La traccia su Ungaretti agli esami dimostra che lo Stato ritiene inutile la poesia. Ma non potrebbero far scrivere una poesia agli studenti? Figuriamoci, li vogliono carini, coccolosi, servi. Rilancio con Yves Bonnefoy, a tre anni dalla morte
La traccia dell’esame di maturità dimostra l’immaturità ministeriale in fatti poetici. Meglio, dimostra l’idea che lo Stato ha della poesia. Cosa inutile. Necessaria, semmai, per consolidare una vaga idea di patria. La poesia di Giuseppe Ungaretti, Risvegli, infatti, non è stata proposta alle orde maturande per quello che è: il testo di un genio (che semmai ha avuto la disfatta di essere troppo imitato). L’Ungaretti sepolto nella trincea della Prima guerra, piuttosto, è utile e servile alla solita ramanzina su – leggo il testo – “l’orrore della guerra”. Ungaretti serve perché è stato in guerra, è sopravvissuto, ne ha fatto poesia. Stop.
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Piuttosto, per suggerire la comprensione della forza travolgente della poesia, gli studenti avrebbero potuto pensare intorno alla frase, fatale, di Carlo Bo, gettata sul corpo morto del poeta, nel 1970: “Giovani della mia generazione in anni oscuri di totale delusione politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita per Ungaretti, e cioè per la poesia”. Cosa significa morire per il poeta, dare la vita perché il canto continui come eredità umana e non ‘di Stato’? Come può lo Stato istituire la sua prigionia di schemi, di museruole semantiche e statistiche, di interpretazioni storiche a disseccare il cuore del poeta?
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In effetti, perché non dare la possibilità, agli studenti, di competere, coinvolti, sullo stesso piano della poesia, scrivendo una poesia? Certo: l’esame di Stato serve a dimostrare che gli studenti, mentendo, sono bravi cittadini, azzeccati servi, mica creativi, per giunta poeti, devoti alle nuvole e non al profitto, al ‘gesto’ e non al superiore.
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Per rinfrancarmi dai burocrati statalisti che deviano il poeta nel solco dei piani quinquennali del benessere civico, leggo Yves Bonnefoy.Tra dieci giorni sono tre anni che è morto. La notizia mi arrivò di sera. Bonnefoy era del 1923, la stessa classe di mio nonno. Era nato il 24 giugno. Mio nonno, Michele, italo-francese, non conosceva Bonnefoy ma aveva una infantile adorazione per la Francia – d’altronde, è all’oro della giovinezza che si obbedisce, sempre. Quando Alessandro Gnocchi mi telefona, da il Giornale, il primo luglio, saranno state le nove di sera, afa appollaiata sugli alberi di Romagna, notte cupa come una palude, cercai uno scatto, un ghepardo tra i singulti. All’incipit di quell’articolo assegno ancora una qualche fede. Eccolo: “Il viso da creatura faunesca. I capelli bianchi, annuvolati. Le rughe come trame preistoriche. Gli occhi, così astratti, rivolti verso il mondo a venire. Parlando di Yves Bonnefoy… più che un «coccodrillo» bisognerebbe erigere un unicorno. E partire con la solita ma giustificata polemica: neppure il Premio Nobel, assegnato con criteri politicamente dementi, sono riusciti a dare a questo uomo nato per caso nel 1923, ma che avrebbe potuto sorgere tra i labirinti dell’Orlando furioso o nelle pagine più alte del Signore degli anelli, al più grande poeta vivente, fino a ieri, a uno dei giganti dell’era moderna da oggi. Eppure, per dare dignità a Bonnefoy, è bene partire da Douve”.
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Dicevo di Douve. Secondo me Movimento e immobilità di Douve, la prima grande raccolta pubblicata da Mercure de France nel 1953, è quella miliare. I rapporti con Ungaretti, se interessano, sono saldati fin dal principio nel saggio introduttivo di Stefano Agosti, per l’edizione Einaudi del libro: “Non sarà illegittimo attribuire alla Jeune Parque di Paul Valéry almeno due filiazioni: la Didone ungarettiana e Douve di Yves Bonnefoy”. C’è poi la gemella ammirazione per la poesia di Shakespeare – da leggere nei Quaranta sonetti di William Shakespeare tradotti dall’uno e dall’altro nella bella edizione Einaudi del 1999. D’altra parte, nel numero di “Po&sie” del 2009 (n.130), Bonnefoy ricama intorno alla sua ammirazione per Ungaretti (Un visage dans des poèmes) raccontando l’incontro accaduto nel 1967, a Londra, sotto gli auspici di Ted Hughes. C’erano, in quel convegno lirico, Octavio Paz e Pablo Neruda, Robert Graves, Anne Sexton e Wystan H. Auden. Ungaretti arrivò con un bastone, al braccio di Allen Ginsberg. “Lo ho guardato con l’attenzione che si può immaginare. Quello era il grande spirito che aveva rifondato la poesia italiana, il poeta bilingue che aveva lasciato un segno indelebile in uno dei momenti decisivi dell’avanguardia francese: un poeta europeo, come me”.
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Delle poesie di Bonnefoy, soprattutto quelle che portano il sigillo di Douve, non conta capire ma arrendersi, non bisogna spiegare ma lasciarsi slogare, chinarsi al fondo del linguaggio, rimestare quelle parole-pietre, riemergere saturi, di cosa? Non si è ‘capito’ niente, non si è cresciuti in sapienza, non abbiamo accumulato ‘dati’. Eppure, qualcosa ci sazia, quel verbo ci appaga per la durata equinoziale del giorno, oltre le istituzioni transitorie degli umani. (d.b.)
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Questa pietra spaccata sei dunque tu, questa camera distrutta,
Com’è possibile morire?
Ho portato un lume, ho cercato,
Ovunque regnava il sangue.
E urlavo e piangevo con tutto il mio corpo.
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Che parola è sorta al mio fianco,
Che grido si forma su una bocca assente?
A stento odo gridare qui vicino,
A stento avverto il soffio che mi chiama.
Eppure quel grido su di me nasce da me,
Sono murato nella stravaganza.
Quale divina o quale strana voce
Consente ad abitare il mio silenzio?
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Una voce
Quale dimora vuoi erigere per me?
Quale atra scrittura quando viene il fuoco?
Ho indietreggiato a lungo davanti ai tuoi segni,
Tu mi hai cacciata da ogni consistenza.
Ma ecco la notte incessante mi tutela,
Con oscuri cavalli ti fuggo.
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Taci poiché anche noi siamo della notte
Le più informi radici gravitanti,
E materia lavata che ritorna alle antiche
Idee sonanti ove il fuoco s’è spento,
E viso sprofondato d’una cieca presenza
Con ogni fuoco sfrattata ancella dalla stanza,
E parola vissuta ma infinitamente morta
Quando alfine la luce s’è fatta vento e notte.
Yves Bonnefoy
*le poesie sono tratte da: Yves Bonnefoy, “Movimento e immobilità di Douve”, Einaudi 1969, traduzione di Diana Grange Fiori