L’idea arrivò istantanea, e come per miracolo le batté sulle labbra: «un raggio di sole su una foglia». Questa la risposta semplice e illuminante che Virginia Woolf lanciò al giovane amico poeta Rupert Brooke in cerca della «cosa più luminosa al mondo», pronto così a vergare la rima di un verso.
In quel momento, i due erano a Grantchester, vicino Cambridge, nel giardino dell’Old Vicarage: la country house dove lo studente di provincia alloggiava dal 1910 e a cui richiamava come una calamita gli amici in sosta da Londra e i colleghi accorsi dalla città universitaria. Tra gli accoliti, non dimenticò di certo la cara Stephen (il cognome da nubile di Virginia Adeline) che accettò entusiasta l’invito dell’estate successiva precipitandosi senza chaperon per soggiornarvi una settimana intera, sistemata nelle camere riservate per lei alla porta accanto di The Orchard. Da qui, un assolato pomeriggio mentre erano immersi nelle rispettive letture, il suggerimento fulmineo per quel puzzlein metrica finì immancabilmente per colmare uno spazio vuoto lasciato nel bel mezzo di Town and Country (Città e campagna), il componimento a cui Brooke stava lavorando dalla mattina, al riparo della veranda, in cui si imprime anche l’abbagliante ricordo del periodo trascorso in compagnia:
“Immoti, ignari e indisturbati, Simili a nuvole ci pieghiamo a guardarci come foglie al sole, E lentamente lungo la misteriosa collina Si fan lievi i nostri sconfinati amori nell’aria diafana…”
Ancora scrittori in erba a quel tempo, non appare ardito associare la vena pacifista della futura autrice del pamphlet antibellicista Tree ghinee (1938) al braccio del “poeta di guerra” dal cuor di leone popolarissimo per la fama dei patriottici sonetti resi celebri all’indomani della morte prematura nell’aprile 1915 (prima di riuscire a testimoniare la futilità della causa). Nel primo periodo prebellico i compagni di penna erano essai vicini per sensibilità, gusti e affinità personali se non per comune stile di vita. Stimolati e influenzati a vicenda dall’acuta immaginazione e uniti da una grande fiducia, si erano legati in sincera amicizia e ammirazione reciproca coltivando un solido rapporto reso fertile soprattutto dalla comune passione per la letteratura. Entrambi lettori infaticabili, eccellevano come artisti, impegnati anima e corpo nella pratica della scrittura sperimentando più generi e forme.
Virginia Woolf e Rupert Brooke, in compagnia di Noel Olivier e Maitland Radford, durante un campeggio sulle piane di Dartmoor nel Devon, 1911
Durante quelle giornate radiose presso il suo ritiro bucolico, l’avvenente poeta di Rugby era indaffarato a rimboccarsi le maniche di camicia sulle pile degli amati drammaturghi elisabettiani (in vista della dissertation che due anni dopo gli valse il titolo di Fellow al King’s College con John Webster e il dramma elisabettiano) e nel frattempo si preparava alla pubblicazione dei primi Poems che videro la luce in quell’anno – accompagnato dall’amica perfino di fronte alla scrivania del suo editore – molto prima di diventare il famoso poeta-soldato, autore dei canonici war sonnets.
Nelle ore dorate d’anteguerra, Rupert Brooke era il “ragazzo più attraente d’Inghilterra” – così l’aveva definito W. B. Yeats per il fascino magnetico emanato dal giovane dotato di una straordinaria disposizione in più campi pratici, presenza fissa e fulcro di cerchie esclusive: era l’atletico dei campi di Rugby, il colto studioso accademico – quintessenza di Cambridge – ma anche l’aspirante poeta appellato “John Donne Redivivo”, il fiero socialista fabiano, l’adorato Apostolo della segreta confraternita universitaria, attore e direttore di scena della Marlowe Society. Ardeva per Webster e Shakespeare, divorava i classici, posava in giardino le battute per le sue parti teatrali e leggeva ad alta voce le proprie poesie mentre contrassegnava numerosissime lettere destinate ad amici e parenti. Ironico e gioviale, lo si vedeva assorto e concentrato negli studi, quando scriveva di getto, nevralgico e instancabile. Lui che conosceva e leggeva di tutto, con l’occhio scrutinatore d’attento critico, uno scrittore all’opera dalle opinioni di un finissimo uomo di lettere del suo tempo, perfettamente devoto alla sua arte.
Questa era, in sintesi, l’immagine in movimento che la Stephen aveva davanti a sé in quel caldo pomeriggio. Dal canto suo, la trasognata scrittrice, ammaliata e risvegliata nei sensi al di fuori del frastuono metropolitano della capitale, andava sistemando le bozze del suo primo romanzo che aveva portato con sé, a cui appose l’originale titolo di Melymbrosia (“il nettare immortale degli dèi”). Con parole dolci e vibranti gustava già l’atmosfera rustica del week-end che avrebbe passato sul prato con Rupert, quando aveva deciso di precipitarsi nella freschezza della vita giovanile, nel culto di un nuovo “paganesimo”, confidando a Clive Bell poco prima della visita:
“Ho intenzione di lanciarmi nella giovinezza, immergermi nella luce del sole, nella natura e nell’arte primitiva […] con torte guarnite di glassa, amore, passione, spirito pagano…”
La vicinanza di quell’Adone inglese, come lo chiamerà il marito Leonard Woolf, e divenuto celebre tra i college per l’epiteto di “giovane Apollo, dai capelli d’oro”, dovette costare all’autrice non poche interruzioni. Virginia lo descrive “byronico”, un giovane uomo dal fascino romantico, quasi un reincarnato Shelley (anche lui vegetariano in questa fase) che inseguiva la propria libertà fuori dai prati della casa, aggirandosi sempre scalzo. Ribelle e irriverente, destava non poco scalpore tra i vicini. Contro ogni eccesso d’intellettualismo, prestava fede alla dottrina dettata da D. H. Lawrence, conducendo una “vita semplice” ridotta al nocciolo – come prescriveva Edward Carpenter – e assieme agli amici “neopagani” o “sguazza-rugiada” (soprannominati dalle sorelle Stephen per il loro indomabile stile di vita naturista) correva lungo le vicine Meadows per immergersi nei corsi d’acqua della zona a pieno contatto con la natura, nei luoghi di una ritrovata Arcadia, come lui stesso aveva tinteggiato i dintorni della contea del Cambridgeshire.
Rupert Brooke concentrato a leggere e scrivere nel giardino di The Old Vicarage, Grantchester, 1911
Un essere irrequieto, frenetico, vivace ed esuberante quanto riservato ed umorale, a tratti poteva apparire freddo e distaccato in momenti di insondabile e repentina chiusura, dagli sbalzi d’umore rapidi come le ali di un colibrì. Sembrava inoltre poco consapevole della sua capacità attrattiva e a goffi balzi si agitava con una sgraziata andatura animalesca che l’amico David ‘Bunny’ Garnett, forte del suo immaginario zoologico (è il visionario autore della Signora trasformata in volpe, 1922), descriverà come una particolare creatura simile a una pantera. A un tempo dimenava tra le dita la matita librata a mezz’aria, poi si stiracchiava indolente sulla sua chaise longue, e in un altro si piegava in avanti per fissare l’ospite lasciandola di stucco con i suoi profondi occhi cerulei, finché non si alzava di scatto per camminare sull’erba alla ricerca della concentrazione necessaria a ritrovare lo spunto per scrivere.
Una sera, da bravo padrone di casa, osò proporre un’avventurosa skinny dipping, e così andarono a nuotare oltre il boschetto nella fantasmatica Byron’s Pool: la pozza in cui, stando alla leggenda, amava tuffarsi anche Lord Byron. Lei riusciva a scorgere in lui il riflesso del fisico alto e statuario dell’amato fratello Thoby (chiamato dagli amici “Il Goto”). Nel suo posto preferito per quelle nuotate di mezzanotte, sul più bello, Rupert sferrò il solito party trick sfoderato in quelle occasioni, stupendola con lo spettacolo di una strepitosa erezione durante un rapido salto fuori dall’acqua. Colta da eccitante “orrore”, Virginia non mancò di descrivere l’aneddoto a Vita Sackville-West, divertita da quell’insolente oltraggio alla decency. Dopo una leggera infatuazione iniziale, l’incontro rimase tuttavia puro, segno innocente di un ritrovato cameratismo e dell’amicizia che avevano consacrato da fanciulli.
A Grantchester erano ancora i due ragazzini amanti dei tuffi. Non era infatti la prima volta che si trovavano insieme: si erano conosciuti nel 1893, da bambini (Virginia aveva dieci e Rupert cinque anni), quando i Brooke – il padre William, l’austera ‘Ranee’, i piccoli Rupert, Dick e Alfred si erano lasciati alle spalle la stretta casa-scuola di Rugby ed erano stati ospiti a Talland House, in Cornovaglia, per passare le vacanze nella summer house che la famiglia Stephen prendeva in affitto ogni anno. I bambini giocavano a cricket sui prati affacciati sulla spiaggia – Virginia nel ruolo di miglior battitore – e verso sera andavano tutti a pesca.
Felici dei ricordi d’infanzia, a fine estate tornavano nelle vittoriane case di città per continuare le solite vite di ragazzini precoci nei talenti ma chiusi nei rispettivi ambienti domestici: nel confortevole salotto di Kensington lei, tra i rigidi banchi di Rugby lui.
Molto tempo dopo, la vecchia amica lo avvistò, cresciuto e bellissimo, sotto le alte guglie di Cambridge e ne riportò l’incontro nella saettante lettera a Lytton Strachey, in spasimante adorazione per il ragazzo “dalle guance di rosa”: “Una volta ho visto Rupert Brooke, affacciato alla galleria di Newnham, in mezzo a Miss Reeves e ai fabiani”. Al momento in cui era sua ospite nel giardino del Vicarage, invece, i due vecchi amici si erano da poco ritrovati per le strade di Londra, tra Fitzrovia e Gordon Square, rinforzando il rapporto stretto in precedenza grazie a una banda di amici in comune del Gruppo di Bloomsbury ed elitari Apostoli usciti dai chiostri universitari – Lytton, Maynard Keynes, E. M. Forster, Leonard Woolf, insieme al pittore Duncan Grant e Katherine Cox, studentessa a Newnham. Ciononostante, si persero di vista per alcuni tempi a seguito di un acceso diverbio dovuto a un intrigo à la Strachey che ruppe definitivamente i fili tesi tra Brooke e i Bloomsberries. Irretiti dai rispettivi ambienti e carichi di impegni sulla strada delle loro emergenti carriere, il rapporto era comunque destinato a continuare nei periodi più bui, coltivato anche per mezzo di una fitta corrispondenza epistolare. Alla notizia di un severo attacco nervoso dell’amica, tra i suoi più disperati tracolli maniaco-depressivi, Brooke si mostrò sinceramente preoccupato offrendole calde parole arrivate per lettera direttamente alla stanza dell’inferma il 9 marzo 1912:
“Dimmi che non è vero e ti scongiuro di non avere una crisi nervosa come la mia. È così orribile – ma tu sei una delle poche persone che, come in passato, sa cosa si prova… Mi sento legato a te in questo difficile solido mondo. […] Che anime tormentate e martirizzate siamo noi letterati!”
Sorprende che i due amici abbiano perfino condiviso, durante le loro crisi di nervi, lo stesso medico curante, da cui un simile trattamento che al tempo si prescriveva ai gravi casi di nevrastenia. Ristabilito il precario equilibrio, gli incontri futuri li videro passare più leggeri da una festa all’altra, nei salotti mondani del beau monde londinese, ospiti nelle eleganti sale degli Asquith a Downing Street, e avvicinati dalle gite in campagna di Brooke di passaggio a Rodmell, vicino Monk’s House dai Woolf. La compagnia di Virginia lo rendeva ancora più sorridente, arguto, sempre colto e interessante coi suoi resoconti del college e le opinioni puntuali su politica, teatro, libri e personaggi descritti come se li avesse davanti agli occhi mentre ne discuteva.
L’intesa era la stessa, il fascino invariato, ma il tempo sembrava sempre troppo poco. Con suo grande rammarico ne avrebbe sofferto la perdita, l’ennesimo lutto che veniva gravemente a colpirla e a lasciarla inerme, all’inizio della guerra in cui egli si era presto arruolato volontario come centinaia di altri giovani come lui (e non c’era alcun dubbio che vi prendesse parte senza indugio). Per la sepsi contratta l’anno successivo in navigazione verso Gallipoli, ancor prima di vedere l’azione sul campo, era stato sepolto romanticamente dai commilitoni sull’isola greca di Sciro, come un nuovo Byron. Non avendo per questo potuto spargere lacrime sulla sua tomba in patria, la compagna si dette a vestire un lutto “olimpico”, ellenico, senza larghe dimostrazioni in grandi gesti e parole che invece incalzavano svettanti nell’opinione pubblica con l’elezione del poeta a mito. Trasformato in un calco d’eroe nazionale, la canonizzazione da santo-eroe di guerra suscitò in lei un amaro disprezzo. Se la fine tragica lo vedeva issato a volto simbolo di una generazione di giovani soldati caduti nelle trincee, a quel profilo da simulacro scolpito nel marmo, il “Rupert Brooke della leggenda” forgiato dalla maledetta campagna di Churchill, Woolf opporrà il ricordo più intimo del ragazzo che lei, come tanti amici, aveva conosciuto sui prati di Cambridge e nella casa di Grantchester: a suo dire, Brooke era il migliore,“il ragazzo più capace della sua generazione”. Non mancò ad ogni modo di criticare, e non poco, la sua acclamatissima poesia di guerra giudicandola “mera musica da organo per orchestre militari”. Ciononostante, molti anni dopo, ebbe modo di rileggere con maggiore attenzione quei cinque “gioielli di propaganda” cambiando via via opinioni e finendo per apprezzare anche quell’ultimo, piccolo tassello della sua più vasta ed eterogenea produzione che invero non lo rappresentano come autore né avevano diritto di incasellarlo nella facile etichetta di war poet. Più avanti, confesserà a Gwen Raverat:
“Rupert era poco ‘mitico’ per me quando è morto. Conservo ancora da qualche parte infinitamente lontana – e come durano questi sentimenti, come ti sommergono, misteriosamente, quando meno te lo aspetti – il ricordo della mia settimana a Grantchester, quando lui era tutto ciò che potesse esistere di gentile, interessante, essenziale e scoraggiato…”
Preferendo non esprimersi pubblicamente, sentiva che l’élite culturale bastava già ad occupare l’intero spazio della scena, ridicola e teatrale, in mano alle categorie maschili e belliciste del potere, e lei era una outsider. Di Brooke avrebbe custodito la memoria nel profondo fino alla decisione di rompere il silenzio arrivata nel 1918, non appena trovato il coraggio di stendere per il Times l’articolo-recensione (pur restando nell’anonimato) alla raccolta completa di poesie uscite con la Memoir firmata da Sir Edward Marsh, segretario del primo Lord all’Ammiragliato e mecenate del gruppo di poeti georgiani di cui il noto era diventato il protégé, e sotto le cui cure veniva suggellato il suo primo ritratto biografico: “una rapsodia di menzogne che lasciano inevitabilmente distorta l’immagine di Rupert, castrato e frainteso” rispetto all’uomo reale. La più intima lettera di condoglianze spedita alla madre confermava, agli antipodi della leggenda, il sentimento di tenerezza per l’uomo ch’era stato e la natura del loro rapporto d’amicizia vissuto come un legame fraterno, sicché quel caro ragazzo le sembrava un parente della sua famiglia allargata. L’ultima lacrima versata sulla carta veniva sparsa per la Ranee:
“Rupert era una figura talmente importante agli occhi dei suoi amici che nessuna memoria potrebbe rendergli veramente giustizia. Infatti, non si può cogliere in nessun modo il suo fascino meraviglioso e la sua bontà. […] Probabilmente per via dei giorni passati a St Ives ho sempre sentito di conoscerlo come si può conoscere un membro della propria famiglia.”
Superata la rabbia nei confronti di Marsh, cercò di tralasciare il disappunto e misurare i toni per recensire le memorie, in cui vide un’occasione per rendere un personale omaggio e ritrarre a grandi lodi l’amico della giovinezza non mancando di rievocare la sua visita in campagna:
“La prima impressione era quella di un tipo così convenzionalmente bello e inglese […] Era il classico esemplare della gioventù inglese nel pieno della salute e al massimo vigore. Viveva a Grantchester; era perennemente scalzo; rifiutava il tabacco e la carne; stava tutto il giorno, e forse dormiva tutta la notte, all’aperto. […] Sotto la sua influenza, la campagna vicino Cambridge pullulava di giovani uomini e donne che camminavano a piedi nudi, condividendone la passione per le nuotate e la dieta a base di pesce, disdegnando lo studio sui libri e proclamando che c’era qualcosa di profondo e strepitoso nel lattaio porta a porta e nella contadina che badava alle mucche.”
Trasfigurato questo ritratto reale nelle sembianze dello sfuggente Jacob Flanders, il giovane protagonista del romanzo Jacob’s Room (La stanza di Jacob, 1922), il primomodernista per inciso – dietro cui è stato visto per lungo tempo dalla critica lo spettro di Thoby Stephen – il ricordo di Brooke tornerà a visitarla a distanza di un decennio. Per una peculiare coincidenza di dato biografico, nel 1906 – l’anno in cui la star del King’s solcò i prati del suo college per la prima volta – Thoby era morto di tifo, di ritorno dal viaggio di famiglia in Grecia. Nato in qualche modo dalla triste congiunzione di entrambe le perdite, l’energico Jacob scendeva quello stesso anno dal vagone di Cambridge per cominciare gli studi. Ex-allievo di Rugby e poi Kingsman (come Brooke), probabilmente morto in azione nelle battaglie delle Fiandre – come sembra, tra l’altro, far eco il suo cognome – il frammentario personaggio raccoglie in sé molti aspetti del carattere mordace e dello charme del ragazzo poeta, tanto che questi segni disseminati nel testo sembrano tessere un filo ch’eppure lascia tutt’al più eventuali congetture nella creazione di un tipo essenzialmente generazionale e collettivo, riconducibile soltanto di sguincio a note ispirazioni individuali. Non solo un’effigie da elegia, Jacob è l’incarnazione dell’assenza e della perdita della gioventù immolata di inglesi carpiti prima del tempo sui campi della Prima Guerra Mondiale. Come il golden boy di Cambridge, egli aveva fatto sentire in vita tutta la forza del suo carattere, il suo dissenso, l’eco delle nuove generazioni edoardiane in rivolta contro i loro padri, anticonformista verso ogni convenzione. Ma anche lui, dopotutto, aveva studiato il greco e il latino ed era stato addestrato all’«antica menzogna» dell’onore e della gloria sui campi sportivi delle public schools. Per una contraddizione in termini, insieme vittima e ingranaggio del sistema politico-militare a cui aveva scelto deliberatamente di votare la propria vita, era inevitabilmente destinato a cadere come tutti gli altri figli d’Albione dai quali risultava chiaro aspettarsi il sacrificio a dispetto di ogni possibile tendenza personale.
“Non avevano forse mai letto Omero, Shakespeare e gli elisabettiani? Gli pareva chiaro dai sentimenti che si portava dietro dalla giovinezza e dalle sue inclinazioni naturali.[…] Capì che chiostri e classici non valgono a nulla lo stesso. Il problema resta insolubile. “
Più di trent’anni dalla morte, il fantasma di Brooke agiterà con ansia la mano dell’affermata autrice in una lettera spedita a Ka Cox, ancora dilaniata dal lutto per l’amato, scuotendola con l’ironica domanda: “Potremmo mai riesumarlo?”, intendendo con ciò se fosse ancora possibile disarmarlo di tutti gli attributi falsamente eroici per ritrovarlo infine più vero, dunque umano.
Non resta da sapere, poi, quale seggio la storia della letteratura britannica avrebbe riservato a Rupert Brooke se solo fosse sopravvissuto ai Dardanelli. In merito al futuro negato, la scrittrice osa azzardare però un’ipotesi: sicuramente la sua voce sarebbe stata fra i luminari del nuovo secolo e la sua scrittura si sarebbe evoluta mutando in toni più maturi, trovando la sua strada nella prosa piuttosto che nella lirica, avvicinandosi al “moderno stile” dell’Età dell’Ansia per rispondere criticamente dei cambiamenti storici e letterari del dopoguerra.
Per lui Virginia Woolf aveva cercato le parole più giuste per descrivere la sua ineffabile bellezza e nel segno del vecchio patto d’amicizia aveva tentato di “reincarnare” con l’unica arma della scrittura il disincarnato ritratto uscito dal mito per restituirgli la sua degna complessità umana. Sentendo vicine le ombre di coloro che aveva perso, la sua scomparsa l’avrebbe mossa a riflettere sull’idea di loss, intesa come perdita privata e personale, associata a quella di waste, lo spreco collettivo di una intera generazione innocente di vite strappate nel fiore degli anni, di cui ci ha lasciato traccia nei frammenti dei personaggi maschili partoriti dalla sua penna: dai ragazzi rimasti uccisi in guerra e compianti con dolore nelle prime pagine di Mrs Dalloway, seguiti da Andrew, il gentleman perduto di Al Faro, fino a Percival, la crisalide vuota de Le Onde, ologramma di un caro morto attorno al quale si radunano le voci degli amici che hanno conservato tutta la vita, in accorato cordoglio, il calore vivo della sua presenza spirituale. Per tutti loro era la fine della gioventù.