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Politica culturale
Dejanira Bada
Per affrontare questo Natale ho bisogno di armarmi. Ho detto bene: armarmi, non amarmi. L’anno è stato abbastanza mesto. Questo non significa che anche la festa, per citare una nota canzone dei Marlene Kuntz, debba essere mesta. Ma la contemporaneità ci sta sempre stretta. La contemporaneità sembra quasi aver dato quel che doveva dare. Mi armo dunque ma, prima di farlo, cerco delle risposte nel saggio quanto bizzarro passato degli uomini. Giusto in questi giorni mi trovo a meditare su un quadro: un’opera vibrante di Jacopo Robusti detto il Tintoretto, – famoso pittore nato a Venezia nel 1518 –, a noi nota come Ritrovamento del corpo di San Marco. Il quadro lo vidi nel lontano 1998, nella Pinacoteca di Brera, dov’è tutt’ora conservato. Opera pittorica monumentale del 1562, di quasi quattro metri per quattro, m’inghiottì con il suo straordinario senso dello spazio, dove le figure bucano imperiosamente la superficie, che siano statuarie o statiche, come quella di San Marco e di Tommaso Rangoni, Guardian Grande della Scuola di San Marco e committente dell’opera, all’estrema sinistra del quadro, o che si torcano come le figure poste a destra, raffiguranti un sifilitico e un indemoniato che si aggrappa con violenza al corpo di una donna dal vistoso drappeggio.
Il dipinto fa parte del ciclo dei cosiddetti “teleri”, ovvero le tele di grandi dimensioni, con storie della vita di San Marco, iniziato all’inizio del cinquecento da Gentile e Giovanni Bellini, e completato più tardi da Tintoretto. L’opera è un vortice perturbante, un naufragio di anime all’interno di una loggia dalla prospettiva inquietante, che ha indotto alcuni studiosi a dubitare che tratti della scoperta del corpo del Santo. Si tratterebbe, infatti, secondo Augusto Gentili, autore del dossier Tintoretto: i temi religiosi, edito da Giunti nel 2006, di un’opera dedicata a I miracoli di San Marco a Bucolis, ovvero quell’episodio in cui il Santo impone agli abitanti di Bucolis, alle porte di Alessandria, di abbandonare l’attività di riesumazione dei corpi dai sepolcri. San Marco, difatti, con il gesto imperioso del braccio sinistro, opera il suo miracolo sull’uomo ai suoi piedi, ma arriva a coinvolgere, con la potenza del suo gesto, anche l’indemoniato a destra, come testimoniato dal fumo diabolico che esala orrendamente dalla sua bocca. Il Virus, in fondo, è questo, una specie di demonio che trasforma il corpo di un uomo in una figura contorta di iena bruna, che si aggrappa con gli artigli alla vita, rappresentata dalla sinuosa figura della donna. Il Virus è fiato diabolico che non è facile estirpare. E il Santo? Quanto è veramente santo un santo?
Tintoretto ce ne fornisce già una prova in una tela precedente, San Rocco risana gli appestati, dove, a proposito di epidemia, San Rocco si aggira penetrando nel ventre squallido della morte, a portare un po’ di luce con la gialla candela della sua aureola, per consolare e salvare le vite dei malati di peste, dai corpi diafani, macerati dal morbo. Non meno santo è il San Marco di Brera, la cui apparizione con i piedi ben saldi a terra e a petto scoperto, al pari delle anime riesumate dei poveri disgraziati con lui rappresentati, lo rende ben più umano della piccina, quasi ridicola figura del Rangoni, con la sua toga patrizia riccamente dorata, pregna di un’artificialità quasi fastidiosa. Non dobbiamo meravigliarci se di Tintoretto scrive singolarmente Giorgio Vasari, all’interno della vita dell’artista Battista Franco, contenuta ne Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori del 1550, e in seguito ampliata nel 1568. Il ritratto del famoso storico e artista ce lo rende amabilmente simpatico, nonostante l’intento possa sembrare, di primo acchito, di tutt’altra pasta: “Nella medesima città di Vinezia e quasi ne’ medesimi tempi è stato, ed è vivo ancora, un pittore chiamato Iacopo Tintoretto, il quale si è dilettato di tutte le virtù e particolarmente di sonare di musica e diversi strumenti, et oltre ciò piacevole in tutte le sue azzioni, ma nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto et il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne’ componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell’uso degl’altri pittori; anzi ha superata la stravaganza, con le nuove e capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto che ha lavorato a caso e senza disegno, quasi mostrando che quest’arte è una baia”.
Tutto torna. Tintoretto è “il più terribile cervello”, una baia, un capriccioso naufragio di visioni dal carattere quasi dionisiaco. Vasari, difatti, spiega più avanti che “se egli avesse conosciuto il gran principio che aveva dalla natura et aiutatolo con lo studio e col giudizio, come hanno fatto coloro che hanno seguitato le belle maniere de’ suoi maggiori e non avesse come ha fatto tirato via di pratica, sarebbe stato uno de’ maggiori che avesse avuto mai Vinezia”. Un disobbediente, sì, tuttavia capace di portare a compimento capolavori di grandi dimensioni con estro e in tempi brevi, come La crocifissione, di 5 metri per 12, nella Scuola Grande di San Rocco, a Venezia. Il genio nasce e si evolve, a volte, per disobbedire, per scagliare un’offesa alla luce del sole. Tale mi pare il Ritrovamento del corpo di San Marco, inteso come opera stilistica, un’opera senza alcun ossequio alle norme della figuratività tradizionale, in cui il dinamismo dei personaggi la fa da padrone, sorta di espressionismo ante litteram nel gioco di ombre e bagliori di luce. Come spiegato anche nella Storia dell’arte edita da Electa, “Il Ritrovamento del corpo di San Marco, sembra quasi una polemica risposta a distanza al Veronese”. Mentre Paolo Caliari, detto il Veronese, cerca di rassicurarci con la sua serie di “Cene”, feste signorili popolate da nobili signori e dame amabili, rese con dovizia architettonica simmetrica, Tintoretto sconvolge con la sua teatralità. L’arte, insomma, non è fatta per rassicurare, per consolare.
Questa è la risposta che vado cercando per questo Natale apocalittico: l’idea della beffa. Questo Natale è una beffa, esattamente come il Ritrovamento del corpo di San Marco di Tintoretto. Era stato commissionato, infatti, da un personaggio singolare, tale Tommaso Giannotti Rangoni, nato a Ravenna nel 1493, e trasferitosi a Bologna non ancora maggiorenne, per dedicarsi agli studi di medicina e filosofia, come descritto anche nel Dizionario enciclopedico Treccani. La storia e le opere di quest’uomo hanno un che di incredibilmente grottesco, esattamente come sono grottesche le opere degli uomini ai vertici del nostro governo. Rangoni si dedicò per una qualche bizzarra attitudine agli studi di astrologia, facendo stampare nel principio del 1514 la sua prima operetta astrologica, un pronostico per l’anno a venire, noto come Iuditio, al quale fece seguire un Pronostico dedicato al cardinale e vescovo bolognese Achille Grassi, nel quale annunciava epidemie, terremoti e guerre. Pronosticare, fare statistiche, seminare paura sono state e sono tutt’ora attività tra le più gradite ai nostri uomini di governo. Molto più dei programmi efficaci di prevenzione del contagio e di presa di petto del Virus, che non consistessero solo di mascherine e distanziamento, ma anche, e soprattutto, dell’adeguamento delle strutture sanitarie. Ma torniamo al bizzarro Rangoni, il quale, tra uno studio astronomico e un’operetta filosofica, redigeva per il ricco mercato librario veneziano i suoi improbabili pronostici per gli anni a venire, sino a pronosticare, nel 1524, un diluvio dalle conseguenze catastrofiche. Il diluvio in questione era accompagnato dall’avvento di uno pseudoprofeta dal nord, ovvero Martin Lutero. Questo rese vane le critiche dei molti studiosi suoi detrattori, tanto che in quel di Modena, laddove il Rangoni risiedeva nel 1524, l’eco del pronostico fu tale da indurre alcuni cittadini a rifugiarsi in luoghi montani sicuri, cosa che fece, peraltro, lo stesso pronosticatore. Figurarsi cosa può succedere nell’era dei Media, come dimostrato in questo folle e apocalittico 2020, anche se va detto che un virus è un pericolo decisamente più concreto di un diluvio campato in aria. Naturalmente, il pronostico sul diluvio si rivelò fallimentare, tra gli scongiuri dei modenesi più saggi che intanto, cadendo il mese di febbraio, avevano organizzato un carnevale di maschere che si facevano beffa di “misser Diluvio” e del suo avventato inventore. A esso furono indirizzati anche dei sonetti satirici, affissi per la città, e venne pure inscenata la recita mascherata di due astrologi, in cui uno dei due mostrava il culo e l’altro l’astrologava saggiandolo con il compasso. Ciò non impedì al bizzarro astrologo di continuare la sua attività, operando per Federico II Gonzaga, marchese e poi duca di Mantova.
Si tenga in conto, comunque, che le attività più importanti del Rangoni furono quelle dedicate alle opere di mecenatismo artistico e culturale, consentitegli dall’influenza della sua attività di medico, tra cui ricordiamo la riedificazione della chiesa di San Giuliano a Venezia e la realizzazione delle tre tele per i confratelli della scuola di San Marco a opera per l’appunto del Tintoretto. Qui casca l’asino, ovvero lo spirito esibizionistico di Tommaso Rangoni, medico, astrologo, matematico, erudito, mecenate, che proprio in virtù di tale eclettismo non poteva, per così dire, non approfittare del suo ruolo di personaggio influente. Un po’ come capita ai nostri benemeriti politici e virologi di oggi, impegnati nella redazione di libri sul Virus e interviste e raccomandazioni a destra e a manca. Non a caso Rangoni fece erigere sulla bella e candida facciata della chiesa di San Giuliano, realizzata dal noto architetto Iacopo Sansovino, una statua a sua celebrazione, fatto accordatogli per concessione dal Senato della Repubblica di Venezia, come riconoscimento al suo mecenatismo. Lo stesso spirito autocelebrativo permea le tele raffiguranti i miracoli di San Marco, a opera del Tintoretto. Se nella più grande tela dell’intero ciclo, ovvero quella del Miracolo dello schiavo del 1548, la posizione del Rangoni è laterale, e quindi relativamente importante, nonché totalmente offuscata prospetticamente dalla figura del Santo che scende fulmineo, angelico, dall’alto, per salvare uno schiavo dal martirio inflittogli del suo padrone saraceno, spezzando in forma di prodigio le catene e gli strumenti di tortura, nel Ritrovamento del corpo di San Marco e nel successivo Trafugamento, di poco meno grande, raffigurante il momento in cui i cristiani di Alessandria d’Egitto, approfittando di un’improvvisa miracolosa tempesta, portano via il corpo del Santo, la posizione del Rangoni è sfacciatamente frontale.
Per sottolineare la presuntuosità del personaggio, basta tornare a ribadire come il medico e sfrontato erudito cerchi sempre, con la sua presenza, e in particolare nell’opera conservata a Brera, di rubare la scena al Santo, in virtù delle sue presunte conoscenze mediche in materia di sifilide, malattia alla quale lo stesso Rangoni aveva dedicato, nel 1537, un saggio. La grandezza del Tintoretto sta nell’indicare, attraverso un sapiente gioco di colori alternativamente luminosi e cupi, quasi terrosi, sempre e solo nella figura di San Marco la via della salvezza. Che la salvezza giunga dal corpo del Santo in asse con la basilica in fondo al quadro, o dal gesto della mano, come nelle restanti tele del ciclo di San Marco, viene resa sul piano prospettico in maniera magistrale. Quel gesto della mano ricorda un po’ la mano del Cristo Giudice di Michelangelo, nel Giudizio universale, nella Cappella Sistina. Ma la fede che salva è una fede tutta umana, similmente alla fede nell’arte, nel gesto demiurgico dell’artista, del pittore capriccioso, disobbediente. A conti fatti, a questo sembriamo affidarci oggi, noi tutti, a un miracolo, a un gesto puro, mentre siamo tentati dal disobbedire. A questo crediamo, in molti, alla sopravvivenza dello spirito, non certo ai nostri governanti, non certo ai vari Rangoni sui propri scranni di potere, che stanno lì a guardarci, a giudicare e pretendere d’imporci e comandare i nostri spostamenti, con danno dei più giovani, per attribuirsi il merito o, più esattamente, il demerito della nostra definitiva liberazione dal male, e di tutto ciò che verrà, un giorno, alla fine di questa mesta storia. Di Tintoretto, ovvero il figlio del tintore di tessuti di seta, suo padre, scrisse anche Jean-Paul Sartre nel quarto tomo di Situations, volume di scritti edito da Gallimard nel 1953, dedito a svariati ritratti di artisti, tra cui, tra gli italiani, oltre al Giacometti pittore poco conosciuto, al ben più noto pittore veneziano, a cui dedicò queste vibranti parole, che celebrano con Il Miracolo dello schiavo,il “sontuoso disincanto” di un’arte vera: “Nel 1548, a Venezia, sotto il pennello del Tintoretto, di fronte a praticanti, amanti dell’arte e spiriti fini, la pittura si è fatta paura. È iniziata una lunga evoluzione, che sostituirà ovunque il profano al sacro: freddi, frizzanti, glassati, i vari rami dell’attività umana sorgeranno uno dopo l’altro dalla dolce promiscuità divina. L’arte si tocca: da un assestamento di nebbie emerge questo sontuoso disincanto, la pittura”.
Alessandro Corso
*In copertina: un particolare dal “Ritrovamento del corpo di san Marco” di Tintoretto