13 Luglio 2019

Perché la parte feroce dell’uomo ci incuriosisce sempre, bisogna ammetterlo. Discorso su “Il giardino delle mosche”, il romanzo che ci fa mangiare il Male

Andrea Tarabbia nel suo Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie, 2016) è capace di fare una cosa straordinaria con la scrittura: rendere il male una cosa comune ma soprattutto comprensibile. Per chi si approccia ai libri partendo direttamente dal testo, senza leggere prima alcuna recensione, noterà subito che il primo capitolo ci porta all’interno di un monologo consapevole e diretto – pare – al lettore. “Per molto tempo, non so più nemmeno quanto, io ho vissuto in luoghi astratti” è la prima frase: un narratore quindi almeno di età adulta che parla in prima persona e apre il racconto parlando di una vita vissuta in luoghi astratti, dove la presenza fisica non è collegata alla presenza mentale, per cui la coscienza psichica va altrove, in altri luoghi astratti ancora.

Andrej Čikatilo è il protagonista di questo disincantato romanzo che si snoda tutto in forma di confessione, un racconto che ci viene concesso con la preghiera di fiducia completa ma soprattutto con la richiesta di non domandare perché ora egli si sia deciso a parlare. Per chi non avesse fatto ricerca sul nome del protagonista o per chi non avesse ricordo stiamo parlando del più sconvolgente serial killer dei tempi moderni. Andrej ha ucciso almeno cinquantasei vittime accertate, con un metodo quasi sempre preciso e una firma che non lasciava dubbi sulla identità del carnefice, con delle lievi sfumature ogni volta motivate da una scelta precisa.

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Dalla prima frase abbiamo già due elementi da considerare: Andrej non sa, ci confessa che ha sempre fatto fatica a ricordare, la dimenticanza è la primissima forma di “mutilazione”, ci dice che viveva e affrontava la vita quotidiana senza esserne davvero mentalmente presente, semplicemente viveva in luoghi astratti. La terza informazione che ci tiene a dare è la sua appartenenza convinta al partito comunista: è un vero compagno che ha dato tutto e ha fatto anche tutto questo principalmente per la grande causa comune della Russia. Ma da dove parte la spinta di tutto il male? Il primo grande nodo è il sapore del sangue: un sapore che viene da qualcosa di molto lontano nella memoria inconsapevole di Andrej. Il momento della nascita di un uomo è determinante per tutta la sua vita, ma l’uomo stesso che è neonato subisce subito la prima grande mutilazione che è appunto la memoria, il neonato non ricorda il momento della nascita. Appena Andrej è nato la madre chiede solo se è vivo e si avventa sull’unico pezzo di pane rimasto nella casa, un pezzo di pane caduto per terra e intriso di sangue e liquidi placentali. Lavato giusto il minimo quel pezzo di pane viene mangiato. Andrej nell’oblio della memoria subisce questo, la madre che divora cibo e sangue insieme. Il sapore del sangue sarà infatti la molla definitiva all’inizio della lunga serie di omicidi; questa volta è sangue mestruale, proviene da una donna, la donna come inizio di tutto, la donna spesso come meta.

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Al di là della storia della vita di Andrej che non mi preme qui raccontare, potete appunto leggervi il romanzo di Tarabbia, quello invece che mi interessa è la straordinaria capacità di Andrea Tarabbia già accennata di rendere il Male qualcosa di comune, accessibile e comprensibile a livello razionale. Leggendo questo testo si è allo stesso tempo incuriositi (la parte feroce dell’uomo ci incuriosisce sempre, non neghiamocelo), schifati per le atrocità, comprensivi nei confronti di Andrej e insieme razionalmente coinvolti nella narrazione. Tarabbia ci rende questo mostro umano, ci fa percepire i contorni di un uomo semplice afflitto da drammi esistenziali più o meno comuni, non eccezionali. Ci fa capire che non è necessaria una tragedia straordinaria, che c’è il seme del male anche nel più ordinario tra gli esseri umani. Anche in un padre di famiglia, in un marito buono, in un lavoratore normale.

La seconda delle grandi mutilazioni di un uomo ci dice Čikatilo è l’impotenza: un uomo diventa uomo quando può rendere gravida una donna, ma ancora di più ovvero “l’uomo è nel seme che ingravida una donna”, l’uomo quindi è svuotato del suo contenuto individuale, l’uomo in quanto contenitore spermatico che assume il significato dell’esistenza solo quando è in grado di trasferire il contenuto in un vaso pronto all’uso. Andrej è semplicemente un uomo con difficoltà erettive, un uomo che sale e scende dagli autobus continuamente senza meta perché ha la necessita di provare calore, di conoscere come le persone si muovono, cosa fanno. Come si vive quindi senza mutilazioni. Andrej è un uomo solo e schivo che si sente in perenne rincorsa per una affettività sempre rifiutata. Andrej insegue i sentimenti, i sentimenti degli altri. Tarabbia ci restituisce in questo romanzo un uomo come tanti, come siamo anche noi che cerchiamo una rassicurazione, un apprezzamento, che cerchiamo calore e che tante volte abbiamo visto accadere i sentimenti degli altri senza esserne stati resi parte.

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Il male non è nello straordinario, non sta solo nella follia, il male si nasconde sotto linee sottilissime che dividono ciò che è normale, o leggermente eccessivo, e il resto dell’inferno. Čikatilo nella sua confessione ha già spiegato cosa rende un uomo tale, ma un uomo diventa completo quando è in grado di dare la vita ma anche di dare la morte. Ecco cosa lo fa sentire per la prima volta un uomo intero. Da bambini lo abbiamo imparato subito giocando con gli insetti: ci sono bambini a cui piace testare la loro forza sulle formiche o sulle lucertole, non è insolito, sono semplici prove di forza che col tempo, la crescita e l’educazione vengono reindirizzate o represse. A volte capita che si passi dalla lucertola a un sano bullismo, tanto poi passa. Passa sempre, o quasi. Allora da qui la spiegazione di Andrej nel piacere della mutilazione dei corpi: tutti siamo abituati a pensare ai nostri corpi come inviolabili, ma la carne si apre, i muscoli si possono con forza recidere, i tendini rompere e niente è indistruttibile. Lui lo impara subito e lo imparano anche le vittime. Per Andrej uccidere non è un atto folle, non è un luogo astratto, per lui è un compito, una missione: deve ripulire la Russia da tutti gli elementi scomodi, dagli scarti della società, da quelle persone che con la loro condotta morale corrotta possono sporcare la grande causa comune russa. Andrej giudica e pulisce, e in questo atto preciso restituisce il favore della condanna subita a sua volta: nonostante le sue mutilazioni è un buon uomo, rende pulita la Russia e vede il suo membro alzarsi spontaneamente. Fa due cose giuste, si rende uomo due volte, si rende completo e utile.

Quindi anche nel male più profondo Tarabbia ci fa capire che può esistere una logica, può essere comprensibile, può essere reso comune, cosa quasi inevitabile. Questa confessione lunghissima si alterna alle domande dello psichiatra del carcere e solo attraverso la figura di questo medico abbiamo il punto di vista collettivo, l’indignazione e il rifiuto. Direi che questa è quasi l’unica voce autorevole che si contrappone alle giustificazioni precisissime di Andrej, un uomo comune mutilato nella memoria e nella sua mascolinità che cessa quindi di sentirsi tale solo quando compie un omicidio, un uomo quindi che cerca di farsi di nuovo uomo.

Clery Celeste

*In copertina: Andrej Romanovič Čikatilo; processato per l’omicidio di 53 persone, è stato giustiziato il 14 febbraio 1994

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