15 Agosto 2018

“Bisogna imparare di nuovo ad amare la condizione umana”: ascoltiamo Marguerite Yourcenar

Mount Desert sembra un luogo a picco, sulle solitudini. Un luogo come il Tabor, il tabernacolo della prova, dove si reclina l’anima su pietre di fuoco.

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A Mount Desert, un’isola, nel Maine, dove d’inverno fa freddo, è morta Marguerite Yourcenar. Il luogo dove un uomo muore – che l’abbia scelto o gli sia capitato – ne distingue il destino. Questa donna, Marguerite, nelle fotografie, spesso con una sciarpa a cintare i capelli, ha una severità di bronzo: nell’occhio sinistro s’insinua l’avvenire, nel destro si sprofonda nel passato.

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YourcenarIn un’altra fotografia Marguerite è giovane, avrà poco più che vent’anni, siamo intorno ad Alexis, e il suo viso ha la nitidezza di una spada. Ecco: essere e non avere bisogno di altro. Ecco in cosa trascina il viso fotografico di Marguerite. Vivere nell’essenza – per questo, esente da voglie, dalle volute del possesso. Quasi tutte le sue creature letterarie, per questo, non vivono l’amore – lo esauriscono. Non amano, in fondo – prediligono dimenticare.

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Il potere sugli uomini e il potere sulle cose – cercando di capire se stessi, che è la cosa che sfugge, acquatica. La Yourcenar ci ha dato due libri decisivi. Memorie di Adriano (1951) e L’opera al nero (1968). Non sembrano opere di narrativa, ma tessiture. Adriano e Zenone – creature astrali e androgine – eccellono nell’arte della fuga. Anche in prigione, sfuggono – ci si può nascondere nel retro della palpebra di un passante, di un corvo.

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Dimenticare, eliminare. Questa rettitudine – che è anche inaccettabile – affascina ed è il carisma di Marguerite. Sottraendo, come uno che aspiri alla luce aspirandola, si arriva ad Adriano.

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Ricorda: non si scrive per stringere ma per liberare, per scatenare. L’anima è acqua: e “l’acqua per sua natura cede e discende”, “ogni acqua aspira a diventare vapore, e ogni vapore a ridiventare acqua”, scrive Marguerite in Scritto in un giardino, testo del 1980 da adottare come manuale di scrittura. La scrittura scolpisce con getto d’acqua: stillicidio e scintillio.

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Si è come all’interno di una rivelazione, leggendola. Ma lei è inflessibile, statuaria: dopo un po’ bisogna respirare. Leggere Il colpo di grazia. L’amore rimandato si tramuta in morte – la vita rapisce ciò di cui non ti sei approfittato. Su tutto un disincanto così cinico, una bellezza così letale, una tale assenza di fiato.

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Partire dai lati, da Anna, soror…, da Fuochi, dal Colpo di grazia, dal saggio su Yukio Mishima, dagli articoli sull’Andalusia e sul Giappone, per poi entrare in Adriano o in Zenone. Non c’è altra scelta che la scelta – Adriano o Zenone – perché la complicità richiesta è per la vita. In quarantena dal tempo.

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Domandarsi sempre, guardando l’uomo: che animale è stato, verso quale bestia si evolve, di quale pianta è l’emblema? Di Marguerite riconosco l’ultima metamorfosi.

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Questa donna che si emoziona davanti al fiordo in Alaska e ammirando un busto marmoreo del I secolo a Roma – di cui solo lei conosce il sangue e la genia – ha disintegrato ogni allettante discorso su ‘natura’ e ‘cultura’.

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A Mount Desert prepara il tè: l’oceano imprime il suo marchio salino al bosco; gli odori si incrociano – icona di lupo e di capodoglio. In quel luogo fraterno e lontano, trae bisbigli che provengono dalle Fiandre e confessioni di duemila anni fa. L’acqua, nel tè, oscilla come l’occhio di un Hermes imbarazzato. Da bambina, la somiglianza con Alice Liddell, che ha ispirato il reverendo Carroll: comunque, è sempre la marcia in altri mondi. Vorrei servire il tè a Marguerite, mentre lei ci parla. (d.b.)

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YourcenarIl volersi assicurare l’avvenire è un punto di vista borghese. Intanto, non ci si assicura un bel niente, non si sa quale sarà l’avvenire. Poco tempo fa, ho visto invece il caso di una famiglia modesta minacciata di perdere tutto per via di una serie di ipoteche e di debiti di cui non poteva pagare gli interessi; ebbene, mi ha colpito molto constatare a che punto quell’uomo e quella donna, il padre e la madre, fossero pronti a fare qualunque cosa, dicessero: “Farò la cameriera in un ristorante, lavorerò come giardiniere, o come imbianchino se non potrò fare il giardiniere. E se non potremo restare qui, andremo altrove”. È una forma di libertà. Li ammiravo, erano liberi. Quella che considero una forma di schiavitù è la preoccupazione del poveraccio (che sia pagato centocinquantamila dollari all’anno come dirigente, o diecimila come impiegato, la cosa non cambia) che trema all’idea di lasciare la fabbrica, benché avvelenata dall’inquinamento, o produttrice di oggetti dannosi o stupidamente inutili, perché ha paura di perdere benefici e pensione. Questa è schiavitù, perché quell’uomo non oserà mai protestare, qualunque cosa avvenga. E non potrà neppure protestare per ragioni impersonali, politiche o sociali: è schiavo di una “situazione”.

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Economizzo la legna che c’è in commercio perché bisogna risparmiare la foresta… Non sacrificare un filo d’erba, dare il senso di una tappa, una fermata sul ciglio della strada. Non mi piace l’idea di possedere troppe cose. Se ne conservano sempre troppe… Mi sono fatta una filosofia, se posso usare una parola così solenne, conforme alla quale non compero mai niente senza prima chiedermi se in fondo non potrei farne a meno. Il mondo è già così strapieno di cose: perché peggiorare la situazione? Del resto, potrei andarmene da qui senza alcuna difficoltà. Rimpiangerei gli uccelli, rimpiangerei Joseph, lo scoiattolo, e tutto finirebbe lì. Ovunque si muoia, si muore su un pianeta.

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…se si è romanzieri, la cosa consiste nel lasciarsi investire da un personaggio, ma anche nel fare un vuoto totale di idee, nell’eliminare tutto ciò che si è acquisito, nel fare tabula rasa di tutto.

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L’uomo di sinistra, conformemente al suo credo, manifesta la sua fede non in un certo progresso, ma in un progresso certo, il che è più grave, e lo fa assomigliare ai primi cristiani che credevano a un prossimo ritorno del Signore in terra, alla parousía. In questa nostra epoca, in cui il progresso tecnologico si è costantemente accompagnato a catastrofiche calamità, sarebbe un atteggiamento fideistico alquanto ingenuo. Ma in che cosa è diverso l’uomo di sinistra, ottimista a ogni costo, dal capitalista di destra che anche lui sogna il progresso, o quanto meno lo sognava fino a ieri? Ogni volta che vado in un supermarket, cosa che del resto mi succede di rado, mi sembra d’essere in Russia. È lo stesso cibo imposto dall’alto, assolutamente uguale in ambedue i sistemi, con la sola differenza che qui i prodotti sono imposti dalle multinazionali e là da organismi statali. In un certo senso, gli Stati Uniti sono altrettanto totalitari dell’Urss, e in ambedue i paesi, come del resto dappertutto, il progresso (vale a dire l’incremento del benessere umano immediato), o semplicemente il mantenimento dello status quo presente, dipende da strutture sempre più complesse e sempre più fragili… Bisogna imparare di nuovo ad amare la condizione umana qual è, accettare i suoi limiti e i suoi rischi, avere un rapporto diretto con le cose, rinunciare ai nostri dogmi di partito, di patria, di religione, tutti intransigenti e dunque tutti forieri di morte. Quando faccio il pane, penso alla gente che ha fatto spuntare il grano, penso ai profittatori che ne gonfiano artificialmente il prezzo, ai tecnocrati che ne hanno guastata la qualità – non che le tecniche recenti siano necessariamente un male, ma il fatto è che si sono messe al servizio dell’avidità che è certamente un male, e che la maggior parte di esse sussiste solo in virtù di grandi concentrazioni di forze che sono piene di potenziali pericoli. Penso a chi non ha pane, e a chi ne ha troppo, penso alla terra e al sole che fanno crescere le piante.

Marguerite Yourcenar

*I testi sono tratti da: Marguerite Yourcenar, “Ad occhi aperti. Conversazioni con Matthieu Galey”, Bompiani, 1982 (trad. it. di Laura Guarino)

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