23 Gennaio 2025

“Io sono l’estremo delinquente”. Vita folle di William Cowper

Figlio di un conciatore di pelli scozzese, Alexander Selkirk s’imbarcò per i Mari del Sud, come corsaro, da ragazzino. Per una divergenza con il capitano della chiatta, fu abbandonato sulla Más a Tierra, remoto, disabitato scoglio delle Juan Fernández, a quasi settecento chilometri dalla costa cilena. Gli concessero moschetto, polvere da sparo, un’accetta, un coltello, il materasso e la Bibbia. Selkirk aveva 28 anni, ne visse cinque sull’isola, da isolato: quando il “Duke”, nel febbraio del 1709, venne a prenderlo, il capitano Woodes Rogers, futuro governatore delle Bahamas, lo trovò in forma, ben aggiornato nel corpo e nella mente: “l’isolamento dal mondo non dev’essere poi così insopportabile”, chiosò.

La vita di Selkirk continuò com’era iniziata. A Guayaquil, in Ecuador, risalì il fiume Guayas per abbordare e derubare certi ricchi spagnoli; in Messico arpionò un galeone; fu sailing master nelle Indie orientali olandesi; doppiò il capo di Buona Speranza. Sapeva pregare e sapeva uccidere. Soprattutto, diventò il ‘soggetto’ del primo romanzo moderno: The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe di Daniel Defoe.

La più rovinosa indagine nel cuore del naufrago fu tuttavia opera di un poeta, William Cowper. Nato otto anni dopo la morte di Selkirk, nel 1731, conficcato in una sensibilità a pieno ardore, a tutta fiamma – ma rupestre, avvinta alle nevi –, Cowper fa del rude naufrago un filosofo: benché signoreggi su fiere e volatili, gli è nulla la vita senza amore e amicizia, simboli della civiltà umana. Figlio di un ecclesiastico, a capo della chiesa di St Peter a Berkhamsted, Hertfordshire, innografo di incantata leggiadria, a Cowper, probabilmente, era rimasta impressa l’immagine del corsaro che sfoglia la Bibbia, a notte, mentre il fuoco dilegua le grida dei predatori e lo sciabordio delle palme. Nei suoi Verses supposed to be written by Alexander Selkirk il corsaro – nell’icona eretta da Cowper – si fa apologeta, prodigo alfiere della religione, bucaniere della misericordia.

Spesso William Cowper, nei suoi versi di dissennata bellezza, fa riferimento ai naufragi e ai mari del Sud: si sentiva anch’egli, nella celebrata Inghilterra, un naufrago, un pirata tra gli squali, mal fornito di carabina, e forse nel Pacifico – verdeggiante nella sua immaginifica mente – vedeva la propria Gerusalemme dei cieli. Con la stessa minuziosa attenzione, Cowper si rivolgeva alle sfere superne e ai microscopici esseri, transitori, che abitano questo mondo: l’usignolo, il cardellino, il fatidico sofa che costituisce il pretesto di The Task, immane poema in blank verse e in sei tomi, scritto per rispondere a una sfida scagliatagli dalla raffinata amica Lady Austen (dove insieme alla Mad Kate caratterizzata da Henry Fuseli, appaiono, a ossessione, The South Sea islanders compassionated).

Sfiancato dal proprio tempo, vicino – per fragore di spirito più che per vieti virtuosismi dell’anima – ai reprobi e ai deboli (gli schiavi, i ‘selvaggi’, le più fragili creature della natura, cantate come mai prima di lui), preda di allucinazioni religiose, William Cowper tentò il suicidio più volte, fu confinato in manicomio a St Albans, trovò infine ricovero presso Mary Unwin, vedova di un ecclesiastico in pensione. Durante le crisi depressive – il poeta era dilaniato da torbide visioni infere: a tutto si pensava inadatto – era Mary a prendersi cura di lui; la sua morte, nel 1796, minò le residue resistenze di Cowper; la mente ritornò a svanire, il corpo morì qualche anno dopo, il 25 aprile del 1800.

William Cowper ritratto da Lemuel Francis Abbott nel 1792

Tra i più imponenti poeti della sua epoca, nel ritratto che gli fece Lemuel Francis Abbott pare negli addobbi di un James Cook; l’indice segna un lembo del libro aperto, lo sguardo è adatto a uno smarrito, a un fuggiasco da sé. Piaceva a William Blake – che lo raffigurò, con cuffia – per la furia morale; piacque a Coleridge – che lo riteneva the best modern poet – e a Wordsworth per la sintonia con la natura e l’intensità del verbo. Aveva tradotto Orazio e gli omerici, a dire di una ricerca lirica che compenetra il riposo nell’ira, i dettagli ai grandi drammi, l’elegia e l’epica. Fu il cartografo delle nostre inquietudini: nei mari del Sud andò sul suo cuore, poco più che una zattera.

**

Odio e vendetta, mio eterno ristoro,
non permettono di sporzionare l’esecuzione,
attendono, pronti, con impazienza di agguantare
la mia anima nell’attimo.

Dannato più di Giuda, più reprobo di lui
che per pochi soldi smerciò il mastro.
Il più volte tradito, Gesù, ritiene me, l’estremo
delinquente, un profano.

L’uomo mi rinnega, mi rinnega Dio:
l’inferno è rifugio alle mie miserie
mi sorseggia con le sue molteplici bocche
chiuse su di me.

Dura sorte! Assediato a compasso da mille
pericoli, sfiancato, tremo tra i terrori:
se sopravvivo riceverò una sentenza
peggiore di quella di Abiram.

A lui lo scettro della rabbiosa giustizia
precipitò, che ululava, nel centro della terra
io, sfamato dal giustiziere, resto in una tomba di carne
sepolto vivo.

*

Versi scritti (così si suppone) da Alexander Selkirk

Sono il re dei miei sguardi
dispotico dispongo di tale diritto;
dal cuore degli oceani, sono
il re dei volatili e delle belve.

O solitudine! Dove sono gli ornamenti
che i saggi hanno scorto sul tuo viso?
Meglio dimorare nell’allarme
che regnare sopra questi orrori.

Lontano da ogni umano luogo
finirò il mio viaggio da solo
senza il dolce mormorio della parola;
ai miei sussurri, sussulto.

Le bestie che vagano sulla piana
mi fissano con indifferenza:
non conoscono uomo
e la loro pace mi sconvolge.

Solida amicizia e amore
divini premi conferiti all’uomo:
se avessi ali di colomba
potrei assaporarli ancora!

Potrei deviare i miei dolori
nelle vie della religione e del vero
apprendere la sapienza dei vecchi
e le capricciose gioie dei giovani.

Religione! Inaudito tesoro
in cui risiede il mondo celeste!
Più prezioso dell’argento e dell’oro
oltre ogni cosa che la terra può offrire.

Ma è ignoto il suono della campana
a queste valli e a queste rocche:
nessuno sospira ai rintocchi
nessuno sorseggia sorrisi il sabato.

Venti, mi avete trascinato fin qui:
portate su queste deserte plaghe
l’affettuosa cronaca
di una terra che non vedrò mai più.

Mi pensano ancora, di tanto
in tanto, gli amici? Ditemi
che esiste ancora un amico
per me, anche se non lo vedrò mai più.

Rapinosi occhi della mente:
dal volo più rapido delle
tempeste, più veloci
dei tuoni dai dorati calzari.

Se penso alla terra natia
mi sembra di poterla toccare:
ma il ricordo non fa altro
che complicare il dolore:

l’uccello è nel suo nido
la belva sprofonda nella tana:
anche qui c’è un tempo per il riposo
e io mi nascondo nel mio rifugio.

Ogni luogo ha la sua miseria e la sua
misericordia e una pietà mi incoraggia:
dona grazia al soffrire
pareggia l’uomo alla sua sorte.

*

All’usignolo udito dall’autore il giorno di capodanno del 1792

Da quale laggiù odo
stupito, tra rami inermi,
in questo primo mattino dell’anno
una melodia di maggio?

E perché, quando migliaia
di uomini sarebbero orgogliosi
di tale favore, sono stato
scelto proprio io a testimoniarla?

Forse canti per me, dolce
Filomela, perché anch’io
da tempo pratico i boschi
pur scansato dal canto.

Forse canti al giogo
di un celeste messaggero
presago di più felici giorni
appena dietro l’angolo…

Tre volte benvenuto, allora!
Per anni, privi di gioia,
ho cantato come te
sotto cieli invernali.

Ma nessun cielo invernale
può intaccare il tuo canto:
soltanto tu scopri una primavera
nel nostro impietoso gennaio.  

*

Su un cardellino morto di stenti nella sua gabbia

Libero come l’aria, un tempo,
lanoso seme del cardo il mio cibo
bevevo la rugiada, cruna del mattino;
mi appollaiavo su ogni cespuglio
regale nella forma, bello il piumaggio
sempre nuovi i miei canti.

Ma l’aureo piumaggio, il canto che
sgorgava a sprazzi, la nobile figura
furono vani, transitorio vanto;
mi catturarono, morii di fame
in una gabbia, i miei sospiri
oltrepassano a tratti la grata.

Grazie, savio corteggiatore,
per i guai che mi hai arrecato
e la cura da ogni male! Nessuno
avrebbe potuto essere più crudele
 di te: se fossi stato buono, sarei
comunque tuo prigioniero.

*

Mortali! Intorno alle vostre fatali teste
fitte squittiscono le frecce della morte:
eccolo, il selvaggio distruttore
che con mille fatiche ci abbatte.

Invano trionfate sul fato
con strategie artefatte:
non fate che prolungare
il tempo del vostro soffrire.

Sventurati, pensiamo di scampare
il pericolo, ma la morte ci è addosso
ci supera per scatto e ci agguanta
quando le sfuggiamo.

Così il naufrago si affatica
per giungere su una riva deserta
felice perché è sopravvissuto
alla furia del mare.

Ma lì, fame lo assale
ed è misera la rovina:
scampato dai flutti,
muore su una spiaggia.

Invano vi sforzate per corazzare
la vostra fragilità: Signore
addestrami, rendimi pronto
al colpo fatale!

*

Sopra un venerabile rivale

Trenta gelate da quando eri giovane
hanno ghiacciato un bosco ormai spoglio
sventurato! Tanto a lungo hai vissuto
e ancora ti ostini ad amare?

Voi saggi! Pretendete di essere
sapienti ma dovete riconoscere
che la vostra follia commercia
con lo sconosciuto.

Non dico che amare sia da deboli
né che sia malattia continuare
a contemplare. Eppure, le fitte
d’amore devono accordarsi agli anni.

Sulla giovane fronte giocano
inattesi i boccioli di Febo
ma sull’insopportabile Età
non sono che afosi pungoli.

È vero: gioventù male addestrata
non considera il passare
del tempo, devia dal vero
e l’esperienza spesso erra,

ma per una volta non disprezzare
ciò che ritengo una regola:
chi ama da ragazzo è un saggio
chi si ostina da vecchio è uno sciocco.

William Cowper

*In copertina: Henry Fuseli, Mad Kate, 1807

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