02 Novembre 2020

Novembre, il Trionfo della Morte. “Tutto il resto è un attimo pietrificato del tempo, un fotogramma, un’istantanea su un pubblico distratto, attonito, percorso da un’immemore melanconia”

Novembre, la notte scende come un fulmine scagliato a freddo, e io precipito in un sonno profondo, di pietra, minacciato da ulcere di sogno serpiginose. Lui, o lei, chiunque sia, mi viene in sogno con il suo volto ambiguamente androgino. È un angelo senza sesso. È serio e mi osserva senza alcuno scrupolo, agitando le ali lievemente, a pochi centimetri dal soffitto. Parla un linguaggio muto, il linguaggio degli occhi, l’angelo dalle ali soffici, perlacee. Viene per avvisarmi che non intende portarmi via. No, non ancora. Mi sveglio di soprassalto, vivo. Il petto è la cassa di risonanza di un dolore silente. So che quando verrà a prendermi gli occhi, l’angelo della morte sorriderà, gonfierà impercettibilmente le sue guance come uno dei bellissimi angeli del palermitano Giacomo Serpotta, il genio seicentesco degli stucchi per eccellenza. Non ho il rapporto con la morte che hanno in tanti, quella paura che ruba pace all’Essere. In fondo, invidio un po’ quel suo portare tutto e tutti, con spietata eleganza, sul sottofondo musicale della Danse macabre del compositore e organista francese Camille Saint-Saëns, nota chanson composta nel 1874 e successivamente strumentata.

William Wetmore Story, “Angelo del dolore”, 1894

Non amo certo passeggiare per cimiteri, trascinarvi lentamente il mio corpo come uno scafandro sul fondo del mare. Vivessi a Roma sarebbe tutt’altra storia, visiterei la tomba di Giuseppe Gioacchino Belli, al Verano, una lapide e niente più, giusto per rendere omaggio con un fiore al satirico poeta d’altri tempi che, forse, in maniera più marcata di Kafka e Gogol’, aveva espresso il desiderio di cancellare per sempre la sua opera. “Esiste una cassetta di miei manoscritti in versi. Si dovranno ardere”, aveva scritto nel suo testamento. Ardeva il Belli, come ardevano i suoi versi, che non mancavano di parlare di vita ma anche di morte. In particolare, ricordiamo qui Er cimiterio de la morte, un sonetto in cui il poeta, tornando dalla chiesa di giurisdizione dei pizzicagnoli, racconta di recarsi al cimitero della Confraternita della Morte, intorno ai mandatari, i servi ecclesiastici, per celebrare l’ottavario dei defunti. All’interno della chiesa, anche detta dell’Orazione, si trova tuttora un portone con la scritta latina “Cemeterium” che conduce nei sotterranei colmi di teschi, femori e altri frammenti d’ossa. 

“Come tornai da la Madon-dell’-Orto
co cquer pizzicarolo de la scesta,
agnede poi cor mannataro storto
ar Cimiterio suo che cc’è la festa.

Ner guardà cqueli schertri io me sò accorto
d’una gran cosa, e sta gran cosa è cquesta:
che ll’omo vivo come ll’omo morto
ha una testa de morto in de la testa.

E ho scuperto accusí cche o bbelli, o bbrutti,

o ppréncipi, o vvassalli, o mmonziggnori,

sta testa che ddich’io sce ll’hanno tutti.

Duncue, ar monno, e li bboni e li cattivi,

li matti, li somari e li dottori

sò stati morti prima d’èsse vivi”

L’uomo vivo e l’uomo morto hanno una cosa in comune, un teschio in testa. Quel teschio è lo stesso che celebriamo, in forma d’ossa o di zucca, nei giorni sacri quanto profani di Halloween. Decisamente meno macabra la visione della tomba dell’Angelo del dolore, la scultura dell’americano William Wetmore Story, dedicata alla moglie Emy e posta sulla sua tomba, nel cimitero degli acattolici, luogo di riposo eterno di poeti e personaggi illustri. L’angelo di Wetmore Story è stanco. Non si nega un solo minuto di riposo sul più freddo marmo, anche perché del rigor mortis l’angelo non ha cognizione, ma muore un po’ di dolore, dentro, al solo pensiero che l’anima più bella possa morire, che un’anima più fina, più impalpabile dell’aria che il corpo di carne respira, possa soffrire. Anima e carne, di questo siamo fatti noi uomini. Molta influenza, nel nostro esistere, ha di certo la terra, il suo ricco humus. Noi siciliani lo sentiamo questo humus, lo troviamo nelle essenze aeree, nei frutti, nelle erbe officinali o altrove, nelle pietre, nei minerali parlanti, nelle stratigrafie geologiche ricche di fossili e residui conchigliferi. Noi siciliani possediamo un pessimismo innegabile, dato dal rapporto con una terra che è brulicante di vita come anche di morte. Lo troviamo nelle carcasse al sole che ad alcuni fanno voltare lo sguardo e a ben altri fissare quei trofei di larve con placida malìa. Questo virus è un qualcosa di diffuso, che dimora nelle pietre erose dal tempo e dagli agenti atmosferici, negli antichi marciapiedi sbrecciati delle città, rotte filiformi, per noi piccole isole nell’isola.

I putti del palermitano Giacomo Serpotta

La Sicilia è sempre quella vulcanica, dalla natura “forte e muscolosa” scoperta e ritratta dall’antropologo Fosco Maraini negli anni Trenta, ma ancora orfana delle istituzioni e nelle mani di pochi saggi. Non riusciremmo a dire mai male di questa terra circondata dal mare. Diremmo male, piuttosto, di noi siciliani come razza, che “noi siciliani non siamo cosa”; ognuno, per sé, grottesco commediante di un piccolo grande teatrino. In quel pessimismo, nei secoli, un po’ ci abbiamo marciato, ne siamo andati fieri. La fierezza, piuttosto, è un sigillo atavico. Fiero è il siciliano anche nel suo sinonimo di ferino, feroce, come la Morte a cavallo nel Trionfo della morte di Palermo, affresco conservato nel Palazzo Abatellis del capoluogo siciliano, opera di anonimo, datata solo in seguito al 1441, termine post-quem, data segnata in un frammento cartaceo ritrovato durante il distacco e il restauro dell’affresco nel dopoguerra. L’ombra nera della peste, la peste autenticamente pandemica, è indubbiamente presente, seppure in questo Hortus conclusus, in questo giardino chiuso da una siepe che esclude lo sguardo, ne possiamo ammirare la più nobile ed elegante rappresentazione, sublimata dal trio enigmatico delle damigelle a destra dell’affresco, donne dagli sguardi maliziosi e ammiccanti, raffigurate come le tre Parche, intente a tessere un filo invisibile mentre intrecciano le dita affusolate.

Ci ricorda Michele Cometa nel saggio Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, edito da Quodlibet nel 2017 che, oltre che il trionfo della morte, questo è il trionfo degli sguardi dei suoi personaggi, tra dame, musici, commercianti, signorotti, sulla parte destra dell’affresco, e mendicanti e storpi sulla sinistra, tutti testimoni della misera catasta di corpi distesi sotto il cavallo, vescovi, papi, notabili, tra cui figurano anche un giureconsulto musulmano e un antipapa dalla pelle scura. Sono codesti personaggi “Le vittime dell’equus horribilis, i potenti della terra, i chierici, gli intellettuali, che giacciono in una catasta al centro dell’affresco, un intreccio di colori e curve degno di Bernat Martorell, forse il più grande dei pittori catalani”. L’opera è un vortice, un gioco innegabile, di ellissi e onde, la similare sintesi di curve di alcuni dei capolavori di Martorell, il noto Retablo de San Jorge datato 1434-1437, o ancora, per tornare al tema dell’angelo, il Retablo de San Miguel del 1440-1445, raffigurante l’arcangelo Michele con l’anticristo sconfitto ai suoi piedi. “Prima, più d’ogni altro segno,” scrive Cometa “bisognerà tenere conto degli sguardi. Sguardi molteplici. Di sbieco, frontali, evasivi, intensi. La morte e il cavallo che, per singolare contrappasso, non hanno occhi”. La morte non ha occhi, per vedere, per mostrare un briciolo di pietà. Tuttavia, essa, qui, “per singolare contrappasso”, è morta, a sua volta, ma tuttavia viva. Non ci troviamo davanti a una forma sfuggente di rappresentazione, bensì a una mera personificazione della morte stessa, come, tornando al compositore francese Camille Saint-Saëns, quella della Danse Macabre, che intenta a suonare una melodia spettrale imbraccia un violino scordato.  La morte è una figura assurdamente seducente, e poco importa se il suono del suo violino tende a stridere, o se è impetuoso e tonante, come il violino del noto Trillo del diavolo del compositore Giuseppe Tartini, sonata barocca della metà del Settecento, o frenetico come quello della Marcia trionfale del diavolo nell’opera da camera Histoire du soldat di Igor’ Fëdorovič Stravinskij del 1918. La morte, insomma, come il diavolo, si fregia di un registro dai toni seducenti e trionfali, e come scrive Michele Cometa nell’ecfrasi al suo importante saggio, reca in sé qualcosa di beffardo.

Il Trionfo della Morte a Palazzo Abatellis, Palermo

“La morte ha appena scoccato la freccia. Non sappiamo chi ha colpito. La mano si distende, quasi salutasse gli astanti. C’è un elemento beffardo in questa morte. Le ossa trascinate dal cavallo impazzito non oppongono resistenza al vento. Una tensione innaturale fa sì che lo scheletro descriva una saetta che congiunge il cielo alla terra, una curva spigolosa aggrappata al cavallo. Un fulmine a cielo sereno. Nervoso e rigido. Pochi tra i molti astanti osano guardare la morte. Solo i mendicanti, gli storpi, i derelitti che dal margine dell’affresco implorano una liberazione. Tutto il resto è un attimo pietrificato del tempo, un fotogramma, un’istantanea su un pubblico distratto, attonito, percorso da un’immemore melanconia. Nunc stans. La creazione che si congela. Tempo che si fa spazio. Di ghiaccio”.

Alessandro Corso

*In copertina: William Adolphe Bouguereau, “I Giorno dei Morti”, 1859

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