Scipione, il pittore che con 10 poesie cambiò la letteratura italiana
Cultura generale
Andrea Caterini
Quando andammo a trovarlo al Policlinico di Milano, a gennaio, leggeva il Vangelo di Giovanni, in una piccola edizione illustrata, con tanto di cartina dell’antica Terra Santa. Chiese alla figlia Elena di farsi portare, il giorno dopo, carta e penna. Doveva scrivere. Doveva finire quello che sapeva essere il suo ultimo libro: Utopie. «È una parola che mi piace», mi disse molto semplicemente, spiegandomi il titolo del suo testamento. La poesia di Giampiero Neri nasceva anche da questo: una sensazione, un’immagine, una parola. Un’utopia. La fascinazione del volo dell’ape o della farfalla. Poi, era tornato a casa. Si era accampato nel suo salotto, a ricevere visite. Tante. Fin troppe, forse. Si capiva quando non le gradiva. Il suo sguardo, segnato dalla malattia, scavato, si incupiva; trasparivano noia e stanchezza. Alle visite piacevoli rispondeva con grandi sorrisi, con quegli occhi così pieni di entusiasmo e umanità. Gli occhi di un eterno bambino, così pieni di voglia di vivere.
Due mesi fa si è spento nella notte. Per tanti, un maestro. «Maestro in ombra», lo definì Maurizio Cucchi, per il suo temperamento schivo e pacato; io preferivo chiamarlo giocosamente «maestro in luce», perché un giorno il suo buio salotto di Piazzale Libia si era riempito di luce, quando un raggio di sole entrò dalla finestra, illuminando il poeta, ergendolo a profeta.
In Utopie (Edizioni Ares, 2023), Neri riassume tutto. Tutto se stesso, tutta la sua vita. È il filo rosso della sua produzione poetica: la memoria. Utopie è uno sguardo di rimando (per dirla alla Vittorio Sereni, che Neri apprezzava).
Le prime due delle otto sezioni del libretto sono intitolate, paradigmaticamente, “Adolescenza” e “Viaggio a Roma”. Neri ripercorre i passi – forse le corse – di una fuga. Perché il poeta fugge sempre. Settembre 1943: frequenta la stessa scuola del giovane Giampiero tale Augusto Tettamanti. «Era cresciuto solo con la madre, figlio di n.n.», «Non aveva amici, a scuola», «Augusto era un nome troppo solenne per lui. Tutti lo chiamavano per cognome», «Non so come, eravamo diventati amici». L’interesse del poeta cade, come spesso accade, su un vinto della Storia, su un emarginato. Non è un caso che i personaggi più ricorrenti di Neri siano dei perenni sconfitti, uomini irrisolti e mai completi, da lui studiati e analizzati con prospettiva prima scientifica, poi, straordinariamente umana. E così, nei suoi libri, prendono forma la figura del Signor Giovanni, il senzatetto di piazzale Libia, il professor Fumagalli, il suo primo maestro.
Nel frattempo il mio amico mi scriveva lettere piene di affetto e di entusiasmo per la nostra amicizia.
Nell’ignoranza di tutto, erano le uniche parole che sembravano dare un senso ai miei giorni.
Per motivi opposti, lui perché non riceveva consigli, io perché ricevevo soltanto ordini, eravamo diventati insofferenti.
Decidemmo di abbandonare le nostre case e cercare qualcosa insieme noi due.
Decidono di andarsene, scappare. Una fuga che avrà risvolti dolorosi. Scendono a Genova, Poi a Grosseto. Infine, a Roma. Volevano andare «più a Sud possibile, senza sapere dove», forse perché dirigendosi a Sud, sembra sempre di andare in discesa. Neri non racconta l’epilogo della fuga rocambolesca, narrata invece nel libro-intervista di Alessandro Rivali «Giampiero Neri, un maestro in ombra»:
«Non potevamo continuare senza mezzi e decidemmo di rientrare. La nostra fuga era finita. (…) arrivai a Milano intorno a mezzanotte. Del mio compagno di fuga non seppi più nulla».
Il padre, Ugo Pontiggia, dirigente fascista, era stato assassinato dai partigiani gappisti proprio nei giorni della fuga del figlio. Al suo ritorno, il padre era già stato sepolto e i funerali già celebrati. La fuga è raccontata da Neri con la lucidità di chi ha sfiorato un secolo di vita (avrebbe 96 anni), di chi si trova addosso il peso della Storia. Una consapevolezza che si fa strada passando dalle strade della guerra mondiale e, soprattutto, della guerra civile. La lotta fratricida – per Neri, tutte le guerre erano guerre civili, da Caino e Abele in poi –, l’odio, il male che sembra incunearsi in ogni fessura del creato. Un male il cui unico antidoto è proprio l’utopia.
In Neri prendono forma molti personaggi, ma quello da lui più spesso ricordato è il professor Fumagalli (Il professor Fumagalli e altre figure, Mondadori 2012 e Un insegnante di provincia, Ares 2022). Così, il titolo della terza sezione – “Un professore distratto” – sembrerebbe riferirsi ancora a Fumagalli. La figura, invece, è il professor Bonaventura. «Sembrava appartenere a un altro mondo», racconta. Ostile al regime, sognatore.
Del professor Bonaventura avevo un vivo ricordo e nostalgia del suo mondo.
Un giorno lo andai a trovare.
Non mi aspettavo che approvasse l’impiego in banca, invece ne fu contento. Mi cercò fra i suoi libri qualcosa che attenesse all’attività della banca e me lo regalò con una dedica affettuosa.
Sul treno che mi riportava a casa, l’avevo buttato dal finestrino.
La sezione contiene anche, imprevisto, l’ultimo saluto all’amico Giovanni, l’eremita di piazzale Libia.
Un intercalare ricorrente del discorso di Giovanni il disoccupato è: «Questa è la realtà».
Tanto frequente da rendere questa evocata realtà sempre meno reale, evanescente, quasi teorica, in fondo inesistente.
Compare poi la sezione dedicata a “Natalina”: «la presenza più tenera della mia infanzia», scrive. In sole due pagine si sviluppa un personaggio che da subito suscita dolcezza. “In villa” presenta due nuovi personaggi: il signor Carlo Bartesaghi e la sua amante svizzera. È come se nella memoria di Neri riaffiorassero uno ad uno personaggi più o meno rilevanti del proprio passato, come se si accingessero a interpretare una commedia o un dramma. Neri ha sempre costruito teatri – naturali e umani – in cui mettere in scena la realtà nella sua contemplazione estatica. Anche in “Utopie”, forse ancora più di prima, emerge un’osservazione – qui a ritroso – della realtà, riportandola senza fronzoli o barocchismi, memore del magistero di Lao-Tse («Colui che abbellisce non è sincero»).
Così, la sezione successiva, “Del romanico”, descrive la chiesa romanica dei Santi Cosma e Damiano. Pietre austere, squadrate rozzamente, che «non andrebbero nemmeno sfiorate per l’antichità venerabile».
Il solo apparire della costruzione ha un valore iniziatico.
Qualcosa supera l’essenzialità del disegno, non c’è niente da togliere, ma soprattutto niente da aggiungere.
Lo stupore tiene sospesi, fra l’ammirazione e l’infinito.
Spazio è dedicato anche al fratello minore Giuseppe Pontiggia, ben più noto di Giampiero. Con la sezione “Su mio fratello Peppo” chiude anche l’annoso capitolo del rapporto problematico con il fratello. È un regolamento di conti. A lui doveva, ad esempio, l’infatuazione per i Canti Orfici di Campana.
Ma il libro si conclude, lapidario, con il “Prontuario per degenti in ospedale a conduzione pubblica”, con una dedica gentile, semplice, dolce al personale sanitario che lo aveva accolto durante il suo ricovero, la sera della Vigilia di Natale.
Un saluto silenzioso, che non lascia traccia nell’eco di una sala di ospedale, o del salotto di Piazza Libia numero 12. Non voleva fare rumore, Giampiero. Voleva salutare con questa lettera di addio, un’utopia.
Si dice di alcune persone che, quando entrano in una stanza, la occupano tutta.
Dovrei immaginare che, quando se ne vanno, lasciano un grande vuoto.
Sono invece portato a pensare che a lasciare un grande vuoto siano le persone umili, silenziose, che occupano soltanto lo spazio necessario, che si fanno amare.
Giulio Solzi Gaboardi