01 Marzo 2023

“L’amore è veramente rivoluzionario”. Bashō, poeta ramingo, secondo Octavio Paz

Matsuo Bashō, il grande poeta giapponese vissuto nel XVII, è di per sé il simbolo di un’indole, di un portamento lirico. Bashō significa che la poesia è tensione che sfocia in tonsura: la poesia, cioè, è una milizia – Bashō è figlio di samurai, pur non di primo grado – che chiede dedizione – il figlio del samurai, divenuto poeta, sceglierà la via della meditazione zen. Per Bashō la poesia è congiunta al movimento, al viaggio: l’haiku non è un koan, formula che immette nell’illuminazione, nella detonazione interiore. Il poeta fluttua nel mondo fluttuante, e proprio perché le cose sono impermanenti, illusorie, ne dice il succo, l’essenza – o allude alla catena che fa di ogni cosa il prologo alla seguente, il nodo e l’oblò, il prodigio. Gli haiku di Bashō non trascendono il mondo, lo custodiscono, come una perla sul piatto: hanno la rapidità di una rasoiata, il colpo esatto, un battito d’elitra capace di provocare il pianto, di evocare un sorriso.

Poco meno che quarantenne, nel 1952, Octavio Paz è in Giappone con compiti diplomatici. Dieci anni dopo sarà eletto ambasciatore del Messico in India. Ha pubblicato da poco una delle sue opere più importanti, Il labirinto della solitudine, che è poi la pretesa di una poetica, assunto critico contro il mondo ‘moderno’. Scrive, tra l’altro, Paz:

“Le società industriali – indipendentemente dalle divergenze ‘ideologiche’, politiche o economiche – sono impegnate a trasformare le differenze qualitative, cioè umane, in uniformità quantitative. I metodi di produzione di massa si applicano anche alla morale, all’arte e ai sentimenti. Abolire le contraddizioni e le eccezioni… Si preclude così l’accesso all’esperienza più profonda che la vita offre all’uomo e che consiste nel penetrare la realtà come una totalità in cui i contrari vengono a patti. I nuovi poteri aboliscono la solitudine per decreto. E con essa l’amore, forma clandestina ed eroica di comunione. Difendere l’amore è sempre stata un’attività antisociale e pericolosa. Ora comincia ad essere veramente rivoluzionaria”.

Octavio Paz era passato, negli anni, dalla fascinazione per l’opera di T.S. Eliot a quella per la nuova letteratura nordamericana, dalla lettura di Rilke e Novalis alla scoperta del trotzkismo all’amicizia con André Breton e i surrealisti. Per compiere la propria ricerca lirica gli mancava qualcosa – qualcosa di disincantato, una sorta di scanzonata libertà. La trova, appunto, nell’opera di Bashō, che traduce la prima volta nel 1957, insieme ad Eikichi Hayashiya. In particolare, Octavio Paz volta in lingua spagnola l’allora inedito “Oku no Hosomichi”, Lo stretto sentiero verso il profondo Nord (in Italia esiste, tra l’altro, una recente edizione a cura di Chandra Candiani e Asuka Ozumi, Einaudi, 2022). L’intenzione è quella di “dare l’idea della semplicità, della nobile rapidità di Bashō, che procede per allusioni e il cui linguaggio, infinitamente rispettoso, non si sofferma sulle cose: le accarezza, ne sussurra i segreti anditi”.

Nell’anno in cui Octavio Paz pubblica le traduzioni da Bashō esce la sua opera poetica più compiuta, Piedra del Sol, che in qualche modo discende dal lavoro nella cultura nipponica:

tranquillo cammino
di stella o primavera senza premura
acqua con le palpebre serrate
circolano profezie tutta la notte
unanime presenza a ondate
onda dopo onda fino a coprire tutto
verde sovranità senza occaso
come la folgore scoperta delle ali
quando si aprono in mezzo al cielo

Nel 1970 e nel 1981 Octavio Paz – futuro Nobel per la letteratura – torna a Bashō, figura ricorrente, spiritualmente affine a Suor Juana de la Cruz, con una nuova versione di Sendas de Oku. Dalla figura di Bashō il poeta messicano trae una propulsione poetica:

“La poesia di Bashō, quell’uomo semplice e povero che ha scritto da sempre, vagando per tutto il Giappone, dormendo presso eremi e locande; quell’uomo contemplativo che medita a lungo fissando un albero, un corvo, lo sfarfallio della luce sulla pietra; quel poeta che dopo essersi rammendato le vesti lacere recitava i versi dei lirici cinesi; quel tipo silenzioso che parlava per strada con contadini e prostitute, monaci e bambini; è qualcosa di più di un’opera letteraria: è un invito a vivere autenticamente la vita e la poesia. Due realtà congiunte, inseparabili, che però non si fondono mai del tutto: il grido della poiana, il bagliore del lampo”.

Il rapporto tra l’arte giapponese e quella d’Occidente è canonico: Van Gogh che imita Hiroshige e Akutagawa che legge Oscar Wilde; Ezra Pound che traduce il teatro Nō, José Juan Tablada che importa gli haiku a Città del Messico, e Yukio Mishima che legge Raymond Raduiget e il Divin Marchese; Tanizaki che studia Edgar Allan Poe e traduce in giapponese moderno il Genji Monogatari, Jack Kerouac che adotta gli haiku e rifonda una letteratura on the road. Tradizione-contraddizione. Octavio Paz s’inoltra nei sentieri di Bashō con falcetto surrealista tentando una sintesi tra latebre dell’inconscio e memorabilia zen.

La poesia invita al viaggio, al labirinto del verbo: si è certi di ciò che si è – sbornia di smarrimenti.

***

Poema di Matsuo Bashō. Traduzione di Octavio Paz

Prologo

I mesi e i giorni sono vagabondi dell’eternità. Anche l’anno che va e quello che viene sono vagabondi. Per chi vive sulle navi o invecchia guidando cavalli, ogni giorno è un viaggio e casa è lo spazio aperto. Tra gli uomini del passato, molti sono morti per strada. Da diversi anni, basta una nube solitaria sospinta dal vento a turbarmi con il pensiero del vagabondaggio.

Ho passato l’ultimo anno camminando lungo la costa. In autunno sono tornato nella mia capanna sulla riva del fiume: l’ho liberata dalle ragnatele. Sono restato lì fino alla fine dell’anno. Poi ho deciso di varcare il passo di Shirakawa e di arrivare a Oku, in primavera, quando la nebbia copre il cielo e i campi. Tutto ciò che ho visto invitava al viaggio; posseduto dagli dèi, non riuscivo a controllare i miei pensieri; gli spiriti del cammino mi pretendono di continuo e mi sono reso conto che non potevo continuare a lavorare.

Ho rammendato i pantaloni malandati, ho sistemato il laccio del mio cappello di paglia e spalmato moka bruciata sulle gambe, per rinforzarle. Il pensiero della luna che splende sull’isola di Matsushima ha riempito tutte le mie ore. Ho lasciato la mia capanna e mi sono diretto a casa di Sampu, ad attendere il giorno perfetto per partire. Sulla trave della mia capanna ho appeso questa poesia:

Anche la capanna di paglia
in questo mondo fluttuante
deve trasformarsi in una casa di bambole.

*

Partenza

Siamo partiti il 27 di marzo. Il cielo di primo mattino era pieno di vapori e benché la luna pallida avesse perso il suo splendore, si poteva vedere il Monte Fuji, vago. I rami di ciliegio di Ueno e Yanaka mi rendono triste, mi chiedo se li rivedrò ancora. Dalla notte scorsa i miei amici si sono riuniti a casa di Sampu: mi hanno accompagnato per un breve tratto di viaggio, che ho fatto sulle acque. Quando siamo sbarcati in un luogo chiamato Senju, l’idea di compiere un viaggio tanto lungo mi ha riempito di apprensione. Mentre fissavo il sentiero che forse ci avrebbe separato per sempre in questa esistenza irreale, ho pianto lacrime di addio:

Troppo presto sfuma la primavera
piangono gli uccelli e anche i pesci
possiedono la loro scorta di lacrime.

Questa poesia è la prima del viaggio. Pur camminando, mi sembra di non andare avanti: anche le persone accorse a salutarmi non se ne vanno, restano lì, finché non sono scomparso.

*

Il salice

Nella città di Ashino ci sono i “salici che piangono mentre i fiumi scorrono sotto la loro ombra”. Piccoli sentieri separano una risaia dall’altra. Il prefetto di questo luogo, Tobe, ha promesso che mi avrebbe mostrato i salici. Quel giorno ho passato molto tempo a contemplare un salice:

Restò immobile
la risaia quando
mi sono allontanato dal salice.

*

La locanda sul fiume Suga

Con indifferenza abbiamo varcato il fiume Abukuma. A sinistra, le alte montagne di Aizu; a destra, i villaggi di Iwaki, Suma e Miharu; in lontananza, la catena montuosa al confine tra Hitachi e Shimo-zuke. Bordeggiamo la laguna delle Ombre: ma il giorno è nuvoloso, e non abbiamo visto ombre. Alla locanda del fiume Suga abbiamo fatto visita a una tale Tokyu, che ci ha ospitato per quattro o cinque giorni. Per prima cosa mi ha chiesto: “Come avete fatto ad attraversare il passo Shirakawa?”. Spossato dal viaggio così lungo, il corpo stanco quanto lo spirito; la ricchezza del paesaggio e la violenza di tanti ricordi del passato, mi hanno turbato, torcendo la pace necessaria alla concentrazione. Tuttavia:

La culla della poesia:
il canto dei coltivatori di riso
a Oku.

Nel recitargli questi versi, ho aggiunto, come fosse un commento: “Impossibile passare di là senza che l’anima non ne sia trafitta”. A Tokyu la mia poesia è piaciuta, così ne ho scritta un’altra, e un’altra ancora.

Accanto alla locanda c’era un grande castagno: alla sua ombra riposava un bonzo. Mi sono ricordato di chi viveva di ghiande, e ho annotato questa riflessione: “Il simbolo del castagno è formato dalle parole Occidente e albero, così da alludere al Paradiso d’Occaso. Tanto il vincastro quanto la colonna dell’eremo del bonzo Gyoki erano costruiti con legno di castagno”.

Sulla tettoia
fiori di castagno.
Il volgo li ignora.

*

Il pino di Takeguma

Ammirando il pino di Takeguma, ho avuto l’impressione del risveglio. Dalle radici, l’albero, come ci è stato detto, si divide in due tronchi. La sua forma è la stessa di quella che aveva secoli fa. Mi sono ricordato del bonzo Noin. Molto tempo fa, un signore cercò di impossessarsi del governatorato di Mutsu, e abbatté l’albero: lo avrebbe usato come pilastro per costruire un ponte sul fiume Natori. A questo allude la poesia di Noin: “del celebre pino non resta traccia”. Dicono che per generazioni lo hanno tagliato e ripiantato; ora, cresciuto di nuove, pare avere mille anni. È davvero bellissimo.

Ciliegi: se non puoi mostrargli
neppure i loro fiori tardivi
indicagli il pino di Takeguma.

Un discepolo di nome Kyohaku mi ha dedicato, salutandomi, questa poesia. Così ho risposto:

Dai ciliegi in fiore
al pino dal doppio tronco:
tre mesi.

*

Riposo in un tempio di montagna

Nella signoria di Yamagata si erge un tempio montano chiamato Ryusyakuji. Lo ha fondato il grande bonzo Jikaku, ed è un luogo di quiete. Mi hanno raccomandato di visitarlo; per farlo, siamo rientrati a Obanazawa, abbiamo camminato per circa sette ri. Il sole non era ancora nascosto, così abbiamo potuto scegliere una locanda in uno dei templi che si trovano ai piedi della rocca. Più tardi, siamo saliti al santuario, in cima. La montagna è un agglomerato di rocce, una petraia, in mezzo a cui crescono pini e alberi secolari; le pietre sono ricoperte da una patina di soffice muschio. Il tempio è costruito sulla roccia. Le porte chiuse, non si udiva alcun rumore. Ho voltato intorno alla rupe, scavalcando alcune rocce, per affrontare il santuario. Di fronte alla ferma bellezza del paesaggio, il mio cuore si è rasserenato.

Quiete:
il canto della cicala
sprofonda tra le rocce.

*

Kanazawa

Abbiamo lasciato Uno-Hanayama e la valle di Kurikara; siamo giunti a Kanazawa il primo di luglio. Un mercante di Osaka, chiamato Kasho, si è messo in viaggio dalla stessa locanda. Un uomo di nome Issho abitava in questo paese: il suo amore per la poesia gli ha concesso una certa fama tra gli intenditori, ma è morto l’inverno passato. Suo fratello ha organizzato una riunione per ricordarlo. Questa è una delle sue poesie.

Scostati, sepolcro.
Il mio grido:
vento d’autunno.

Visitando un eremitaggio, ha scritto:

Frescura d’autunno.
Melone e melanzane
per ciascun ospite.

Durante il cammino:

Il sole splende, splende
senza pietà.
Eppure, vento autunnale.

In un luogo chiamato Komatsu, che vuol dire piccolo pino:

Che nome delicato, Komatsu:
il vento lo mescola
al trifoglio, ai fiori, ai giunchi.

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