Vado a Faenza al cinema Sarti per questa proiezione di Escher. Viaggio nell’infinito (la regia è di Robin Lutz). La via del cinema è una delle tante piccole traverse di uno dei corsi del centro. L’ingresso quasi non lo noti ma come tutti i posti che sono nucleo, che accolgono, da fuori sono privi di spettacolarità, sta nell’entrarci la scoperta. Il cinema Sarti è un cinema storico, l’edificio viene costruito nel 1907 e inaugurato nel 1910, su quella che era una stalla per la corriera verso Modigliana. Il territorio prima ancora era della chiesa. Quindi tra stalla e chiesa si continua a transitare sulle poltrone, si guardano i film per risponderci alle domande, per porci ancora richieste o preghiere. Già nel ’33 era stato dichiarato cinematografo. Faenza rispetta la tradizione.
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Il film si apre con l’intervista a Graham Nash e risponde subito al dubbio che ossessiona gli artisti, cosa è arte, perché. Nash dice che vedere le incisioni di Escher gli ha “letteralmente cambiato la vita”. Questo è quello che l’arte dovrebbe fare, ribaltarti, farti fare inversione nella vita, buttarti completamente a terra. Escher di se stesso dice “non sono un artista” – e allora cosa è? – “sono un matematico”. Sembra una provocazione, una posa, nient’affatto. Escher è stato capace di sprofondare nel concetto di infinito proprio perché capiva che era un essere finito, limitato dentro una forma, in difetto col creato.
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Il film procede raccontando la vita e l’arte di Escher seguendo il piano cronologico principalmente ma, con mia grande felicità, dalle stesse parole di Escher, dalle sue lettere. Credo sia fondamentale dare la voce agli scritti degli artisti, non perché spieghino qualcosa, ma perché ti possono portare dentro la loro ossessione, dentro la loro prospettiva. Ed Escher di prospettiva ne aveva sicuramente più di una. Escher si fa sorprendere dalla natura, dall’azzurro del cielo al quale non riesce a trovare alcuna forma di comprensione. Cerca sempre quello che è inarrivabile, indefinibile. Non si sentiva a suo agio coi colleghi artisti “loro inseguono la bellezza, io la meraviglia”. Allora, passeggiando per la campagna, una fila di alberi diventa la struttura di una processione, incute paura e rispetto, necessita il silenzio, quando guardi le incisioni di Escher devi chiuderti la bocca. Lo studio della natura è alla base di quel moto irrefrenabile che lo scuote, osservare quindi le piante da vicino, che sembrano tanto perfette e armoniose da lontano, gli fa capire che la vera bellezza è complicata e informe, difficilissima da disegnare. La meraviglia sta nel particolare, ciò che è fuori dalla forma facile, e l’interesse di Escher si scatena: come portare la forma naturale, complessa e informe, a rappresentarla più diretta, intuitiva. Ecco il matematico che sta in Escher. Un uomo che sosta tra matematica e arte. Non è che Escher preferisca le forme semplici perché più facili, Escher vuole arrivare alla forma che alla fine sarà il punto perché crede che esista qualcosa che possa riunire tutte le forme, il diamante dell’uomo, incorruttibile, spogliato di tutta la scorza superficiale, il punto unico di tutte le forze.
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Escher nei dieci anni che abita a Roma preferisce uscire di notte per la città e disegnarla al buio, perché nel buio i fronzoli del barocco sbiadiscono, tutto si riduce, senza la luce tutto viene riportato al necessario. L’opera di Escher ha quindi la caratteristica della necessità, le sue incisioni sono per noi necessarie, ci strattonano dentro la forma, rimaniamo spolpati dell’inutile. Alla fine restiamo, semplicemente in connessione col tutto.
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Era scandalizzato dall’uso del colore nelle ristampe delle sue opere negli anni ’60 -’70, non capiva perché le sue incisioni piacessero ai giovani, e non capiva perché ci mettessero tutti quei colori sgargianti. Ne era inorridito. Per lui era già troppo emozionante ricordare un paesaggio, un volto, figuriamoci colorare in quel modo le sue incisioni. L’inchiostro è nero, il grigio ha livelli impossibili da catalogare, è già tutto così esatto, tutto il cosmo ricostruibile e contenibile nella forma, nel segno del nero.
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(Unica pecca la scelta della voce narrante di Escher, magari era simile alla sua voce reale, ma per un docu-film avrei preferito un pochino la menzogna).
Clery Celeste
*In copertina: Maurits Cornelis Escher, “Vincolo d’unione”, 1956