Nata a La Roche-sur-Yon, in Vandea, nel 1883, Cécile Sauvage fu stimolata dal padre a perfezionare il talento per la scrittura. Aveva sintonia con il dire di Keats, refrattaria – fin, si diceva, nelle finiture del volto – agli eventi mondani, al clangore dell’epoca guerrafondaia. L’amore accadde sotto la corolla lirica. Inviò alcuni versi a “La Reveu forézienne”: il redattore, Pierre Messiaen, ne fu conquistato. Si scrissero, si sedussero, si sposarono, a Digne, era il 1907. Negli anni, Pierre diventerà uno dei massimi traduttori di poesia anglofona: ha voltato in francese i versi di William Blake e di Walt Whitman, di Coleridge e di Emily Dickinson; di particolare importanza gli studi – e le traduzioni – intorno a Shakespeare.
Cécile continuò a scrivere, con dedizione remota: preferiva la vita in luoghi isolati, vivere di poco, del pane e delle rose, di eventi nudi, di momenti primi e ultimi. Avevano una casa in Alvernia e lì scrisse la sua raccolta più alta, Tandis que la terre tourne (Mercure de France, 1910). Era congeniata a una ispirazione genuina, non priva di sfacciataggine. Sapeva amare.
La seconda raccolta, Le Vallon (1913), coincise con l’amore, rapido, frugale, fuori bordo, clandestino, per Jean de Gourmont, editore in Mercure de France. La storia è stata recentemente ricostruita da Béatrice Marchal, che per Cerf, nel 2009, ha raccolto gli Écrits d’amour di Cécile. Per altro, Cécile pare abortire al genio, naturale e in picchiata, in lei: non pubblica più nulla, vaga tra frammenti e poemi mutili (tra cui, un testo sulla vita di Maria Egiziaca). La sua è bellezza d’ombre, d’altronde, dotata di una scrittura ungulata, poco adatta a scalpitare tra i salotti: è cosa vigile e senza vigilanza, fatta per le rocche, per le gelide fonti, per le alture. Le Œuvres complètes – complete dei frammenti e di una oculata scelta epistolare – saranno edite, con prefazione di Jean Tenant, sotto censorio sguardo del marito, per Mercure de France, ancora, nel 1929 (poi riprese, nel 2002, da La Table ronde).
Costretta a Parigi nel 1919, città che in fondo detestava, Cécile si spegne, nel tardo agosto del ’27, rosa dalla tubercolosi. Al suo capezzale, il marito, i figli: Alain André Prosper, nato nel 1912, e il più grande, neppure ventenne, Olivier Eugène Prosper Charles. Proprio per assecondare il talento di quest’ultimo, per assicurargli un futuro in squilli, la madre aveva scelto Parigi. Negli anni, Olivier Messiaen, tra i grandi compositori del Novecento, avrebbe riconosciuto alla madre il ruolo di alta ispiratrice, con cornucopia di lodi. Qualche decennio dopo la sua morte, negli anni Settanta, Messiaen metterà in musica alcuni versi che gli aveva dedicato, neonato, L’âme en bourgeon (tradotti in Italia da Maria Pia Sacchi per Interlinea come L’anima in boccio, 2019). Sono versi di struggente bellezza, che hanno relegato, però, Cécile al ruolo di musa della maternità, minimizzandone il talento altro.
Occorre, invece, investigare il resto dell’opera di Cécile, che oggi ha il primato di una frugale, preadamitica potenza. Ne vien fuori un lavoro di sbalorditiva originalità: un’arguzia indivisa, divinatoria. Aveva ragione, nel 1910, Jean de Gourmont, quando, presentando Cécile nella rubrica “Muses d’aujourd’hui”, pubblicata su “Mercure de France” (la rivista), scriveva:
“La poesia di Cécile Sauvage è poesia all’aria aperta, poesia in pieno vento: ha la flessibilità e la leggiadria dell’albero saldamente ancorato alla terra, ma che protende i rami alla luce. Nei suoi versi c’è l’amore per la vita fine a se stessa, che non cerca altro. Questo contatto diretto con la natura, questa partecipazione a ogni suo moto, permette alla poetessa di sorprenderne i gesti più segreti, l’abbagliante nudità… Dona una strana gioia leggere queste poesie, accertandosi che questa giovane donna, Cécile Sauvage, non si è fatta ispirare da alcuna lirica precedente; le immagini che ci propone sono tutte appena colte, conservano l’umidità profumata dei fiori appena recisi da un cespuglio”.
Una poesia del genere non poteva essere apprezzata nel secolo d’acciaio delle furibonde sperimentazioni liriche, nel secolo dei futurismi e dei surrealismi, dei funambolismi verbosi. Poesia che trepida, tra interludi di cuori animali, fu accolta tiepidamente anche dopo la morte dell’autrice, figura estranea a ogni ‘movimento’, foss’anche in reazione all’imperioso cataclisma delle arti. Non era neppure cattolica: professava, in un confessionale noto a sé sola, il buon senso panteista – la poesia, incantatoria nel caso suo, gli faceva da rosario per fare ingresso nel bosco, “e bagnarsene fino al collo”. Per questo, raffinata in estrema solitudine, nell’estraneità, priva degli ornamenti intellettuali e marziali della poesia novecentesca, la poesia di Cécile ha il miracolo dell’acqua che ti viene addosso, favorisce la venuta dell’uomo con il muso da cervo e da volpe.
È certo: di notte lei diventava rapace, imitava la bella civetta, nudo desiderio che non separa sangue da biancore. Innocente – parola che dà da tremare.
***
Ascolta, il mio cuore è scatenato
Ascolta, il mio cuore è scatenato
e ti chiama: è finita l’ora del pallore
del pianto che resta in gola come una colomba.
Finita l’era delle parole blu e dei fioriti atti.
Finita l’era dell’amore ghirlanda
dell’aprile tra i tuoi capelli: mai più
mi appenderò a te come un cesto di vimini
dove la lavanda muore mentre la luna
a sera ci obbliga al bosco.
*
Nudi desideri
Vivere del verde dei prati, del blu delle valli
degli alberi abbarbicati ai burroni
dei fiumi che dardeggiano di argentei pesci;
vivere del glorioso cicaleccio dei raccolti
dei luminosi anditi nelle bulimiche primavere
dell’alba che si solleva dalla nebbia
dell’ottobre che semina foglie e frutti
e del lunare incantesimo delle notti
disertate dal rospo che canta tra i cespugli.
Vivere con l’ingenuità del sorbo e della nespola
raspare la ciotola di legno con la spatola
avere le dita amare dopo aver mangiato le noci
vivere dello smalto cremoso sui piatti
dei formaggi ricoperti di erbe profumate.
E non sapere nulla del mondo dei crudeli amori:
offrire baci pieni di sensuale saggezza
all’amico segreto, baci che hanno il sapore
del miele e delle rose in boccio, baci
aspri come le prugne verdi.
Raccogliamo, insieme, i nomi dei boschi
accarezziamo l’orizzonte, curvo di brume
corriamo nell’infinito senza torpore di torba
nel ronzio della vita e della morte.
Ignora il desiderio che corrode il morso
la sterile modestia, il tormento dei glossatori;
rimani confitta nel nulla delle cose
non preoccuparti di diventare grande
non farti definire dalla fama: del sole
prendi soltanto ciò che puoi serbare.
Cammina con animo sicuro verso
la tua meta, mantieni ritmo e misura:
guarda come si svolge il tuo destino
e non discuterlo – accetta il cardo che ti ostacola
credi nel fato e compi il tuo dovere come fa
l’acqua del torrente. Vivi soltanto di ciò che hai
respingi l’orgoglio che corrompe
accontentati di questa veste di lino
e di un rosario di foglie: godi appieno
del fico appena colto con la sapienza
dell’uccello e della monaca –
tutto è bello perché tutto è bello:
semina l’issopo e ama questa gioia
tra la lana dell’agnello e la capra
dal setoso vello.
*
Una casa in montagna
La nostra casa è isolata, tra gole di montagna
dove il canto delle sorgenti dà un nome ai canneti
e tutto è un lembo d’orto pieno di verdure.
La roccia ci confina alla sua rude culla.
Settembre crolla sulle morbide argille
i maiali lasciano una mela per strada
abbiamo dovuto cambiare alcune piastrelle;
spesso il vento è rabbioso tra i pioppi
le persiane sbattono, a notte, il gancio
della porta fa rumore. Abbiamo freddo e paura.
Marea di montoni rivela le sue acque morte:
all’improvviso, una lastra cade dal tetto.
Amo, sotto il pero ammuffito, osservare
i funghi che emergono in borghi: la piccola dalia
mi dona la sua pace, le pecore hanno il muso
del cammello. Questo universo si espande
al ritmo dei nostri sogni, il silenzio è abbeverato
dal torrente, la luna si leva, rotonda, da un nido
di timo, sopra i monti in ginocchio.
Seduta davanti alla porta, vedo il suo riflesso
nella brocca verde: le patate hanno il ventre
duro e rosato, scuciono il sacco. Ammiro
la zucca che diventa oro, le purpuree prugne
che si avvinghiano ai graticci – l’insalata
della sera è nel secchio e i corvi, insaziabili,
sfiorano le cime degli alberi, litigano
e fanno cadere le vecchie noci.
La montagna nutre erbe dal forte sentore:
la nostra capra si annoia e tira la corda
vuole raggiungere le lavande delle alture.
Il contadino ara un campo petroso:
metterò a bagno quel pane, duro,
per il suo ritorno, preparò un piatto
di frutta se ne avrai fame – nel bicchiere
il vino palpita. Ci piace vivere al cospetto
del cosmo: uno stormo di api volteggia
e grida intorno ai fiori, la neve che resiste
nei crepacci anche d’estate non si distingue
dalle nuvole in moto. Lunghe vespe suggono
le bacche mature del sorbo. La casa
ha il muschio sul dorso e la campana
degli arieti misura le ore del nostro giorno
e la loro purezza. La luna ha gli occhi chiusi
e il sole ci scalda, suda come un bue;
sulle nostre vette, il cielo è teso e biondo:
una nube sfiora il fronte oscuro
e si acquatta tra le querce contorte
desidera dormire.
*
Questa sera…
Questa sera ti porgo il mio più lucente tappeto
questo, fatto con l’erba che luccica sui colli a giugno;
la mia anima quest’oggi ti è fedele, ritorna
con odore di tiglio, fieno e verbena;
ti porgo quest’anima campagnola
che per tutto il giorno ha corso nel cuore
dei raccolti, come l’ingenuo pastore che custodisce
le mandrie perdute e calcinate tra i cespugli.
Ho preparato per te pane e formaggio
ho bevuto a mani giunte la rosea acqua del torrente:
in quello specchio ho creduto di vederti.
Ti porto il gladiolo che spicca sulle canne.
Sono vigile e allegra come una capretta da latte
i miei zoccoli rumorosi hanno le ali
il mio viso è purpureo come le bacche
che il biancospino dona ai mesi che indossano il velo.
Tra affrettate ombre, ritorno: il vomere azzurro
della mezzaluna apre un solco d’oro in cui
le stelle corrono albine, con le corna.
Ti offro la frescura che mi riempie la bocca
il cielo ha ancora un vello viola
l’emozione fa crescere la lana sulla mia gola
la dolcezza della luna mi buca gli occhi.
*
Abbracci di sangue
Misera fiamma, gli abbracci di sangue
sguardi d’amore che non vanno oltre
gli occhi – e il profondo profumo dell’anima
resta per sempre un mistero. Che il labbro
allora ci sia per sempre estraneo, che la brocca
del bacio si frantumi in futile orgoglio
e sparga tra di noi un freddo tombale. D’altronde,
l’anima giace nella carne come in una bara.
*
Le tue braccia
Le tue braccia sono più profonde dei curvi alberi
più vaste del grano in cui si accuccia il vento
e il tuo dire d’amore ha il grido caldo
del grillo che soffoca tra i rovi a mezzogiorno.
Non riesco più a capire se sei tu che ridi
sul mio collo o se è la brezza a sfinirmi.
Quando mi sfiori, il cuore è in subbuglio
batte come l’ape contro la finestra;
eppure, sono io la strada e tu calpesti
la mia erba e la mia sabbia – eppure,
mi tendo nei tuoi occhi come un ramo
finché non penetri la mia anima, la purifichi.
Cécile Sauvage