frase latina Hinc illae lacrimae, copia nel diario gli ultimi versi del Soldato. Con il cuore buio, tra poco dovrà immaginare Roland in “qualche angolo di terra straniera / Che sarà per sempre Inghilterra”.
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Roland non andrà a combattere a Loos tra settembre e ottobre 1915, battaglia in cui cadono Charles Sorley e molti altri. Anche il figlio di Kipling nel frattempo è morto. E Vera, che si è spostata a Londra, dove ha iniziato a lavorare al General Hospital nel quartiere di Camberwell, adesso deve stare in ansia non solo per lui ma anche per suo fratello Edward, diretto in Francia.
Roland è troppo occupato per scrivere spesso, ma avrà un’altra breve licenza a fine dicembre: lo aspettano a casa per il giorno di Natale. Il 6 dicembre una camminata di buon’ora sotto un cielo pallido per la pioggia, con le nuvole che si rincorrono, ricorda a Vera il secondo sonetto di Brooke, Salvezza:
Cielo! di tutti i felici in quell’ora, più felice
Chi ha trovato la nostra intima certezza,
Conforto nelle oscure maree a riposo del mondo,
[…] Abbiamo trovato certezza in tutte le cose imperiture,
I venti, la mattina, le lacrime degli uomini e l’allegria,
La notte profonda, il canto degli uccelli, e le nuvole che volano,
E il sonno, la libertà e la terra d’autunno.
Abbiamo costruito una casa oltre la portata del Tempo.
Guadagnato una pace per sempre intoccabile dal dolore.
La guerra non ha potere…
I suoi genitori sono a Brighton per il periodo natalizio e i genitori di Roland non lontani, per trascorrere insieme quel periodo di licenza. La lettera del 15 dicembre di Vera a Roland termina: “Ma in qualche modo sento che la fine non sarà adesso e qui…”. Un’ennesima eco da Paradiso di Brooke: “Non qui la Fine stabilita, non qui!”.
Ha ragione. La fine non sarà quella prevista. Il 26 mattina, quando la chiamano al telefono, pensa sia sua sorella.
I Leighton hanno ricevuto un telegramma. Roland è morto il 23 dicembre 1915, colpito da un cecchino durante l’ispezione dei reticolati a Hébuterne. Aveva vent’anni. La sua tomba a Louvencourt è spesso ricoperta di viole, in omaggio alla poesia scritta per Vera sul saliente di Ypres: “Viole da Plug Street Wood / Cara, t’invio da oltre mare…”.
Victor Richardson morirà nel giugno 1917, per le ferite riportate nell’attacco di Arras in aprile.
Edward Brittain cadrà un anno dopo, a giugno 1918, durante una controffensiva nella Seconda battaglia del Piave. Entrambi avevano ventidue anni.
Vera Brittain racconterà la storia di tutti loro in Testament of Youth, uscito nel 1933. Alla sua morte, nel 1970, chiederà che le sue ceneri siano sparse sulla tomba del fratello, nel cimitero sull’altopiano di Asiago.
Paola Tonussi