Chi ne stupisce, carpito da una clandestinità, biascicando di stile, dimentica, forse, che per uno scrittore il linguaggio è il talare e il pastorale. Non altra virtù ha, lo scrittore, nient’altra morale, che la forma. In un tempo deforme, normato, gli scrittori stanno nell’angoliera di una norma, semmai si danno al moralismo.

Dunque, no, non ribadirò cose sullo stile di Veronica Tomassini: ci basti che L’inganno (La Nave di Teseo, 2022), dopo anni di latitanza e di lotta, di libri gloriosi e con gloria autoprodotti (Vodka Siberiana, 2020), giunga per un editore ‘di peso’, capace cioè non tanto di sancire qualcosa in merito al carisma di una scrittura – che vive di sé, autarchica – ma di far esplodere la grandezza ‘civica’, pubblica, sociale, popolare direi, di questa scrittura. Bisogna essere felici quando un bel libro, di tale vertigine, arriva in libreria, pasto per tanti: una felicità depurata, piena di pane, senza pena.

Più che della trama, che c’è e a cui si affratellano i recensori, dirò – prima di far dire a Veronica – di una Milano che pare Gerusalemme – con “nostalgia” e “solitudine” è avvolta, veli nebulosi, freddi, sul Volto –, dell’amore violato e postulante. Più che altro, a me affascina il senso del sacro, che con onnipossenza ci abbraccia, in questo libro. Il profeta Isaia appare quattro volte, martellante, ed è la chiave significativa del romanzo:

“Sono la vedova bianca di Isaia. La mia storia è stata annunciata, afflitta nello spirito, in una versione biblica il verbo utilizzato è “sconquassare” – “sconquassata dalla tempesta”, la sposa della giovinezza abbandonata. Libro 54. Ero l’abbandonata. E con quale compiacimento mi avvolgevo nel destino, in calce dentro a una profezia. Ero l’argilla sul palmo di una profezia”.

Intorno alla parola inganno, per fare i filistei, si gioca parte della storia biblica: Giacobbe “con inganno” ruba la benedizione che spettava al fratello Esaù; “con un inganno” sacerdoti e scribi catturano Gesù. Nell’ottica celeste, l’inganno diventa legame, il bacio massacro, il tradimento pietà, il miraggio un miracolo. Più che ad afferenze ‘francesi’ – Marguerite Duras, Banine, Colette, Christiane Rochefort – penso, già detto pure questo, all’affinità con le grandi mistiche del Seicento italiano, a Veronica Giuliani, ad esempio, per dire della postura di Veronica Tomassini. Ascesi per scoscendimento; un lume nel covo dell’oscurità; splendido retaggio: la stella sulla fronte del diseredato, del senza eredità.

In questo lignaggio di esasperate, la madre è la donna “che recitava la parte di pazza e indemoniata” narrata da Palladio di Galazia nella sua Historia lausiaca. Si dice che costei, con “uno straccio alla testa”, facesse i servizi più umili nella cucina di un monastero, a Tabenna, in Egitto, e dalle sorelle era umiliata con livida costanza. Semplicemente, secondo il detto di San Paolo, si faceva stolta per amore di Cristo, piccola. Gli angeli rivelano che è proprio quella donna, dalle consorelle ascetiche ritenuta pazza, la più santa, sacra per surplus. Proprio lei che si ciba di nascosto, con le briciole, e che nelle briciole scopre l’oro.

Tramutare l’infimo in infinito, così fa lo scrittore.

Di questo chiedo a Veronica Tomassini.

C’è sempre la figura della piccola, della donna di stracci, della reietta, dell’afflitta, dell’affiatata con gli ultimi e le cose ultime, nei tuoi libri: perché, da dove arriva?

Oggi non so più rispondere. Una volta avrei detto: è tutta colpa di Christiane Felscherinow. Del suo diario, Noi i ragazzi dello zoo di Berlino. L’ho letto a nove anni. Mi ha cambiato la vita, o può darsi me l’abbia solo annunciata. Una profezia. E sempre da bambina, cantavo i salmi di Fabrizio De André, le novene dei suoi perdenti, amatissimi, La ballata del Miché, Geordie, Il bombarolo, Un giudice. Ma ascoltavo, amandoli, anche i perdenti di Franco Califano: Avventura con un travestito, Roma nuda, Io non piango. Quanto li amavo. Era uno sguardo che mi inforcava. Si insinuava attraverso lo strumento della parola, o forse c’era già, fin dal tempo (perenne) e dal luogo in cui ci hanno chiamato per nome. Una forma di pietà penetrava il resto delle cose, una pietà precoce, insopportabile, mi procurava vergogna. Mia madre mi trascinava via, quando nei sotterranei della metro o della stazione di Roma ad esempio mi fermavo davanti al pagliericcio di un vagabondo. E la ricordo bene la vergogna perché pensavo: poverino, poverino. E subito dopo: non sta bene che io dica poverino. Mia madre mi tirava via. O gli amici tossici di mio fratello, un paio, quando venivano a casa, ingeneravano la stessa pietà. E poi i morti di overdose, nella mia adolescenza, l’eroinomane aspirante suicida che volevo salvare, nella mia adolescenza. Un disastro. E dopo, gli anni dei bevitori polacchi. Un disastro. Uno psicoterapeuta, parecchio tempo fa, mi suggerì un gioco: chiudi gli occhi e dimmi come ti vedi. D’un tratto vedo una beghina, vestita di nero, davanti a una chiesa, la strada dinanzi è bianca, polverosa, vuota. La beghina chiede l’elemosina. Ero io.

…e sempre, ovunque, la richiesta d’amore, che poi si muta in un amore indiscriminato, fino al punto indegno. Ricerca di fuoco, cenere. Così per lo meno mi appare. Cos’è questo amore?

Lo chiedo io a lei signor Brullo, cos’è questo amore? Io non lo so cosa sia. Nella traduzione imperfetta e mondana. Sant’Agostino dice che è l’ombra dell’Altissimo; c’è l’ha lasciato Lui, nel tempio dell’assenza che ci abita. Noi abitiamo l’assenza. E la chiamiamo amore. A volte nostalgia, ma più spesso amore. Ci dibattiamo, insetti contro un vetro, sbattiamo insulsamente le nostre ali. E lo chiamiamo amore. Io credo che non abbia senso nulla altro che l’amore, senza non esiste altro corredo di sentimento: partecipazione, gioia o giù di lì (cosa sia anch’essa è tutto da vedere), appagamento. Posto che il sentimento sia una vanità, l’amore piuttosto diventa un’azione, un verbo. Il verbo. L’ho cercato ovunque, cacciandomi nei guai, rischiando la mia stessa vita, per guadagnare la mia parte. Dovevano ancora annunciarmi il destino, lo ha fatto un mio amico, Johannes, aprendo la Bibbia, lesse i versetti dal Libro 54 di Isaia. Ero la sposa abbandonata, la rifiutata, “sconquassata dalla tempesta”. Il verbo usato era proprio: sconquassare. Mi parve inutile da allora cercare altre spiegazioni. Le consolazioni: quelle non ho smesso di cercarle. Ma cos’è l’amore me lo dica lei, signor Brullo.

Entro nel grumo del linguaggio. Una maestria, mi viene da dire, la tua, del raffinare disossando. Chi ti è stato padre, nella tua ricerca, da dove questa scrittura caravaggesca, che da un impiantito di pietà scava nella pietra del verbo?

I miei maestri sono stati i nostri padri russi. Dostoevskij, Tolstoj, Gogol’, Čechov, Gor’kij (vorrei evitare la distinzione tra russi e ucraini, in questo breve elenco). Nella prima parte della mia produzione letteraria hanno influito molto, in special modo una certa laconicità nel raccontare il dolore, un ghigno, il riso con il suono del singhiozzo, capace di seppellire il lettore nella tristezza e nello sgomento (era una nota di Emilio Cecchi ad alcuni racconti di Čechov mi pare). Epici e universali. Tutto ciò appartiene a una tempra, se dico razza vengo bandita dal pianeta Terra. Allora dico: tutto ciò appartiene a uno spirito, il genius loci di una parte dell’Europa. Ma il linguaggio, il mio linguaggio letterario, è parecchio cambiato negli ultimi tre quattro anni, disamina delle recenti cose insomma. È diverso. Lei dice: caravaggesco. Mi piace questa definizione, è enorme. La luce caravaggesca, obliqua, da una feritoia in alto, riverbera la misericordia, sangue e acqua dal costato trafitto, sono i raggi che emanano da Lui, Sovrano e Fanciullo. Il linguaggio è cambiato, non lo so definire, le varie suggestioni, anche neorealiste, mi sembrano che abbiano perso l’antico appeal. Non so più definirlo, né tantomeno definire me stessa. Ma non credo che la questione sia di rilevante importanza. Resta la pietà, è lei che domina. Penso che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, sia stato interrogato da essa, chiamato ad essere il cireneo di qualcuno. È il miglior augurio che possiamo fare all’umanità.

Veronica Tomassini ha pubblicato: Sangue di cane (2010), Christiane deve morire (2014), L’altro addio (2017), Mazzarrona (2019), Vodka Siberiana (2020)

Il ‘sistema letterario’. Ti interessa, lo ignori, ne ausculti il chiacchierio? Voglio dire: per alcuni tu, che hai scelto il rischio di autoprodurti, di uscire dalle maglie dell’editoria canonica, sei un simbolo, un segno. La latitanza che ora si fa ouverture. Dimmi. 

Mi spieghi cosa significa essere un segno. Come può notare ho molte domande anche io per lei. Mi interessa essere letta. Non sono una da elucubrazioni, una da tenere nascosta. Una da diario personale, da reading cimiteriali. Da congreghe elettive e paranoiche di non meglio identificati massoni delle belle lettere. No. Sono stata anche molto ambiziosa. Avevo deciso di chiudere con l’editoria canonica, come la definisce lei, perché mi ero annoiata. Sembrava che parlassi in azteco, non mi capiva nessuno, normodotati, il linguaggio ai barboncini, cialtronerie incocciate per via. Ero annoiata. Ma dovevo incontrare le persone giuste. E ho incontrato Ugo Marchetti. E da lì è cambiato tutto. Ringrazio Giulia Civiletti, e prima ancora Marco Travaglio. Quando succede il destino, ci sono sempre molte trepidazioni in gioco. Funziona così.

Sempre noto una sacralità barocca, nel tuo scrivere. Le mistiche del Seicento, tra gloria e crollo. Più che altro: nel tuo scrivere, come si immerge il sacro, appunto, l’invisibile, l’innominato Tutto? La fede, in fondo… di quello ti chiedo. 

Vorrei rispondere sempre: non lo so. Non ricordo più niente. È la verità, è triste, forse. Non ricordo. Il crollo, la gloria. Sono una persona inadeguata, la ragazza interrotta di Susanna Kaysen. Sono infantile, futile, poi scrivo. E le parole sono superiori a me. Di chi sono queste parole? E un indizio di sapienza remota: da dove arriva? Io non so nulla. Le parole sono migliori di me. La fede. È tutto. Come l’amore. Come fai a vivere senza? A guardare il mondo, senza Dio? La mia scrittura è una preghiera, è un vocativo, una giaculatoria. Come la mia vita, una piccola vita.

Qual è il libro che sempre ti fa battere il cuore? Quale quello che stai scrivendo?

Il libro che mi faceva battere il cuore? Da ragazza era Il riposo del guerriero di Christiane Rochefort. Ma era una stagione della vita, che adesso non mi riguarda più. Ora voglio solo tornare a casa. E leggo male, leggo i classici dello spirito. Veramente leggo solo, a brani, Sant’Agostino. E la Bibbia. Non mi interessano le altre cose, mi sembra di essere sul finale, in dirittura d’arrivo. È tutto passato. È andata, doveva andare così. Sto scrivendo qualcosa che attiene alle ossessioni, ancora una volta torna Christiane Felscherinow. Mi ha cambiato la vita. Le ho scritto una lettera, qualche anno fa. Ma non è poi così importante, nemmeno un’ossessione lo è. Perché comunque finisce tutto. Finito.

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