29 Marzo 2022

“E io in fiamme”. L’eremitaggio di Rainer Maria Rilke

1. Un episodio ha cambiato per sempre la vita di Rilke. Egli ha avvertito che il suo destino era la poesia e ha scritto, ha scritto troppo, come egli stesso ha riconosciuto. Avverte come un sordo remoto dolore che egli non è ancora l’artista che vorrebbe essere. Per questo sarebbe stato necessario essere andati fino in fondo, solo così la parola conquista il mondo. Bisogna infatti che «anche l’abisso sia stato abitazione perché ti sia dato ciò che è profondamente e intimamente terrestre» (A Ilse Jahr 23 febbraio 1923). Anche Parigi, dove si reca nel 1902, è esilio, è orrore, un abisso inabitabile. Seguono altri anni tormentati fino alla svolta, nell’ottobre del 1907 quando, ancora a Parigi, al Salon d’Automne del Grand Palais di Parigi scopre «l’eccezionale degli spazi dedicati a Cézanne. Tutta la realtà è lì, dalla sua parte» (Lettera a Clara Rilke 7 ottobre in Rilke, in Verso l’estremo. Lettere su Cézanne). Il popolo di fantasmi che aveva reso irreale la città, unreal city scrive Eliot nella Terra desolata, regredisce di fronte alla gigantesca presa sulla realtà di Cézanne che Rilke un po’ alla volta riuscirà a far sua. Cézanne è un redentore dalla non-realtà, il nulla in cui sembra siano destinate a finire le cose. Rilke stesso vuole ora essere un redentore, ein Rettendes scrive, ma prima l’irrealtà che è tale per mostruoso eccesso di realtà doveva depositarsi nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, poi doveva ancora frantumare i suoi tentativi di dar forma all’esperienza di Cézanne in una grande sequenza poetica, quando tutto quanto gli sembra divenuto inafferrabile, segnato da un senso di inarrestabile caducità, fino all’emergere nel febbraio del 1922, quasi d’improvviso, delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo. Ora Rilke abita la sua poesia, come abita il piccolo castello di Muzot in cui ha riparato, facendone il suo topos, la sua tana.

2. Lou Andreas Salomé ha conosciuto l’inquietudine, le incertezze, l’angoscia che sembravano inseguire Rilke. È a Lou che egli il 29 dicembre del 1921 comunica di aver finalmente trovato luogo. Il 25 luglio 1921 ha scritto alla Principessa Marie von Thurn un Taxis-Hohenlohe che un amico gli ha messo a disposizione un castelletto, Muzot, in cui avrebbe fatto «un piccolo tentativo di abitarci in queste condizioni un po’ dure di fortezza». A Lou dichiara di averlo finalmente «riconosciuto». Per il prossimo futuro risiederà qui, tra le vecchie mura, nella sua «forte, piccola torre; ad approfittare del suo rifugio, del suo silenzio». Ora non si augura altro «se non una buona clausura, e che sia lunga e ininterrotta». L’11 febbraio nascono le Elegie precedute dalla prima serie dei Sonetti a Orfeo. E allora, così scrive a Lou la sera stessa, «sono uscito e ho carezzato il piccolo Muzot – che me l’ha custodito, che me l’ha, finalmente, concesso – come un grande vecchio fido animale». Rilke ora sta. Possiamo dire che Rilke ora è. La sua vita è stata un interminabile pellegrinaggio. Ora nell’esilio del piccolo castelletto svizzero, in questa sorta di luogo altro, fuori del tempo, lontano dalle città, in questa eterotopia, egli ha trovato il suo luogo proprio. Nell’infanzia era stato un esule nella scuola militare dove il padre l’aveva costretto. Esule e solo in mezzo a cinquecento ragazzi, poi forse esule e solo in mezzo a principesse e contesse e dame e amanti. Ora finalmente ha trovato luogo. Forse l’esilio è finito.

3. Tra le vecchie mura ha preso forma quello che lui aveva intuito davanti ai quadri di Cézanne. Hanno preso corpo le Elegie iniziate nel 1912 a Duino, che egli aveva cercato di portare aventi per schegge e frammenti, fino a scivolare nel silenzio, fino all’afasia poetica. Freud incontra Rilke insieme a Lou e parla di questo incontro in un breve saggio intitolato Vergänglichkeit, Caducità (F. Rella, Il silenzio alle parole). Il poeta è preso da una sorta di Weltüberdruss, un “disgusto universale”, da uno spleen così simile a quello di Baudelaire, di fronte alla caducità, alla transitorietà, alla certezza che “tutto ciò che è nato deve morire” come dirà anche Eliot. Al fondo di questa sensazione sta anche un oscuro senso di colpa. Con Cézanne egli aveva capito che compito dell’arte è dare forme alle cose, che diventano così, proprio nella forma che ne dice la verità, reali per noi. Lui sa che questo significava la réalisation su cui Cézanne ossessivamente insisteva. Aveva intuito, come scriverà nella nona Elegia, che le cose proprio nella loro caducità attendono da noi ciò che salva. Attendono una redenzione da una sorta di opaca inesistenza. Attendono di diventare finalmente reali. Il piccolo Muzot ha custodito questa vocazione e questo compito e ha permesso che questo ad un certo punto venisse assolto, realizzato. Rilke non si muoverà più da questa tana, da questo esilio che è diventato una casa.

4. Le Elegie iniziano con il verbo vergehen, il verbo della caducità, e sono una lotta estrema contro la sensazione negativa che d’altronde caratterizza quasi tutta la grande poesia dei primi decenni del Novecento, da Eliot a Montale. Rilke cerca quello che Nietzsche aveva definito un «contraccolpo al nichilismo». Le lettere che egli scrive nel periodo della creazione delle Elegie e dei Sonetti raccontano del processo attraverso cui si giunge alla coscienza di un compito, un compito redentivo simile a quello che Nietzsche enuncia in un grande passo di Così parlò Zarathustra (tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 2004) intitolato “della redenzione”: “Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell’avvenire: di quell’avvenire che io contemplo. E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità!”. Frammenti e orrida casualità, ma anche la capacità di dare forma a tutto, anche all’orrore. L’artista, Cézanne Rilke, nietzscheanamente non rifuggono dall’orrore. Rilke lo ribadisce già nella seconda delle lettere da Muzot. Rifiutare una parte del mondo significa perdere il diritto di rappresentare il mondo. Abbracciare il lebbroso, come San Giuliano l’Ospitaliere. È un rapporto intimo con le cose che ci permette di dire «capisci, / per dire così, come mai le cose stesse / intimamente sapevano d’essere». L’angelo sembrava sovrastare nell’inizio delle Elegie. Ora invece puoi celebrare all’angelo il mondo. «Mostragli allora la semplice cosa, che, plasmata di generazione in generazione / come cosa nostra vive, presso la mano e lo sguardo. / Digli le cose. Ne sarà stupefatto; come lo fosti tu / davanti al cordaio a Roma, o al vasaio sul Nilo. / Mostragli come può essere felice una cosa, innocente, nostra, / e come anche il dolore che piange si schiude puro alla forma / e serve da cosa, o si estingue facendosi cosa –, e beata / sfugge al di là del violino. – E le cose che vivono nel / trapassare capiscono che tu le lodi; caduche / fidano che in noi, i più caduchi, sia ciò che salva. / Vogliono che nell’invisibile cuore noi le si debba trasfigurare / oh, all’infinito, dentro di noi! chiunque noi siamo alla fine» (Elegia IX).

Rainer Maria Rilke a Muzot, nel 1921, insieme a Baladine Klossowska

5. Ma prima di procedere oltre fermiamoci un attimo su una lettera che Rilke scrive al professor Pongs il 17 agosto 1924 in cui si esprime una sorta di paradosso. Rilke ha nominato l’abbraccio con il lebbroso, ha celebrato la terra e l’accettazione del mondo. Ma ha detto che non abbiamo diritto di modificare l’esistente. Il desiderio di redimere il miserabile, o di guarire lo storpio, manifesta un giudizio sul mondo che è, per Rilke, contrario alla sua accettazione. Possiamo, anzi dobbiamo abbracciare il lebbroso ma non guarirlo. La poesia non guarisce il male, non guarisce il dolore, non salva dalla morte, ma fa sì che queste cose, tutte queste cose, dispieghino la loro verità più intima e divengano nostre. Redente e reali.

6. Nella lettera al barone Hulewics del 13 novembre 1925, il suo traduttore polacco, egli ribadisce che non solo il dolore può, insieme al mondo, diventare cosa nostra. Anche la morte. Dunque dobbiamo arrivare ad affermare che la vita e la morte sono mia sola cosa nelle Elegie. «Ammettere l’una senza l’altra è […] una limitazione che esclude definitivamente tutto l’infinito. La morte è il lato della vita rivolto altrove da noi, non illuminato da noi: noi dobbiamo tentare di attuare la più grande coscienza della nostra esistenza, che è di casa nei due regni indelimitati, nutrita inesauribilmente da tutti e due…». Metà della vita è «aperta verso l’altra metà, aperta come una ferita». Perché una ferita e non un transito? Forse Rilke sta già guardando verso l’atto finale. La ferita diventerà infatti una piaga aperta, un dolore innominato e innominabile nelle ultime lettere e nell’ultimo testo che qui è riportato. Eppure fino all’ultimo, fino all’ultimo istante resta una fede nella parola. Come ho annotato nel commento al testo la poesia deve cantare anche l’orrore di un dolore straziante, il faccia a faccia con la propria morte, con la perdita di quei limiti che costituiscono la nostra identità. Rilke rimane Rilke, davvero, fino alla fine. Il suo essere Rilke traspare nelle fenditure di un linguaggio che sembra implodere su se stesso e che però continua a esprimere anche l’inesprimibile.

Franco Rella

*Si riproduce per gentile concessione parte dello studio di Franco Rella pubblicato in: Rainer Maria Rilke, “Noi siamo le api dell’invisibile. Lettere da Muzot”, De Piante Editore, 2022

*

Val Mont

Vieni tu, tu ultimo ravvisato,
Tu, insanabile dolore, intramato
ora nel corpo. Un tempo nello spirito,
ecco, in te, sono io ora calcinato;
il legno a lungo s’è opposto
della fiamma ad essere alleato,
che in te avvivi, ma ora
in te io brucio, ti sono a lato.
La mia dolcezza nel tuo furore
si fa furore non di qui, d’inferno.
Salii, nudo, puro, né progetti,
né futuro, sull’intrico
del rogo del dolore.
Certo di non poter comprare
scheggia di futuro per questo cuore,
che d’ogni provvista vuoto
qui si è fatto muto.
Sono ancora io, io che brucio
ormai qui inconoscibile?
Non vi trascino ricordi.
O vita, vita. Esser-fuori.
E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto.

[Rinuncia. Non è come in infanzia un tempo malattia. Rinvio. Pretesto per diventare grande. Tutto chiamò e sussurrò. Non mescolare a questo ciò che un tempo ti stupì]

Rainer Maria Rilke

Gruppo MAGOG