25 Marzo 2022

“Inettitudine di madre”. Storia di Bel-Gazou, la figlia selvaggia di Colette

Da bambina, sua madre la chiamava Bel-Gazou, che in dialetto provenzale significa “bel cinguettio”.

Figlia di Colette e del barone Henry de Jouvenel Orsini, nasce il 3 luglio 1913. Colette ha quarant’anni, scrive un romanzo dietro l’altro, collabora a riviste e giornali. Ha una rubrica fissa, frequenta i salotti, si avvia a essere “la grande Colette”. La piccola non viene battezzata perché il padre vuol lasciarle la libertà di decidere, da adulta, quale fede abbracciare, ma le viene dato comunque un nome: Colette, lo stesso della madre, e Renée, il suo alter ego. Per tutti sarà sempre Bel-Gazou.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il padre parte per il fronte, a Parigi la madre si occupa della redazione del “Matin”. La bambina cresce con la nurse inglese Miss Draper nella residenza paterna, Castel-Novel a Varetz in Corrèze, e ci trascorre gran parte della guerra. A otto anni entra in collegio: vede poco i genitori, cresce silenziosa e selvatica.

Colette scrive su di lei pagine bellissime ma in più occasioni confessa con candore la sua “inettitudine di madre”: “portavo ogni anno la bambina al mare, come a un elemento materno più adatto di me a insegnare, maturare e perfezionare la mente e il corpo che io avevo solo sbozzato”.  Ne La casa di Claudine racconta uno dei “tesori” della piccola, il guscio di nocciola trovato in spiaggia che, tenuto all’orecchio, le sembra “cantare”:

“…canta, all’orecchio di Bel-Gazou, un canto che la tiene immobile e come dotata di radici…

– Vedo! Vedo la canzone! È sottile come un capello, è sottile come un filo d’erba!…

L’anno prossimo, Bel-Gazou avrà compiuto nove anni. Non proclamerà più, da ispirata, queste verità che confondono i suoi educatori. Ogni giorno l’allontana dalla sua prima vita piena, intelligente (…). L’anno prossimo, tornerà alla spiaggia che la renderà dorata, al burro salato e al sidro frizzante. Ritroverà il suo capanno malconcio (…). Ma forse non ritroverà il suo acume infantile, e la superiorità dei suoi sensi che sanno gustare un profumo sulla lingua, toccare un colore e vedere – “sottile come un capello, sottile come un filo d’erba” – la linea di un canto immaginario…”

Madre e figlia si ritrovano d’estate a Castel-Novel e, dopo la guerra, in Provenza: Colette scopre Saint-Tropez e ne è entusiasta – “Queste fiamme, queste resine fuse, quest’azzurro, il mistral, lo scirocco, tutti i soffi del cielo e non solo, sono nuovi per me” scrive a Hélène Picard.

L’estate finita, Colette riprende la vita parigina, a cui si sono aggiunte le tournées teatrali, e Bel-Gazou torna in collegio – prima al liceo di Saint-Germain-en-Laye fino al 1924 e, dopo un soggiorno di un anno in Inghilterra, a Versailles. Si sente sola e forse soffre anche per la preferenza e la segreta complicità della madre con il fratellastro Betrand – per coincidenza, proprio come Colette aveva sofferto la preferenza di sua madre Sido per il maggiore Achille.

L’uscita di scena di Miss Draper non fa che accentuarne la scontrosità, quella che Colette definisce la sua “insopportabile indipendenza”. Se la bambina ha pensato che senza la nurse può recuperare il legame con la madre, ne sarà delusa: “era come la gatta madre che, dopo un certo tempo, dice alla sua piccola che è arrivato il momento di arrangiarsi da sola”, confiderà ad André Parinaud.

Quando i genitori si separano nella dodicenne la rabbia cresce, l’allontanamento progressivo da Colette è segnato: “Un bambino accetta difficilmente di dover dividere la propria madre con altri. (…) dovevo imparare a dividerla con un’“opera” (…) e tutto ciò – dirà  in un’intervista  – “esigeva il mio silenzio, che me ne stessi in disparte, e che sembrassi felice”. Dal canto suo Colette pare spesso più fiera della figlia che dei suoi libri, su cui si esprime con incurante modestia, ma da lontano: “Mia figlia è chiusa a Versailles, ma la so di umore maldisposto (…). La magnifica bricconcella ama la campagna, il nuoto, le macchine di lusso, i fonografi, il ballo (…). Una ragazza d’oggi, insomma. E io non sono la persona più indicata per rimproverarla, è a me che la ragazza riserva la tenerezza più sincera, più riservata…”.

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Le lettere rimaste mostrano un madre come tante: si preoccupa quando Bel-Gazou è sorpresa a fumare a scuola – ha in orrore la schiavitù della dipendenza –, la riprende di non scriverle spesso, di sciupare il denaro, di non badare alla propria salute. Ma le descrive anche cosa scrive, le serate a teatro, si congratula con lei per i suoi successi scolastici. Il punto non è se Colette sia stata o no una buona madre, ma l’evidenza che il suo talento ne ha fatto in ogni caso una creatura e madre fuori da ogni parametro di normalità o supposta tale. Le due passano del tempo insieme solo in Provenza. Le Lettere alla figlia: 1916-1953 le pubblica Gallimard nel 2003.

A Bel-Gazou manca la sua vicinanza: vedendo lo stretto legame che alcune sue amiche ebree hanno con la loro famiglia, le dice di voler diventare, anche lei, ebrea. Impara a non lamentarsi mai della solitudine e dell’abbandono, ma se ne fa un manto. Crescendo, a scuola va male, è arrogante con compagne e insegnanti, Colette le rimprovera la mancanza d’impegno scolastico. Stanco delle sue provocazioni, dell’atteggiamento ribelle, il direttore del Lycée Victor Duruy di Versailles la espelle. E allora lei, che macina insofferenza, si iscrive a una scuola dove impara a ricamare, a cucire, a stenografare, fino all’ingresso come apprendista nella maison di moda di Germaine Patat, l’amante del padre.

Bionda, al padre Henry assomiglia molto, nel viso e nel fisico. Ha diciott’anni quando diventa assistente della regista de La vagabonde, film tratto dal romanzo della madre, che l’aiuta  a inserirsi nel cinema. Cerca poi, su suggerimento di un amico, d’impiegarsi alla Paramount, dove però non vogliono assistenti donne. La ragazza non lo dimenticherà. Farà da assistente per Lac aux dames e Divine, le sceneggiature sempre di Colette.

Poi, con l’inquietudine dei selvaggi, molla tutto e parte per la Guinea francese, va in Algeria e Costa d’Avorio, vuol conoscere dal vivo la vita dei piantatori. Rientrata in Francia, farà l’interior designer fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

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Il 1935 è un anno memorabile. Entrambe, madre e figlia si sposano: Colette è al terzo matrimonio con Maurice Goudeket, la ventiduenne Bel-Gazou sposa in agosto il medico Denis Adrien Camille Dausse, forse per assecondare la famiglia che le mette pressione sul suo futuro. Al matrimonio Colette non c’è: riceve gli sposi alla Treille Muscate, la sua casa in Provenza. In ottobre, poco dopo la morte del padre, il matrimonio di Bel-Gazou finisce bruscamente: “orrore fisico”, riferisce Colette a un’amica, appoggiando la figlia.

Dopo la scomparsa di Henry de Jouvenel, nella vita e nelle lettere s’infittiscono tra madre e figlia estraneità e silenzio: si ha l’impressione che due dignitose, distaccate estranee si guardino, comunicando con poche parole, incapaci di rimuovere tra loro quell’opacità d’incomprensione. Per Colette de Jouvenel inizia una vita nomade e dispendiosa, passa da un lavoro a un altro, da una vacanza con amici a Gstaad a ritrovarsi con il conto in rosso. Farà sempre meno per tenere i contatti con la madre che la disapprova, dipendendo sempre più dal fratellastro Renaud de Jouvenel per l’aiuto e il sostegno morale e materiale non avuto dai genitori.

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Allo scoppio della Seconda Guerra mondiale si trasferisce in un altro castello dei Jouvenel, Sain-Hilaire de Curemont in Corrèze. In breve è in sintonia con la comunità del villaggio, entra in contatto con gli antifascisti locali e gli aderenti alla Resistenza, con due insegnanti e la proprietaria della caffetteria-drogheria del villaggio organizza un efficace sistema di approvvigionamento. Collabora alla Children’s Relief Organization – il trait-d’union è sua cognata – che offre rifugio a bambini rimasti soli perché i genitori sono stati uccisi, arrestati o deportati. Diventa un punto di riferimento per gli abitanti del villaggio e del circondario: partecipando ormai apertamente alla Resistenza francese, aiuta bambini, ebrei, rifugiati, “diversi”. Li nasconde nella dépendance del castello, procura loro documenti per fuggire.

In questi anni di guerra incontra André Malraux, sua moglie e amici ebrei a cui è vietato lavorare per la loro origine. Collabora con i Francs Tireurs Partisans (FTP), l’Armé secrète (AS) e compie missioni speciali contro le misure imposte dalla STO, il Service de Travail Obligatoire dell’esercito di occupazione tedesco, che sequestra e trasferisce in Germania migliaia di francesi per obbligarli a lavorare nei campi, nelle industrie, nelle ferrovie, nelle città. Tra il ’44 e il ’45 è designata presidente del Comitato socio-sanitario di Brive, quindi vicesindaco di Curemonte, la prima donna a ricoprire quella carica. Sogna un mondo diverso, Bel-Gazou, più equo per tutti, con meno disparità sociale e di genere. Lavora perché ogni villaggio di Francia abbia elettricità, acqua potabile, istruzione pubblica. Il prefetto della Corrèze le chiede di difendere il voto alle donne voluto da De Gaulle, presso i sindaci del dipartimento, tutti uomini. De Gaulle l’ha notata: a Brive dovrà ristrutturare tutti gli edifici pubblici abbandonati, distrutti dalla guerra o che hanno cambiato destinazione con Vichy, scuole, uffici pubblici, ospedali.

Mentre sua madre si rifiuta di lasciare Parigi e vive asserragliata al Palais Royal nella città invasa, in una sua resistenza privata, Colette de Jouvenel prosegue l’impegno sociale. Quel che vede degli orrori di guerra non riuscirà più a dimenticarlo, soprattutto la violenza contro bambini e donne. È questo orrore che la spinge a voler scrivere e lasciare testimonianza diretta di stermini e distruzione. Dopo l’esordio sulle pagine di “French Woman”, l’amica che durante l’occupazione ha fondato il giornale clandestino “Fraternité” le propone di entrare nella redazione: da allora vi collaborerà con articoli sul lavoro, sulla Francia occupata, sulla devastazione di guerra, su temi che riguardano le donne.

I suoi articoli scuotono, provocano, sono uno shock per i francesi che hanno vissuto la guerra: in particolare il reportage del 20 aprile 1945, dove  racconta l’arrivo a Parigi dei sopravvissuti dal campo di concentramento di Ravensbrück.  Questo raccoglieva soprattutto donne, che ci vivevano fin da bambine: “L’andatura vacillante, i poveri stracci, i visi ingialliti o grigi, solcati di dolore, lo sguardo abbagliato, inebetito o bagnato di lacrime… E tuttavia queste donne hanno in sé una bellezza senza pari, la bellezza degli esseri che, per amore della libertà, hanno molto sofferto. (…) Sarete voi a impedire che i ricordi di quel che vi portate dietro resti per sempre nella memoria degli uomini. Sarete voi a dire a quali folli abissi conducono (…) certe idee e il poco di coraggio che serve a combatterle quando si è ancora in tempo. Sarete voi a condurre la lotta perché al piccolo d’uomo s’insegni il rispetto dell’uomo e della bellezza. Voi che avete conosciuto (…) in tutto il vostro corpo l’atrocità, voi potrete denunciarla al mondo…”.

Lei è Colette Renée de Jouvenel des Ursins (1913-1981)

Colette de Jouvenel parla con queste donne e i sopravvissuti, ne rimane impressionata al punto da prendere la decisione di partire: andare in Germania e raccogliere tutte le testimonianze che potrà, fotografare tutto ciò che riuscirà. Vuol produrre un lavoro organico di denuncia della barbarie nazista: ne uscirà un rapporto partecipe, intitolato Estate tedesca, che uscirà in più puntate nell’estate del 1945 su “Fraternité”. La direzione omette tuttavia le fotografie, temendo che possano traumatizzare i lettori francesi, già provati dal passato recente.

Progressista, dalle pagine di “Fraternité” scrive moltissimi articoli in difesa dei diritti femminili, in favore dell’uguaglianza di genere, per rivendicare più equità nel lavoro per le donne, a cui spettano le stesse possibilità e opportunità di carriera o promozione dei colleghi uomini. Ha relazioni lesbiche e sarà sempre di più “dalla parte delle donne”, sia in campo sociale (memore della discriminazione di genere subita alla Paramount), sia nelle scelte personali.

La sua attività di giornalista è ammirata da André Malraux – che l’aiuterà a far ribattezzare Place Colette la piccola piazza antistante la Comédie-Française – e Louis Aragon. Vorrebbe lanciare una rivista sulla Resistenza con lui, Jean Giono e Joe Bousquet. Tuttavia lascia da un giorno all’altro il giornalismo quando sua madre le fa un appunto su un suo articolo. Scrive poesie ma non ha mai voluto che lei le leggesse: “Il mostro materno – scrive Cocteau, amico di Colette e suo vicino al Palais Royal – intimoriva la figlia (…). Poiché l’origine di questo complesso di timidezza le sfuggiva [a Colette], ho sempre visto madre e figlia brancolare a tentoni l’una verso l’altra, come in un’amorosa partita di nascondino, di moscacieca” (Discours de réception à l’Académie Royale).

Lei stessa è convinta di racchiudere in sé i geni più deboli e meno ammirevoli dei genitori: “l’inguaribile trasognatezza e inettitudine del Capitano, la futilità e la malinconia da trovatello di Léo…”. Probabilmente, la madre non ha mai accettato l’omosessualità della figlia: una delle sue tante contraddizioni.

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Nel 1948 Colette madre è anziana e malata. Colette figlia vende Curemont e apre un negozio di antiquariato a Parigi: torna a fare la decoratrice, ma l’impresa stenta. Con vitalità incredibile e forse anche un poco angosciante scrive canzoni, produce film, arreda case, non riesce mai pienamente in alcuna di queste attività. Sembra una donna con grandi doti, grandiosamente sprecate.

I rapporti con la madre non si saneranno mai, ma Bel-Gazou sarà più presente negli ultimi tempi, dominati dall’amore di Maurice e dalla protezione fedele della mitica governante Pauline. Per il suo settantacinquesimo compleanno le regala delle orchidee: Colette è ormai inchiodata al suo “letto-zattera”, preda dell’artrite che le toglie il sonno, la lampada accesa durante la notte a rassicurare i parigini. Alterna lucidità e stati confusionali, i momenti “sulla nuvola”.

È allora che la figlia recupera qualcosa del rapporto mancato con lei, l’ironia si alterna al sorriso. A Cocteau confida: “La mamma è in piena forma, ieri era incredibilmente feroce”. Le ultime notti lei, Maurice e Pauline si danno il turno a vegliare Colette, la cui ultima espressione coerente è la parola d’ordine di Sido: “Regarde!”

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Alla sua morte, Colette de Jouvenel scopre di non essere l’erede dell’appartamento al Palais Royal, dove sperava di creare un museo Colette. Lancia comunque l’idea dei Cahiérs Colette, realizzati vent’anni dopo dagli “Amici di Colette”.

Tardi, riesce a trovare un centro radiante a cui indirizzare forza, generosità e rabbia: dopo anni di dispute legali con Maurice Goudeket, ottiene il controllo dei diritti d’autore sull’opera materna, e vi si dedica con lo stesso impeto profuso nelle campagne femministe, nell’attività antifascista, nelle convinzioni sociali. Rinata come la fenice a custode dell’opera di Colette, diventa anche la figlia che – forse – avrebbe voluto essere: a 60 anni, otto prima di morire, ricorda la madre come la fonte “di una tenerezza e di un calore che mi rendeva raggiante di felicità. E niente di quanto più tardi è venuto a tormentarmi o a frustrarmi potrebbe oscurare quella magia”.

Il Museo Colette riuscirà a crearlo – parzialmente – a Saint-Sauveur, paese natale della madre e sfondo di tanti suoi romanzi, prima spegnersi nel 1981. Le due Colette sono infine riunite al Père Lachaise.

Paola Tonussi

Gruppo MAGOG