“Nei sonni degli erranti”. Una scoperta, la poesia di Antonio Camaioni
Poesia
Giorgio Anelli
Molti poeti non sono poeti per la stessa ragione per cui molti religiosi non sono santi: essi non riescono mai a essere se stessi. Non riescono mai ad essere quel particolare poeta o quel particolare monaco che Dio intendeva essi fossero. Non diventano mai l’uomo o l’artista richiesto da tutte le circostanze della loro vita individuale. Essi perdono gli anni in vani sforzi per essere un altro poeta, un altro santo. Per molte assurde ragioni, si credono obbligati a diventare qualcuno morto ormai da duecento anni e vissuto in circostanze assolutamente estranee alle loro. Essi consumano mente e corpo nel vano sforzo di avere le esperienze di un altro, di scrivere le poesie di un altro, di possedere la santità di un altro.
Ci può essere un profondo egoismo nel voler seguire gli altri. Si ha fretta di diventare grandi imitando ciò che è popolare, e si è troppo pigri per pensare qualcosa di meglio. La fretta rovina tanto i santi quanto gli artisti. Essi vogliono un rapido successo, ed hanno tanta fretta di raggiungerlo che non trovano il tempo di essere fedeli a se stessi. E quando poi sono diventati pazzi, essi affermano che quella stessa fretta è una specie di integrità.
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Non siate uno di quelli che, pur di non rischiare il fallimento, non tentano mai nulla.
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La nostra mente è simile alla gazza. Essa raccoglie tutto ciò che scintilla, non importa quanto diventi scomodo il nostro nido con tutta quella ferraglia.
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Ho ben poca idea di quanto avviene nel mondo; ma a volte mi capita di vedere quello che si disegna e si scrive, e mi convinco che la gente vive nei bidoni della spazzatura. Sono contento di non poter sentire quello che si canta.
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Se uno scrittore è tanto cauto da non scrivere nulla che possa essere criticato, non scriverà mai nulla che possa essere letto. Se vuoi aiutare gli altri, devi deciderti a scrivere cose che taluni condanneranno.
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Non puoi essere un uomo di fede se non sai dubitare. Non puoi credere in Dio se non sei capace di mettere in dubbio il valore di un preconcetto, anche se tale preconcetto può sembrare di carattere religioso. La fede non è conformismo cieco ad un preconcetto, ad un “concetto prestabilito”. La fede è frutto di una decisione presa consapevolmente, di un giudizio fatto con piena deliberazione alla luce di una verità che non si può dimostrare. Non è semplicemente accettare una decisione presa da altri.
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La vera fede non è semplicemente fonte di conforto spirituale. Essa può certamente procurarci la pace, ma per far questo deve coinvolgerci in una lotta. Una “fede” che cerchi di evitare la lotta è, in verità, una tentazione contro la vera fede.
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Ecco la rinuncia più difficile e più necessaria: quella del rancore. È quasi impossibile perché senza rancore e risentimento la vita moderna cesserebbe probabilmente del tutto di essere umana. Un certo risentimento ci permette di sopravvivere all’assurdità di abitare in una città moderna. È l’ultimo baluardo della libertà in mezzo alla confusione. Non si può sfuggire alla confusione, ma possiamo almeno rifiutarci di accettarla, possiamo dire “no”; possiamo vivere in uno stato di muta protesta.
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Ma se il rancore è un espediente che permette all’uomo di sopravvivere, non gli permette necessariamente di sopravvivere in modo sano. Non è vero esercizio di libertà. Non è espressione genuina di rettitudine personale. È la protesta muta, animalesca di un organismo psicofisico maltrattato. Troppo spinta, diventa malattia mentale; è anche questo un “adattamento” sui generis. Ma è adattamento per mezzo della fuga.
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Il problema è rinunciare al rancore senza abbandonarsi a quei maneggioni che pretendono che tutti accettino l’assurdo e l’anarchia morale a cuor leggero e con condiscendente complicità. Pochi sono gli uomini abbastanza risoluti per trovare una soluzione. Entrare in un monastero non è necessariamente la soluzione giusta, perché anche nei monasteri esiste il rancore e per le stesse ragioni che esiste altrove.
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Se volete rinunciare al rancore, dovete rinunciare a quell’io evanescente che si sente minacciato dalla confusione, senza la quale però non è capace di sussistere. Qui sta il problema: dover vivere in totale, assoluta, servile dipendenza da un sistema, da una organizzazione, da una società o da una persona che si disprezza o si odia. Vivere in simile dipendenza, ma al tempo stesso dover fingere di approvare e accettare quello che si odia, a causa del proprio attaccamento a quella che sembra essere “personalità”. Avere un “io” che è essenzialmente servile e dipendente, che esprime la propria servilità con la loda e l’adorazione costanti del tiranno al quale resta, controvoglia ma necessariamente, soggetto.
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Fintanto che fingerai di vivere in assoluta autonomia e di essere padrone di te stesso, senza neppure un dio che ti governi, vivrai inevitabilmente come servo di un altro oppure come membro estraniato di una organizzazione. Paradossalmente, è l’accettare Dio che ti libera dalla tirannia umana, perché quando servi Lui non ti è più permesso alienare il tuo spirito nelle servitù umane. Dio non invitò i figli d’Israele a fuggire dalla schiavitù in Egitto. Egli comandò loro di fuggire.
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Il poeta entra in se stesso per creare. Il contemplativo entra in Dio per essere creato.
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Se scrivi per Dio, potrai giungere a molti e recare loro gioia.
Se scrivi per gli uomini, puoi mettere insieme un po’ di soldi, puoi dare un po’ di gioia a qualcuno e fare, per qualche tempo, rumore nel mondo.
Se scrivi solo per te stesso, puoi leggere quanto hai scritto e dopo dieci minuti ne sarai tanto disgustato da desiderare di essere morto.
Thomas Merton
*Il testo è tratto da “New Seeds of Contemplation”, 1961; traduzione di Bruno Tasso e Elena Lante Rospigliosi