
“Che tu sia lodato, Nessuno”. Paul Celan e la maledizione del numero 20
Letterature
Fabrizio Coscia
In questa storia il fato e il nitore dell’amore si fondono. Secondo il mito, replicato da Ovidio, Clizia è la ninfa ripudiata dal Sole, ma, non ammettendo il rifiuto, arsa dalla pena, si muta in girasole, il fiore che con il suo enorme occhio giallo sfida ogni giorno l’astro. Come si sa, Clizia è il nome mitico che Eugenio Montale affibbia a Irma Brandeis, studiosa newyorchese di Dante, proveniente da ricca famiglia ebraica, incontrata a Firenze, nel 1933. A me commuove sempre il modo in cui Montale cinge Irma, con quel verso dantesco, nella Primavera hitleriana, delicatissimo e definitivo, “Guarda ancora/ in alto, Clizia, è la tua sorte, tu/ che il non mutato amor mutata serbi,/ fino a che il cieco sole che in te porti/ si abbàcini nell’Altro e si distrugga/ in Lui, per tutti”. Eccolo, il sigillo dantesco, tu che il non mutato amor mutata serbi, che sta a dire che l’immutabile è amare, mentre tutto si corrompe, con la pazienza di chi già ha saputo e schivato la morte. Ma questa è letteratura. Marco Sonzogni, che insegna all’altro capo del mondo, all’Università di Wellington, in Nuova Zelanda, che di Montale è esegeta, del suo rapporto con Clizia soprattutto (La speranza di pure rivederti… Clizia, Montale e l’impossibilità di dirsi addio, Archinto, 2013), e nel tempo libero di occupa di Seamus Heaney (ha curato nel 2016 il ‘Meridiano’ Mondadori che ne raccoglie le Poesie), ha scoperto l’arcano, congiungendo il fatto biografico, l’oggetto reale, al gesto letterario, metaforico. Insomma, Montale, a sigillare un rapporto impossibile – Montale, come ogni scrittore vero, era avido di rapporti estremi e assoluti, per farne letteratura – visto l’incombere della Mosca, cioè Drusilla Tanzi, futura moglie del poeta, promette a Clizia-Irma un amuleto, anzi, un pegno. Ora: Sonzogni, coccolato dal fato, quel magnetico amuleto l’ha trovato (“Nel mio ultimo soggiorno a stelle e strisce legato allo studio delle carte di Clizia, accanto ai faldoni – di varia grandezza e contenuto, già quasi tutti scrutinati – notai che c’era anche una piccola scatola, di quelle che si usano per spedizione postali, con «in testa» una scritta in inchiostro nero di pennarello: «Stationary», cioè «cancelleria». Sono sincero: l’idea che al suo interno potesse nascondersi l’amuleto o il talismano che Eugenio Montale, a più riprese, promette di inviare a Irma Brandeis fin dalle prime battute del loro scambio epistolare mi sfiorò subito”) e intorno a questa felice scoperta ha scritto un libro, “Il guindolo del tempo”. Montale, Clizia e il pegno (Archinto, 2017), di notevole bellezza. L’amuleto, risolviamo subito il ‘fatto’, “è un pendaglio in bronzo a forma di figura umana stilizzata che veniva utilizzato come strumento da toeletta: un cosiddetto «nettaunghie»”, d’epoca etrusca, inviato dal poeta a Irma tra il 1934 e il 1935, ora esposto al Museo civico archeologico ‘Isidoro Falchi’ di Vetulonia, dopo evento pubblico accaduto il primo luglio scorso. Sonzogni, piuttosto, reperisce dentro le poesie di Montale l’importanza dell’amuleto, dell’oggetto salvifico, l’impronta del sortilegio, a prolungare la magia della parola. Elevando a pienezza letteraria una vicenda biografica (come quasi tutte) poco avvincente (“Questi documenti epistolari hanno senz’altro mostrato al lettore il negativo del grande poeta: un uomo incapace di prendere decisioni e artefice per buona parte della propria infelicità”), dove il poeta “per un anno – dal 2 dicembre 1938 all’11 dicembre 1939… continua a prospettare a Brandeis un imminente cambio di rotta che dia finalmente inizio a una vita insieme”, cambio di rotta che, poco poeticamente, nonostante le promesse (14 gennaio 1939: “Le pratiche poi necessarie, dal passaporto in su, le farei a Roma”) non accade. Eppure, quale donna può vantare un tale sfoggio di amuleti? Quello reale e quello letterario, che sancisce il senza tempo di un amore comune, mai più come tutti gli altri.
Intanto, le domande del detective. Come sappiamo dell’esistenza dell’amuleto? Che cos’è? Dove è stato trovato? Che valore ha?
Nelle sue lettere a Clizia, Montale parla a più riprese di un amuleto/talismano che intende mandarle – arrivando a considerare anche un “leocorno egiziano”. E a un maestro del correlativo (s)oggettivo come lui bisogna credere anche quando, forse deliberatamente, depista. E poi le sue poesie sono piene di oggetti, come ho cercato di dimostrare appoggiandomi agli studi di alcuni tra i maggiori studiosi di Montale – su tutti Blasucci, capostipite dello studio dell’oggetto montaliano. In Montale l’oggetto agisce sempre, in un modo o in un altro, da senhal di una figura femminile assente, che evoca e al tempo stresso protegge. L’ho trovato a New York, tra le cose di Irma Brandeis, dove avevo recuperato anche diari, lettere, scritti e carte varie di cui mi sono occupato negli ultimi dieci anni. Questo oggetto, come gli altri, ha il valore ‘ordinario’ e ‘straordinario’ che gli ha voluto attribuire Montale, in poesia e nella realtà. Trattandosi di un pegno d’amore, ha un’energia, per così dire, più intensa e più intima. Meglio, dunque, non rovinarla cercando di spiegarla troppo…
Poi. Perché per Montale è importante l’amuleto a sancire l’amore per Clizia, a celebrarlo? Vince una qualche forma di superstizione nel poeta? Perché proprio quel monile, etrusco, e non altro?
C’era una distanza ‘materiale’ (geografica, insomma: uno in Italia l’altra negli Stati Uniti) e una ‘spirituale’ (emotiva, affettiva) da colmare. E la presenza di una terza incomoda, la Mosca, a rendere tutto più difficile. Al pegno Montale affida una serie di funzioni – presenza, protezione, promessa. Quel nettaunghie etrusco – appartenuto ad una principessa picena, tra l’altro – le ricopre tutte queste funzioni, e altre ancoro. Certo per risponderti in modo completo bisognerebbe sapere con certezza dove Montale lo abbia recuperato e tramite chi. Ma non ci sono dubbi che, avutolo, sia subito diventato l’oggetto ideale cui affidare la funzione di pegno per Clizia, da subito e per sempre sua “divinità” (“my goddess” come le scrive pochi mesi prima di morire). Non credo ci siano sfumature di superstizione – se non, forse, volendo portare all’interno del significato del pegno qualche interpretazione legata alla Mosca, interpretazione che sarebbe quella, volendo insistere, di rimozione di un ostacolo che poi non fu, per altro, per nulla rimosso anzi…
Che valore ha l’amuleto, il ciondolo, l’arcano, in genere, nella poesia di Montale? Che rapporto ha il poeta con il caos, il misterioso, l’enigmatico che sottostà ai fatti del mondo?
L’oggetto, in quanto tale, è simbolo concreto di qualcosa che sfugge, che svanisce. E può anche essere la manifestazione, più o meno duratura, di un mistero, di un segreto, o di qualcosa che altrimenti resterebbe di difficile comprensione. Credo che la poesia stessa sia un modo di leggere tra le pieghe del mondo e all’interno di essa Montale presenta una serie di oggetti come preziose chiavi di lettura, anche quando fortemente personali e intime come il pegno. La poesia, insomma, è un modo come un altro di dare un senso ai fatti del mondo, quelli chiari tanto quanto quelli oscuri; di interpretare quello che a volte sembra incomprensibile o inarrivabile. Ma a questo oggetto, come ho detto sopra, Montale affida una funzione molto precisa, molto reale, molto chiara, molto personale.
…cosa resta ancora da scoprire di Montale e dove si indirizza, piuttosto, la tua ricerca, ora?
In un poeta della grandezza di Montale c’è sempre qualcosa da scoprire, non si finisce mai di capirlo interamente e anche illudersi di poterlo fare è un gesto di ingiustificata arroganza. Nel mio ultimo studio ho detto che non mi sarei più occupato di Montale, certamente non più di Montale e Clizia. Per ora confermo, ma non si sa mai…