“E lasciatemi divertire!”. Omaggio a Domenico Ferla, il poeta manicheo
Poesia
Luca Bistolfi
Il traduttore di questo testo, inedito in Italia e pubblicato in origine da Gallimard, nel 2007, con il titolo, superiore, La dame blanche, si chiama Mosè Marron. Un tempo lo conoscevo come Luca Merdone, so qual è il suo nome riferito all’anagrafe, ma egli, creatura precisati dai venti, predilige l’evanescenza, l’oblio, il culto di ciò che non permane. D’altronde, ogni santo giorno, bisogna perlustrarsi gli occhi con la pietra per riconoscere la poesia ed evitare il virus del mondo. La dame blanche è un testo, delicatissimo, di Christian Bobin, francese, classe 1951, professione poligrafo francescano. I testi di Bobin, diversi tradotti in italiano (per Gribaudi, Servitium, Quiqajon, San Paolo, AnimaMundi, Camelozampa, ad esempio), sono epigrafi tracciate su ali di falena, hanno il pregio della leggerezza, la profondità di chi ha vissuto molteplici morti, implicati in una tradizione diaristica risolutamente francese, che va da Montaigne a Pascal, da Rousseau a Chateaubriand, Montherlant, Jabes. Una scrittura, insomma, per sonori solitari e per austeri della meraviglia. Quando Mosè Marron mi mostra questi testi, sbalordisco. Il modo in cui Bobin entra nella stanza di Emily, ne munge gli ultimi respiri, mi pare di ipnotica bellezza. Con queste parole l’autore, Bobin – a cui tempo fa Mosè Marron, quando vestiva altri nomi, mi ha introdotto – esplicita il suo libro. “Dietro la porta chiusa della sua stanza, Emily scrive testi la cui grazia scattante è pari soltanto alla prosa cristallina di Rimbaud. Come una sarta celeste, raggruppa le sue poesie in pacchetti di venti, poi le cuce e le assembla in quaderni che interra in un cassetto. ‘Scomparire è il meglio’. Nello stesso istante in cui indossa il suo abito bianco, Rimbaud, con la furiosa negligenza della giovinezza, abbandona il suo libro favoloso nella cantina di uno stampatore e fugge verso l’Oriente ebete. Sotto il sole stellato d’Arabia e nella camera proibita di Amherst, i due asceti amanti della bellezza lavorano per farsi obliare”. Frasi di lunare splendore, che rincuorano in questa era del ferro. Il vero lavoro del poeta è farsi dimenticare. Che genio. Allo stesso modo, Mosè Marron, appena tornato a me dopo anni, è scomparso. A noi lascia questa traduzione, ferina, piena di feritoie. (d.b.)
*
La dama bianca
Poco prima delle sei del mattino, il 15 maggio 1886, quando irrompono in giardino i canti degli uccelli a lavare il rosa del cielo e i gelsomini santificano l’aria con il loro profumo, il rumore che da due giorni rovina tutti i pensieri di casa Dickinson, un rumore di respiro bisognoso, ostacolato e valente – come una scia su di un bordo recalcitrante – si interrompe: Emily ha appena girato il suo viso verso l’invisibile sole che, dopo due anni, consuma la sua anima come se fosse una carta d’Armenia. La morte riempie all’improvviso tutta la camera.
*
In questa epoca le famiglie agiate usano mettersi in concorrenza con l’eternità, facendo una foto dei loro morti. Non ci sarà alcun ritratto di questo giorno, giusto qualche parola di sollievo degli intimi e il loro stupore davanti al vivo biancore del viso di Emily, somigliante alla luce che esce fluendo da un giglio.
*
La poesia è la figlia inferma del cielo, la silenziosa sconfitta del mondo e della sua scienza. Il dottor Bigelow non emetteva una sentenza se non dopo aver intravisto la sua paziente stesa sul suo letto, vestita di bianco. Vietato entrare, decretò restando sulla soglia della camera. Emily aveva cinquantacinque anni. Nessuno nella città di Amherst aveva più visto il suo viso da un quarto di secolo.
*
La guerra dei vivi non si ferma mai: Susan, l’adorata cognata di Emily, che viveva a cento metri da lì, non assisterà al sotterramento, poiché suo marito Austin, fratello di Emily, ci aveva invitato la sua amante, Mabel Todd. Prima dell’arrivo della coppia adultera, Susan riveste Emily con la sua ultima bianca armatura, poi si ritira.
Il bianco del vestito mortuario, stirato di fresco, abbarbaglia la penombra della camera in cui gli scuri verdi sono abbassati.
Emily da anni ha sollevato fra lei stessa ed il mondo una barriera in lino bianco.
Nella biblioteca a piano rialzato, annotato di suo pugno, il libro di Sant’Agnese di Tennyson. Si tratta della storia di una suora, dei suoi ornamenti “bianchi e puri” e della sua attesa di una “domenica eterna”. Un orologio alla fine del cielo ha appena fermato il suo battito. Infine è domenica. Una donna che non ha mai fatto male ad alcuno attende nel suo vestito di neve, nascosta dietro la morte, il seguito degli avvenimenti.
Viene deposta con precauzione in una bara bianca che si fa scendere nell’ingresso della casa paterna. La porta è aperta sul giardino lapidato dal sole. Decine di farfalle aerano il soffocante blu del cielo. Le api dorate, che Emily strappò al loro destino di schiave coronandole nelle sue poesie, ronzano per lei un requiem.
*
Vinnie, sorella di Emily, mette fra le mani incrociate della morta due fiori odorosi di vaniglia bianchi, “affinché ella li rimetta al giudice Lord” che amava. La bara è chiusa, sul coperchio viene posata qualche violetta fresca e delle felci per la rigida serenità. Il pastore di Amherst legge un salmo, il reverendo Jankins recita una preghiera e il colonnello Higginson, freddoloso scopritore del genio di Emily, declama l’ultimo poema di Emily Brontë aprendosi a una dichiarazione di plauso di fronte alle tenebre: «non è vile la mia anima». Emily Dickinson adolescente recitava questo poema a sua sorella nel buio della loro camera, prima di dormire: «non v’è alcun posto per la morte/ alcun atomo che possa annientare/ poiché tu sei l’Essere ed il Soffio/ e ciò che sei non sarà distrutto». Più null’altro sarà detto.
*
Sei domestici irlandesi, tra cui alcuni che a volte aiutavano Emily nel suo lavoro attorno ai rosai – Dennis Scanlon, Orven Courtney, Pat Ward, Dennis Cashman, Dan Moynihan e colui che Emily chiamava “il grazioso ragazzo della scuderia” – Stephen Sullivan – issano la bara sulle loro spalle nodose, superano la porta del retro le cui persiane placcate sul muro di mattoni sembravano due ali, e, dopo aver attraversato il fienile dalle ombre striate d’oro, si tuffano fra l’erbe alte crepitanti d’insetti, seguendo le istruzioni fornite da Emily per il giorno del suo funerale: che si vada al cimitero attraverso i campi, senza passare dalla strada.
*
«Quando sarà il mio turno di ricevere una corona mortuaria, io voglio un ranuncolo». La speranza di Emily era esaudita: il prato dietro la casa fiammeggiava di mille ranuncoli dorati. Fa parte dello stile dei Dickinson: sebbene morta, lei non esce da casa sua e passa senza transizione dalla stanza di scrittura al buco crociato nella terra attraverso la luminosa pelle del becchino di Amherst.
Christian Bobin