C’è chi come Calasso a quindici anni si infortuna giocando a calcio e poi passa mesi ingessato a letto leggendo Proust. C’è chi alla stessa età trascorre la guarigione dalla pleurite e si tracanna Delitto e castigo. Se poi l’adolescente che legge babbo Dostoevskij è dalmata, quasi della stessa steppa dei russi, le cose si complicano perché il risultato finale è Enzo Bettiza di cui non voglio dare gli estremi cronologici perché se ne è andato così come se ne vanno i giornalisti, tra i fischi e gli improperi perché etichettato come ‘di destra’ quando invece le cose sono meno facili da spiegare. Questo Bettiza stampa a Genova con un editore oggi inesistente il suo primo romanzo breve, ha ventisei anni e il libretto è intitolato La campagna elettorale, in copie decimate si trova in vendita online ma è stato un Oscar Mondadori nel 1987 ed è una lettura stupenda per oggi 18 aprile perché si racconta delle famigerate elezioni del 1948.
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All’epoca Bettiza faceva vita randagia, figlio di gente importante della Dalmazia distrutta dalle guerre che però poi aveva trovato il coraggio di stare con Tito e infine coi nostri comunisti per poi lasciarli abbastanza presto, diciamo che La campagna elettorale fu un breve gesto d’addio a quella generazione. Ma non al Novecento: secolo complesso dentro cui Bettiza si fece frullare facendo il giornalista sul serio, corrispondente in Austria e altrove, spesso e volentieri nella Mosca rossa. Ma lasciando da parte questi stracci del fantasma terreno Bettiza, diciamo subito che il breve romanzo, lettura da tre ore, è cosa stupefacente e non importa rilevare che si mangia a colazione Il sentiero dei nidi di ragno, la cosa è palmare perché gli argomenti sono tangenti – partigiani e guerricciole di partito – quanto invece dal nodo della questione che è solo la scrittura, quella di Bettiza avvolge, ti fa sdilinquire, è uno slavo purosangue anche se lui non vorrebbbe ora questa etichetta e già all’epoca Pampaloni, il critico che veniva dalla Normale (un Citati avant la lettre, anche lui diplomato al palazzo dei cavalieri di Pisa), lo leggeva col prisma efficace di Dostoevskij. Non so se è per merito del talento da russo o per cos’altro, ma il punto è solo la scrittura di Bettiza che ti racconta in prima persona la preparazione delle elezioni del 18 aprile dallo sguardo dell’ispettore, e siamo davvero a Gogol’ senza rendercene conto, con una vitalità straripante da ogni pagina ma senza i freni e le remore e i sensi di colpa storicizzanti di Morselli nell’eccellente tesi romanzesca del Comunista.
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Nelle pagine di Bettiza trovi quattro personaggi scolpiti, la donna che si mangia gli uomini in partito e se uno osa rifiutarla “a malapena reprime il suo astio generoso” – l’ombra fantastica di Bettiza che è uno slavo infiltrato nella cellula di questa città che forse è Modena ma potrebbe essere Parma – il vecchio arnese di partito che sta per essere emarginato – il grande censore che arriva alla fine e non assolve né condanna il nostro ispettore il quale invece voleva far saltare il tavolo, stava per indossare i panni del grande inquisitore e invece niente.
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Romanzi così ti rendono certo di una cosa: lo scrittore ebbe vita felice se poi fece il giornalista e il saggista, l’intellettuale e via discorrendo, tutto ma non il creatore che passa lo straccio su quello che ha ideato. Bettiza scrisse in seguito un ottimo romanzo a tema su Trieste e altri due molto recenti, per Mondadori, che sembrano di un giallista di altri mondi, meno chiusi del nostro anche se i titoli non sono pretenziosi – Il libro perduto e La distrazione. In anni recenti Bettiza disse a Gnoli che Dostoevskij lo risvegliò dall’ipnosi “perché il male da qualche parte deve esserci, è una lettura per gente dai desideri complicati”. Per rispetto della sua vita di scrittore interrotta non voglio aggiungere altro a proposito di onorificenze e premi, segnalo solo che La campagna elettorale all’epoca non vinse niente ma ebbe l’appoggio di Fortini, tutto dire, cioè dalla sinistra più estrema.
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“In fondo, volerli limitare gli uomini, tagliarli fuori, insieme, dalla felicità e dalla sofferenza, io lo trovo giustissimo; e niente mai di grandezza, solo amputare, ridurre, semplificare insomma. Perché dopotutto non tanto si tratta di metter su un verdeggiante paradiso quanto piuttosto di restringere e dargli un certo ordine pulito all’inferno che già esiste”. Sembra una premonizione de Le città invisibili.
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“In certo modo curioso venivo accorgendomi che, malgrado tutto, i compagni erano rimasti buoni nel fondo. Cresciuti strani, in fretta, non potevano essere adulti completamente. Non avevo ancora pensato che tutti in politica sembriamo di volta in volta santi o canaglie per questo, perché siamo rimasti dimezzati come bambini precoci”. Il visconte dimezzato è del 1952. Si sente un’aria di famiglia…
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“Immerso fino al collo nelle faccende interne di un partito legalizzato e burocratizzato come una qualunque organizzazione di borghesi (queste carte, questi schedari, questi telefoni, il capoufficio, gli impiegati, i tirapiedi e così via) io alla fine non riuscivo più quasi a ricordare che cosa noi veramente volessimo, chi fossimo, quali cose rappresentassimo, contro chi dovessimo lottare”. Pare Il cavaliere inesistente.
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“Pensai che nelle sere di primavera le voci, il rumorio fresco e squillante della strada, hanno sempre un senso, un affanno, danno una stretta che altre ore e stagioni non conoscono. Mi sembrava di ascoltare il mondo intero rotolare per le strade in quest’ora inoltrata di aprile”. Tutto vero, caro Bettiza. Ti capisco anche se il tuo est oggi è parte di noi e la rumena affianco parla italiano senza inflessione, mentre il mio guru, prof in pensione di letteratura, mi annuncia che non ti ha mai letto ma è trionfante ché ha finito la sessione di esami online ed è diventato un uomo del XXI secolo. Ma il tuo aprile non è cambiato, vecchio Bettiza… (Andrea Bianchi)