30 Aprile 2019

“È tutto un correre di secoli contro l’instabile motore dell’estinzione”: sulla poesia di Renato Minore

C’è una musica singolare che si può ascoltare fuori dal frastuono dei nostri giorni, dalla civiltà delle immagini, dalla metastasi della notizia lampo nella società liquida di Bauman, nella superficialità dei nuovi miti? C’è senz’altro un blues da riscoprire con la poesia (una sorta di contro-informazione mai slabbrata ma suadente, che unisce accordi e vocalità, una melodia seriosa), che permette di ricostruire la funzionalità del tempo e la promessa del futuro nel milieu di questi giorni confusionari. La poesia ha una riconoscibilità salvifica perché si lega ad una sfida contro la deperibilità e il senso di finitudine umana, essendo un manufatto dalla palpabile fattura stilistica. Un poeta è tale quando ha un’intenzionalità ben definita e sa trovare uno stile agguantando il tempo e custodendolo, o annientandolo in una sospensione, in una fermata. Ma cosa resta da fare ai poeti e ai critici, nel 2020, in una fase storica dove sembra che il pubblico della poesia stia scomparendo e le stesse case editrici dimostrano riluttanza verso la pubblicazione dell’arte in versi?

Renato Minore sembra indicare una direzione di senso da immettere nel presente, nell’adesso, in un principio di conservazione che arriva da un declinabile passato, da un immancabile e irrinunciabile ieri, nel frammento della vita recuperata, molto concreta e filtrata cerebralmente. Crea un controcanto, sia come poeta che come critico nel suo discernimento razionale, per segnalare il tempo che tenta di salvare con l’uso di una parola identificativa, conoscibile e dicibile, aggraziata. Con O caro pensiero (Aragno 2019), di evidente ispirazione leopardiana, Renato Minore (nato a Chieti, vive a Roma. È critico letterario del “Messaggero” e ha insegnato presso la Luiss) fa uso della coscienza e della ragione, di una griglia che inanella pensieri, che pretende di avere un riflesso d’infinito. Questo libro pretende una lettura su molteplici piani, in un epifenomeno delle cose che si stringono con mano nella parsimonia delle varie composizioni.

Nell’aprile 2018, in un’intervista rilasciata a Monica Cartia nel sito www.inliberta.it, Minore ha ammesso: La poesia è spesso un alibi. Dici poesia e tocchi un livello a priori di comunicazione superiore, garantita dalla marca. Non è così perché la poesia come prova, rischio, continuo riequilibrio del peso specifico della parola anche oggi, come ieri, è sempre qualcosa che, come la lepre delle favole, puoi continuare a inseguire. Ma proprio la corsa con cui la insegui ne segna, con il battito del tuo cuore, la necessaria velocità per non perderla di vista”. In questa realtà l’esilio del poeta non è mai rigido, ma impresso da un ampio respiro, dalla passione che riempie spazi, incrinature, conflitti, come del resto nei migliori, precedenti libri: Le bugie dei poeti (1993), Nella notte impenetrabile (2002) e I profitti del cuore (2006). Minore rimanda alla storia universale e alle vicende personali tra luoghi e persone e ci ricorda, involontariamente, il discorso tenuto all’Accademia di Svezia il 12 dicembre del 1975 da parte di Eugenio Montale in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per le Lettere: “Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è un’entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi tra loro come Croce storicista idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”.

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Nella prima sezione della raccolta Renato Minore si riappropria dell’infanzia con una prerogativa salvifica e in una condizione vagamente decadente: “Non c’è pioggia che valga / quella pioggia. Non c’è ricordo / che valga quel ricordo”. Esperienza e verità affiorano in quadri immaginativi con i protagonisti come la maestra con la corte dei bambini, il ragazzo con l’occhio di vetro e con la recita scolastica che divenne un incubo: “S’inceppò la voce qualcuno rise. / Il gesuita grande Superiore / benevolo sorrise / forse anche mi accarezzò / ma non sentii il suo perdono”. La fanciullezza è una fedele lezione, una comunione elementare, una “direzione a ritroso” da seguire avvalendosi di una lingua e di un ritmo transitivi e sincopati. Renato Minore ha un modo dialogico di porsi, di raccontare. I suoi propositi vanno al nocciolo della questione, come i suoi tanti perché. Il cuore emerge da una voragine, da una lacerazione, da un presagio. Le figure familiari sono sempre state un riferimento decisivo in una sorta di prolungata rivisitazione di episodi, in una condizione di perdita e di reperibilità. Il padre è avvolto da una coltre d’affetto, dal rito delle abitudini, in una quiete soave, incantatoria: “Tu sei solo quel pensiero che è anche / la sola immagine del sogno, giravi intorno / a una piazza sotto la torre dell’orologio”. Un padre guardato a debita distanza, quasi spiato, in una trasgressione infantile priva di clamore.

Tra gli affetti quasi familiari non poteva mancare Ennio Flaiano nel suo “sogno svenato di gloria e purezza”, vento e filo d’amore come titola la seconda sezione di O caro pensiero. Qui Renato Minore scivola nella “pozzanghera del sogno” come ipotesi di evasione dalla realtà, circondato da un’animula che veglia sul mondo immobile, quasi che tutto fosse deciso tra i parlanti che non vivono più. L’immersione nell’indefinito di Leopardi si fa sentire in un pensiero temuto, vagheggiato: “O caro pensiero / d’una notte senza luna / pure la luna è un pensiero / che sfugge appena è luce”. Il blues di Minore è una musica di contrasto nella nuova epoca di egotismi e di autoreferenzialità. Viene cercato un ritmo preponderante, l’uscita di sicurezza da un’eclissi esistenziale dove tutto si presenta instabile, pulsante, aderito al dramma del tempo che passa sprigionando la malinconia in epifanie quasi epigrammatiche (il verso è talvolta breve, stringato).

Il miracolo della poesia sta nella partecipazione, nel rendere conosciuta la volontà di condividere un pensiero marcato, perfino denunciato, un amore fondato sul centro motore del ricordo ri-osservato nell’immagine: “Storie veglie fatica / il consumo impercettibile del corpo / la stoffa i colori del tempo”; oppure, in una fiammeggiante sentenza: “Il presente si vede solo di profilo, / è il passato che abbiamo di fronte”.

La testimonianza di Renato Minore (rimbaudiano e leopardiano, come ben dimostrano le biografie romanzate che ha scritto, peraltro di grande successo editoriale) è scritta in un verbale che registra azioni anche tormentate, in una progressione del movimento incastonato, in un attrito che segna un’epoca nella carrellata di affermazioni schiette, di sincerità confessionale. La stessa lingua non è mai sfibrata e incontenibile, né destrutturata di un significativo orizzonte tematico. La discorsività e l’elegante presa sull’oggetto fanno pensare ad un linguaggio-ragionativo nella prova dell’esistenza (il cervello è un organo ontologico e “dopo tutto noi siamo / il nostro cervello”). Un margine estremo allinea i fatti in un’esattezza sfuggente, in una condizione riflessiva, in un’esperienza collusa, ma infine con un tono di luce, di colore. Minore seleziona brani e li rende sensibili ad una disposizione semantica. Gli avvenimenti sono spesso ininfluenti e banali, nient’altro che una veloce rappresentazione, una ricostruzione di spettri del passato, ma il battito sotterraneo del verso accende un elemento materico, come quando si affaccia il paese di Santa Maria di Collemaggio dopo il terribile sisma che lo colpì: “Disintegrata la materia: come non riconoscersi più / testimoni della propria sparizione / a portata di mani e labbra, / visibile guardando se stessi”. Appare anche lo scempio di uno tsunami del 2011: “Ma il mondo è una casa scossa / l’onda maestosa di ritorno / s’infrange schiumando / a piallare la costa / senza allerta / senza cognizione”.

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L’evento esterno viene accumulato, introdotto nell’azione, dicevamo. Ma rimane la necessità di comunicare, di conversare, di ritagliare una conoscenza consapevole decifrando i segnali della realtà. La continuità di questi riquadri costituisce una costante nell’intera opera di Renato Minore, suffragata da una mancanza di strutture unitarie vere e proprie, ma con espressioni che erompono all’improvviso come da un vecchio almanacco. La conoscenza delle cose e l’intuizione del poeta sul piano strettamente personale, si stagliano in una lingua acuminata (sezione dopo sezione). La poesia dell’io e del noi ingabbia un sentire gestuale, ombroso, specie nella parte Stare a vedere ciò che accade. Si pensi a versi come: “Ma per essere colpevoli di ciò che facciamo / dobbiamo essere colpevoli di ciò che siamo?”. Altri versi indicativi: “Anche le città (impara) imparano / radunano lo sciame delle menti / conservano il calore della memoria / sui marciapiedi tiranni della specie”; “Chiedeva euro / l’uomo sulla via / sapeva dire / che un angelo lieve / gli passava accanto”. L’impazienza di dire coincide con l’impazienza della stessa memoria che viene a galla. Illuminando il buio della notte la decisione irrevocabile di Renato Minore sta nel modulare l’identità dell’uomo e l’alterità del mondo, ma anche nell’attribuire una paternità al quotidiano incomprensibile. Un afflato spirituale, universale, completamente fuori dalla dimensione esclusiva dell’io, si va via via delineando e l’evocare la rotta, un ritrovato senso, implica anche il bisogno di ricorrere a qualcuno nelle grandi questioni della vita umana.

Nella presentazione di Raffaele Manica viene sottolineato che “il destino arriva sotto la spinta di un nonnulla” e il caro vorrà dire anche che “il pensiero è costoso, nel senso che grava nei moti dell’anima e nei ricettacoli della memoria, inventando perfino un inciampo nello stare al mondo”. O caro pensiero mantiene una linea coerente con le precedenti pubblicazioni che avevano indotto firme eccellenti ad occuparsi della poesia di Renato Minore. Giuseppe Pontiggia annotò una voce sommessa e forte; Giovanni Raboni una lieve e tenace apprensione amorosa; Ruggeri Guarini guardò alla sorpresa, allo smarrimento e al disinganno del verso. Walter Pedullà ha rimarcato il piacere del “racconto che aspetta di essere avviato” come promessa di un evento. E ancora Cesare De Michelis che ebbe a dire di “un ordine che immediatamente ricorda l’organica struttura del racconto”. Jacques Risset sondò il tono di complicità con il femminile all’interno del complesso paesaggio dove “il tragico, il sorprendente, il numinoso sono accettati e vissuti integralmente”.

Nel testo Il moto della chioma Renato Minore scrive, a chiusura di una poetica acclarata: “È tutto un correre di secoli / contro l’instabile motore / dell’estinzione”. La sonda verso l’alto, che si inoltra nella scoperta dell’invisibile, trova una “porta chiusa” che si oppone al desiderio e alla fantasia, dove la vita è sempre oltre la soglia in uno sguardo maturo, ma non compiacente. Una volta Minore ha dichiarato pubblicamente che “conosci te stesso” è l’impresa più ardua e che scrivere è questo sforzo, vano ma necessario. Una mente viva proietta introspezioni su introspezioni nella libertà fatta di parola e di ascolto (poetare e pensare). Al centro della poetica il reale fremente fa venire alla luce il sogno e l’amore (“l’armonia dei corpi comunicanti”). Qui la visione stessa non sfuma in un altrove consolatorio, ma si allaccia ad un’epica resistente, esperita nel gancio tra presente e passato. E specie il presente è per lo più introflesso, generatore di convinzioni. In fin dei conti, il dialogo immola una sottile speranza. Renato Minore mantiene un’idea redenta di poesia: il calcolo della vita non è mai astratto, ma risulta premuroso, pacato e appassionato. La conciliazione avviene nel reciproco scambio con l’altro. È questo il vero e unico senso del possesso che un uomo può dare in prestito come “legge umana” ineludibile, esente da ogni egoismo. “Quando il cuore può parlare / non occorre prepararsi / interroga oh se interroga / non arriva a comprendere”.

Alessandro Moscè

*In copertina: Renato Minore in una fotografia di Muriel Oasi

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