Esiste il Giorno della Memoria, ci sono le commemorazioni per qualunque sospiro, le cerimonie con la banda in piazza. Tutto bene, c’è chi ha la memoria corta e chi semplicemente la faccia di bronzo di chi fa finta di esser sempre stato da un’altra parte. Vanno aiutati con incentivi, meglio se non di Stato. Però, se proprio dobbiamo ricordare – per non dimenticare, ed è sacrosanto –, allora ogni tanto possiamo anche fare lo sforzo di inoltrarci in territori più sconnessi, che poi sono quelli su cui continuiamo a camminare tutti i giorni. Poi uno dice la Salerno-Reggio Calabria: Tangentopoli sì che è una cosa che non finirà mai.
E allora bisogna leggere il libro di Filippo Facci, La guerra dei trent’anni (“1992-2022 Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa”, Marsilio). Perché quando si parla di Tangentopoli l’Italia ripone i soliti abiti arlecchinopulcinellabaffineri e si trasforma in un’adolescente capricciosa, tuttobianco/tuttonero, con tutto il manicheismo proprio di quell’età. E invece si deve parlare di Tangentopoli ricordandosi di quante siano state davvero le sfumature di grigio, che poi sono sempre molte più di cinquanta. E che spessissimo quelle chiazze grigie sono diventate vere macchie nere dei tangentopolisti (chiamiamoli così: c’erano i tangentisti, sono poi arrivati i tangentopolisti: parlando di Tangentopoli, anche loro hanno trovato un orticello su cui campare, fondandoci sopra carriere anche politiche, giornali, rendite di posizione).
Se volete leggere la versione ominobianca di cosa sia stata Tangentopoli, insomma, avete a disposizione fiumi di Gomez, Barbacetto, Travaglio e mille altri. Se invece non vi piacciono le favole, oppure se questa cosa dei santi e degli eroi non vi convince tanto, sappiate che non siete solo voi, a non crederci. E quindi leggete questo libro e ripercorrete – giorno per giorno, letteralmente – che cosa è successo in quegli anni. Perché non bisogna dimenticare cosa sia stato quel clima: come un condizionatore impazzito che sparava al contempo ventate di gelido terrore giacobino e folate di caldissima esaltazione collettiva che, di solito, si tramutavano in bassissima adulazione per chi stava vincendo in quel momento, ossia certa magistratura. Il tutto, ovviamente, per non cambiare alla fine un accidenti di niente. Anzi: se dobbiamo confrontare la classe politica di allora con quella attuale, non ha fatto che peggiorare drammaticamente le cose. Davvero Conte e Salvini e Di Maio sarebbero statisti migliori di Craxi e Andreotti? Davvero davvero?
Perché Facci non è uno storico, e però questo non è nemmeno il libro di un semplice giornalista (e nemmeno di un giornalista semplice, voilà: invertiamo anche noi ordine di sostantivo e aggettivo, che fa sempre tanto intelligente). Facci è stato di parte fin dall’inizio di questa sbornia nazionale. Radicale di formazione e all’epoca insieme ai socialisti per impiego quotidiano, ha tenuto in realtà una parte da conservatore, alla Prezzolini. Da vero apòta: io non la bevo. Era giovanissimo e aveva ragione, e meno male che c’è stato qualcuno che ha tenuto la testa sul collo (non basta dire di aver letto e riletto If di Kipling, per riuscirci davvero). Perché i padri nobili del giornalismo, all’epoca, la testa l’hanno persa, eccome. Prendi Giorgio Bocca, la ruvida coscienza civile della Nazione:
“Un uomo antico questo Di Pietro… un uomo dell’Italia comunale, un popolano eletto a una delle cariche pubbliche, ingenuo e consapevole della sua democratica autorità. Forte, timido, violento, appassionato con quel suo italiano ancor pieno di sapori contadini. Trovare ancora uomini così è una fortuna che ci riconcilia con questo paese… Di Pietro fa pensare al Giotto del cerchio, il contadino geniale con un orgoglio che non si vergogna delle sue origini…”.
Già, ma si può vedere la cosa in modo differente: gli italiani – e di certo non solo i giornalisti – riescono a essere servili col Duce, con Berlusconi o con Di Pietro intonando qualche variante della stessa canzone che cantano sempre. Non si scappa. Antonio Carlucci arriverà addirittura a curiosi paragoni tra Di Pietro e Padre Pio. Di quel che all’epoca han combinato Vittorio Feltri, Paolo Mieli, Giulio Anselmi, Polito, Sansonetti e gli altri, poi, non diciamo nulla: il libro va comprato e letto. E gustato. (Magari tenendo a portata qualcosa contro il mal di fegato, perché si rischia).
Facci è uno solo, non può permettersi quelle false dichiarazioni di intenti in capo a tante testate: da una parte i fatti, dall’altra le opinioni. Rimane sul crinale: i fatti, i documenti e le prove sono indicate con scrupolo, però le opinioni personali sono manifeste. E comunque le cose sono andate come dice lui: nel ’92 è iniziato uno squilibrio tra poteri dello Stato mai più ricomposto. Perfino il fascismo è durato di meno, se volete. Che poi alla fine Di Pietro si sia dimostrato tutt’altro che immacolato, si sa. Leggendo questo libro, si può anzi quasi arrivare a pensare che si sia sentito costretto a buttarsi a capofitto in Tangentopoli (trascurando, sia chiaro, di approfondire certe posizioni non certo di dettaglio, vedi Pacini Battaglia) così come poi avrebbe fatto Berlusconi con la politica: per nascondere certi peccatucci originali. Per difendersi, più che altro. Per un po’, il gioco ha retto.
Tra l’altro – e non è certo secondario – Facci è uno dei pochi giornalisti che si muove con una certa cognizione di causa tra gli articoli del Codice Penale e di quello di Procedura Penale. Per cui, quando scrive, sa di cosa parla. E siccome quella stagione è stata (anche) segnata da una furiosa forzatura (termine edulcorato) delle leggi, ecco che quanto scrive si carica di ulteriore valore. Gente arrestata sulla base di dichiarazioni rese da parte di gente che non le aveva ancora rese, custodia cautelare un tanto al chilo, interrogatori più somiglianti a un poliziottesco con Francesco Merli che a un incombente da Stato di Diritto (questa cosa di cui tutti si impastano sempre la bocca, quando fa comodo), pubblici inviti alla delazione, violazioni del segreto istruttorio e indagati abbandonati alla stampa nudi e inermi, con la vita rovinata molto prima di una colpevolezza dimostrata (tant’è che in troppi penseranno male di togliersela, la vita). Tutto questo perché bisognava combattere il malaffare (che c’era, ma c’è anche adesso), e quindi insomma andava bene tutto. Bello leggerlo in questi giorni, in cui gli stessi giornali che ripetono ancora formidabili quegli anni (e c’è stato mica solo il ’68), ci spiegano che non si può aspirare alla pace inviando armi all’Ucraina. (Va bene, combattere per la pace è come fottere per la verginità e tutte queste belle cose: però al “Fatto Quotidiano” dovrebbero decidersi).
Che poi è sbagliato continuare a far riferimento solo a Tangentopoli, si fa un torto al libro. Perché invece Facci è attentissimo a tener vivo il parallelo con le inchieste che, negli stessi anni, andavano avanti al Sud. In questo momento, si sa, non si parla nemmeno più di Falcone, visto che è tutto un Giovanniqui e Giovannilà: con Giovanni eravamo ma proprio tipo amici amicissimi, Giovanni era l’unico a capire la sottigliezza del mio lavoro, Mi ricordo di quella volta che diedi a Giovanni l’idea di sconfiggere la mafia e lui riconobbe che si trattava di una buona idea. Un raro caso di come la morte possa trasformare un vinto in un carro dei vincitori su cui saltar sopra. All’epoca, però, le cose non funzionavano così. Falcone (non ancora Giovanni per tutti) era al centro di attacchi di ogni tipo (“la Repubblica” in testa: nel libro troverete un memorabile corsivo di Sandro Viola del 9/1/1992), e le sue proposte erano sguaiatamente attaccate dai suoi stessi colleghi (Magistratura Democratica in testa). Morto Falcone, morto Borsellino, sarebbe iniziata la stagione dei grandi processi che hanno visto Cosa Nostra più come Also Starring, perché i veri protagonisti erano Andreotti, Mannino, il Generale Mori, Contrada, etc. Con i fallimentari esiti processuali che conosciamo.
E quindi bisogna leggere Facci. Per non dimenticare, come detto all’inizio. Non dimenticare – esempio tra mille – Rutelli nel 1993:
“Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere”.
Meno male che arrivava dai Radicali, vien da dire. Pensa se no. Oppure leggere per ricordare cosa sia stato il caso Gamberale, che non è stato il caso Tortora, ma insomma non è stato certo uno scherzo. Per convincersi che è vero (credetegli, è accaduto): la Guardia di Finanza si è presentata a bussare in Parlamento per ottenere quei bilanci dei partiti già pubblicati dalla Gazzetta Ufficiale.
Che ormai lo squilibrio sia insanabile, del resto, lo si capisce dalla vicenda Palamara. Non è una pagliuzza nell’occhio: quello è un ferro rovente. Ma ha avuto il rilievo pubblico da sordo (e noioso) rumore di fondo. Non riguarda politici e nemmeno imprenditori, ma magistrati. E allora troncare e sopire, sopire e troncare. Una conclusione difficile da digerire, perché fa capire benissimo come finirà: si solleverà il tappeto e ci si sbatterà sotto la polvere. Usiamo pure le frasi più ipocrite e strafatte: in un Paese normale, una cosa del genere non sarebbe ammissibile. Se invece è accaduta – sta accadendo sotto i nostri occhi –, è perché trent’anni fa, in una galassia mica tanto lontana, è successo qualcosa.
E quindi questo è un libro che va letto. Perché poi, terminato, uno ha la possibilità di leggere anche gli altri libri di Facci, biografia di Di Pietro in testa. Così, tanto per non dimenticare.
(E se invece se siete di quelli che Facci-mi-è-antipatico-anche-se-scrive-bene, allora sappiate che – solo per voi, oggi m’arruvino! – nel libro è anche contenuto l’esilarante racconto del suo esame da giornalista, oltre alle pagine strazianti sull’assassinio di Maria Grazia Cutuli e a tante tante altre grandi sorprese).